8.0
- Band: VLTOR
- Durata: 00:58:35
- Disponibile dal: 20/09/2024
- Etichetta:
- Dusktone
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Esordio su lunga distanza per questa nuova, interessantissima realtà nazionale in cui militano ex membri di Frangar e HomSelvareg: dopo l’EP “Odi” fatto uscire nel 2019, con il nuovo “Non Auro Sed Ferro” la band vuole rimarcare la celebrazione del passato, della penisola italica abitata dai suoi popoli pagani e da uno in particolare che diverrà dominante: quello dei Romani, fondendo il pagan black metal con l’elemento folk in maniera inaspettata e molto personale.
Dopo una bella intro atmosferica, il cui scopo è quello di fare un ancoraggio ipnotico all’ascoltatore per poterlo trascinare nell’antico mondo di culti cruenti e genuini, di foreste abitate dalle divinità e di popoli guerrieri, arriva “Taurobolio”, che porta il nome del rito romano in cui veniva immolato un toro sulle are; il compito di questo brano è proprio quello di ‘sacrificarsi’ in apertura di album per fecondare i brani seguenti, che sembrano prendere la linfa vitale da questo primo capitolo davvero entusiasmante.
Un indizio sul fatto che il paganesimo sentito dai membri di questa band sembri più che genuino è dalla musica stessa degli Vltor: non è il classico black metal condito eccessivamente dalla corrente folk fino a tramutarsi in musica da festival popolare, in cui tutto l’elemento ancestrale e più intimamente religioso viene regolarmente spazzato via da ritmi allegri di balli fatti in gruppo; qui l’elemento folk viene dato solo da percussioni e strumenti a fiato (principalmente flauti, se non andiamo errati) ed in questa scelta sta la bontà di questo album molto affascinante.
La produzione è perfetta, equilibrata, con uno screaming convincente da parte di Flamen Martialis (colui che si occupa anche degli strumenti a fiato e delle percussioni) e mai preponderante, le chitarre sono ruvide ma anche pesanti ed il resto si sente nitidamente.
Il primo riff della già citata “Taurobolio” potrebbe far temere l’ennesimo esempio in stile un po’ Darkthrone (ma non quelli dell’epoca d’oro…), invece gli Vltor appena possono pigiano sull’acceleratore e durante tutto l’album suonano a buon ritmo un black metal lineare, scarno, ma con dei buoni riff a supporto. Ottimo è il lavoro, infatti, di Vestigian alle chitarre poiché i riff da lui suonati pur non essendo trascendentali sono ispirati e creano delle trame interessanti. Eppure, ciò che caratterizza questo album e lo stile stesso della band è l’uso degli strumenti non convenzionali, almeno in un certo tipo di musica estrema.
Per questo motivo “Non Auro Sed Ferro” ha tra i propri ‘padri precursori’ sicuramente quel capolavoro intitolato “Tuatha Na Gael” degli irlandesi Cruachan uscito nel 1995: in quell’album era stato fatto uno dei primi tentativi di accostare il folk al black metal grezzo ed il risultato fu sorprendente, perché l’elemento folk non snaturava l’essenza violenta del black metal, non lo trasformava in qualcosa di folkloristico come invece avverrà anni più tardi.
Tanti, tantissimi sono i gruppi che hanno seguito quella traccia stilistica, eppure l’utilizzo degli strumenti a fiato, certe atmosfere arcaiche e una patina misteriosa avvicinano le due release nonostante i decenni che le separano. Ci sono delle ovvie differenze tra l’esordio della band irlandese e del nostro combo italiano, proprio nella diversa tradizione folk dei paesi di appartenenza; dunque state tranquilli, non troverete niente di irlandese in “Non Auro Sed Ferro”. I brani hanno tutti una loro storia ed una peculiarità, hanno una carica ancestrale non indifferente e dipingono i tempi antichi con poche pennellate melodiche.
Gli strumenti a fiato qui sono dominanti e costruiscono in pratica gran parte delle melodie della release, scelta che a più di qualcuno suonerà sicuramente strano e potrà disorientare, ma in realtà la decisione si rivela davvero vincente in quanto è stata pensata e realizzata ad arte.
Altro brano degno di nota è sicuramente “Haec Est Italia”, con un crescendo davvero notevole e maestoso, oppure l’ode al divino in “Deus Silvarum”, dove è possibile immergersi in un ipotetico bosco, e nella conseguente sensazione mistica derivata. Anche “Fons Perennis” ed un paio di altri capitoli sono ammantati da un’aura arcana dove si percepisce che nel cuore del bosco sacro sta per accadere qualcosa, ma non si sa cosa di preciso.
La lettura più appropriata ascoltando questo album potrebbe essere proprio il “De Origine Et Situ Germanorum” dello storico latino Tacito quando descrive – sfortunatamente troppo brevemente – il misterioso rito sacro del popolo germanico dei Semnoni.
Era da un bel po’ che in ambito pagan black metal italiano non si sentiva una release di questo livello: quando si trovano interpreti così bravi nel rappresentare in musica determinate tematiche, il sentimento pagano non può che fortificarsi.