7.0
- Band: VOMIT FORTH
- Durata: 00:29:06
- Disponibile dal: 08/07/2022
- Etichetta:
- Century Media Records
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Sembra che dopo gli exploit commerciali di Frozen Soul e Sanguisugabogg – invero non supportati da un estro creativo che ne legittimi hype – la Century Media ci abbia preso gusto a setacciare il roster Maggot Stomp in cerca di giovani virgulti da gettare in pasto al sempre più ricettivo pubblico death metal di questi anni. Oggi è la volta dei Vomit Forth, ignorantissima formazione del Connecticut che, dopo una gavetta fatta di qualche release minore e tanta attività live, confeziona una prima prova sulla lunga distanza assolutamente degna delle aspettative generate dal monicker, la quale (per fortuna) fa il proprio lavoro in modo assai più convincente dei vari “Crypt of Ice” e “Tortured Whole”.
Un disco dall’indole genuinamente barbara e apocalittica, che immortala i quattro ragazzi alle prese con un suono pesantissimo, a tratti caotico, in cui quelli che sono i loro modelli stilistici vengono presi e fusi in un abominio votato esclusivamente all’orrore e all’impatto. In un angolo del ring, la scuola death metal dell’East Coast (Dying Fetus, Internal Bleeding, Skinless, ecc.), con tutto il suo carico di voci gutturali e soluzioni demolitrici; dall’altro, il vero hardcore-metal a stelle e strisce, quello coniato negli anni Novanta da Integrity, Disembodied e All Out War e attualizzato da gente come Knocked Loose e Code Orange, a cui peraltro i Vomit Forth si rifanno all’altezza di vari intermezzi e interferenze dal sapore digitale. Una proposta sul baratro dell’eccesso e della degenerazione, che però, nelle mani del gruppo americano, genera un certo fascino e fa chiudere un occhio sulle ingenuità che qua e là emergono durante l’ascolto, per il più classico degli album ‘da palestra’ o da utilizzare come colonna sonora durante un pestaggio a sangue in un vicolo.
Rifinite dal noto produttore Arthur Rizk (Kreator, Power Trip, Xibalba), le undici tracce della raccolta si muovono costantemente fra breakdown catastrofici, crescendo di tensione imbevuti di ostilità e parentesi più snelle in cui il riffing non fatica a svelare una discreta effervescenza, miscelando death metal e metalcore vecchia scuola in un cocktail capace anche di prendere una piega più ‘orecchiabile’ della media (si senta il refrain della titletrack). Quando poi si scopre che il chitarrista è figlio di Rick Brayall, ascia degli ormai storici 100 Demons, il quadro d’insieme diventa ancora più chiaro e definito, per un ascolto che parte in sordina (le ‘slammate’ dell’opener “Eucharist Intact” non fanno gridare esattamente al miracolo), flette i muscoli e infine, complici episodi come la suddetta “Seething Malevolence”, “Predatory Saviour” o “Pious Killing Floor”, strappa un compiaciuto ghigno di approvazione. Se vivete di pane e ignoranza, e se avete apprezzato particolarmente l’esordio degli amici 200 Stab Wounds, preparatevi a inserirlo nella vostra playlist estiva.