7.0
- Band: VISION DIVINE
- Durata: 00:59:56
- Disponibile dal: 23/01/2009
- Etichetta:
- Frontiers
- Distributore: Frontiers
Spotify:
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Eccoci al tanto atteso ritorno dei Vision Divine dopo la dipartita del cantante Michele Luppi e il rientro dell’ex-membro, nonché cantante dei Rhapsody Of Fire, Fabio Lione. Ci si aspetta molto da questo lavoro, il che è lecito, dal momento che la band arriva da tre dischi ottimi, registrati proprio con Michele alla voce. Il nuovo cambio di formazione avrà lasciato i suoi segni? Sì e no… No nel senso che Fabio ha uno stile differente da Michele, ma è comunque un ottimo cantante, dotato di grandi versatilità ed espressività; sì perché purtroppo nel disco troviamo un’alternanza tra pezzi qualitativamente molto buoni e altri invece meno convincenti, in certi casi proprio per via di linee vocali poco incisive. Il lavoro parte infatti col piede giusto con “Letter To A Child Never Born”, un brano di nove minuti in pieno stile Vision Divine, dal riffing compatto, un ritornello power molto ben riuscito e un bel break centrale dominato dall’accoppiata piano-voce che anticipa i fulminei soli di chitarra e tastiera. La successiva “Violet Loneliness” alza ulteriormente il livello grazie a delle melodie vocali molto catchy ed efficaci. Un mid tempo dal ritornello immediatissimo che ha tutte le carte per diventare un classico della band. Pregevole, qui come in altre occasioni, il lavoro di Alessio Lucatti alle tastiere. Il primo calo di tono arriva però con “Fading Shadow”, brano dal taglio progressive giocato sull’alternanza tra momenti più delicati e altri dove il riff si fa decisamente più serrato. Il ritornello purtroppo è uno degli episodi meno ispirati del disco e Fabio sembra insistere un po’ troppo nell’allungare le note con il suo vibrato, fatto che nel disco ricorre in più occasioni. Buona “Angel In Disguise”, una semi-ballad con inserti sinfonici dove Fabio dà prova delle sue abilità muovendosi su un refrain dalla linea non molto diretta, che richiede più di un ascolto per essere appezzata. Altri due momenti che invece hanno convinto meno il sottoscritto sono la thrashy “The Killing Speed Of Time”, dove il contrasto tra strofe decisamente estreme per i canoni del gruppo ed il ritornello molto melodico appare un po’ slegato, e “Out Into Open Space”, mid tempo con un bel bridge dalle dolci melodie, che però porta ad un chorus abbastanza statico e anonimo. “The Streets Of Laudomia” è, al contrario, uno degli highlight del lavoro, nonché dell’intera carriera della band. Un ottimo pezzo dalla strofa costruita su tempi medi, con un bel tiro, un bridge più tirato ed una bella apertura melodica sul ritornello. Buone anche “Fly”, anch’essa dalle melodie molto accessibili, e la conclusiva titletrack, lento molto atmosferico, triste e profondo, le cui tastiere portano addirittura alla mente gli Ayreon di Arjen Lucassen. Presente anche una cover di “A Touch Of Evil” dei Judas Priest, molto ben riadattata sia strumentalmente che come cantato. La produzione è discreta e l’artwork, volutamente freddo come colori e in linea con il taglio malinconico delle tematiche incentrate sulla perdita di un figlio, riprende l’angelo che trovavamo sull’album di debutto targato 1999. In sostanza, “9° West Of The Moon” è un album vario, fatto di episodi veramente notevoli alternati però ad altri abbastanza interlocutori che lo rendono inferiore ai tre dischi dell’era Luppi e non gli permettono di andare oltre ad un sette scarso.