8.0
- Band: VOLBEAT
- Durata: 00:56:45
- Disponibile dal: 02/08/2019
- Etichetta:
- Vertigo
- Distributore: Universal
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In un panorama musicale come quello odierno, in cui il tasso di riciclo e di fruizione dei contenuti è pari a quello della plastica, per fortuna ci sono realtà come i Volbeat, capaci di avere un proprio trademark riconoscibile, a sua volta frutto di diverse contaminazioni, e di mantenere sempre alto il livello di una discografia giunta ormai al settimo sigillo. Dopo lo sdoganamento commerciale avvenuto con “Outlaw Gentlemen & Shady Ladies”, seguito a ruota dal leggermente meno ispirato “Seal The Deal & Let’s Boogie”, era difficile aspettarsi un ritorno verso sonorità più heavy, ed in effetti il raggio d’azione della band danese si sposta verso coordinate ancora più rock, pur facendo come di consueto della varietà il suo principale punto di forza. Se a livello lirico, come confermato dallo stesso Poulsen in sede d’intervista, “Rewind, Replay, Rebound” è un disco che guarda alla giovinezza del suo autore (evidentemente attraverso lo specchio temporale della fresca paternità), anche dal punto di vista musicale l’intento è quello di riprendere il meglio delle proprie creature discografiche, riproponendole con la sensibilità maturata in quindici anni vissuti sempre in crescendo. L’apertura affidata al singolo di lancio “Last Day On Earth” per la verità non colpisce particolarmente nel segno, ma già dalla successiva “Pelvis On Fire” (evidente richiamo fin dal titolo alle sonorità rockabilly un po’ trascurate negli ultimi tempi) c’è di che divertirsi, così come sfidiamo chiunque a resistere al boogie-metal di “Die To Live” (in cui compare anche il cantante dei Clutch Neil Fallon) o alle ritmiche trascinanti di “Sorry Sack of Bones” (il cui riff portante ricorda curiosamente la sigla del vecchio Batman). Pollicione assicurato anche per le atmosfere nostalgiche di “When We Were Kids” e più corali “Maybe I Believe”, così come si balla con il punk-rock a là Ramones della brevissima “Parasite” e il punk-beat della più articolata “Leviathan”. E il metal? Ecco, volendo muovere un appunto a Poulsen e soci, potremmo citare la già citata latitanza di sonorità più heavy (eccezion fatta per la thrasheggiante “The Everlasting”, nonché per il valido intermezzo solista di Gary Holt su “Cheapside Sloggers”) e la conseguente tendenza a privilegiare l’anthem da stadio come un qualsiasi Ligabue (si senta ad esempio la trascinante “The Awakening of Bonnie Parker”), ma d’altro vista la qualità media dei pezzi proposti non ci sentiamo certamente di criticare l’operato dei quattro, ormai secondi in termini di popolarità nazionale solo ai biscotti al burro e all’Amleto. Non saranno più quelli dei primi quattro dischi, nè degli ultimi due, ma i Volbeat restano una band con una forte personalità, da gustare con calma per assaporarne appieno tutte le sfumature.