7.0
- Band: VORDER
- Durata: 00:39:42
- Disponibile dal: 26/05/2023
- Etichetta:
- Suicide Records
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Noti fino a poco fa, ma soprattutto fino al precedente lavoro “Led To Exile” (2019), come semplicemente V – monicker alquanto scarno e subdolo, soprattutto da scovare tra i meandri degli algoritmi dei motori di ricerca – gli svedesi Vorder si ripresentano ai post-pandemici nastri di partenza ripuliti e parzialmente rinnovati. Un nuovo nome, una nuova immagine e, non esattamente frutto di una rivoluzione apocalittica ma comunque ben evidente nel suo sviluppo, un suono anch’esso ‘nuovo’.
La formazione di Dalarna, che vede tra le sue fila l’ex batterista dei Katatonia Daniel Liljekvist, è partita come piuttosto canonica sludge post-hardcore band: groove, marciume, cadenze più o meno sabbathiane, qualche tirata più moderna in salsa post, tanto stomp, poca atmosfera. Ora, giunta al terzo full sulla lunga distanza, intitolato “False Haven”, le cose si complicano un attimo. Un giudizio lapidario, breve e chiarificatore potrebbe essere il seguente: i Vorder ampliano le loro vedute, spaziando tra più generi e innestando sempre più massicce dosi di atmosfera nella loro musica.
Già, se prima si odorava lo stantio fetore paludoso in cui annaspa solitamente lo sludge, adesso quello stesso fumo pare essersi raffreddato e trasformato in nebbia più gelida, solo flebilmente rischiarata dal sole pallido dell’inverno. La presa di gruppi quali Katatonia, Cult Of Luna, Wayfarer, i compianti Ghost Brigade e Nahemah, ad esempio, si fa più ferrea e trasla i Vorder da paesaggi rocciosi e fangosi verso foschie ben più indefinite, colorate da tenui slanci cromatici, baluginanti da emozioni profonde che, purtroppo, emergono solo a tratti. Epperò, quando lo fanno, vanno dritte al sodo e centrano in pieno il bersaglio, ne è chiaro esempio la sognante opening track “Introspective”, dall’incedere onirico, ipnotico e disperato, segnato dalle grida strozzate di un ottimo Andreas Baier. Tale brano iniziale, molto diverso dal passato del gruppo, stupisce per la sua bellezza ma, altresì, mette sul chi va là l’ascoltatore, curioso di capire nel seguito della tracklist dove andranno a parare i nostri quattro.
E la risposta si delineerà solo alla fine dei quaranta minuti di disco, trascorsi bene, con piacevole e continuo interesse, ma velati da una forte impressione d’ondivaghezza, di non aver capito bene cosa voglia fare il gruppo, alle prese con quello che sembra essere – lo scopriremo in futuro – un disco di transizione. Sì, perchè “Beyond The Horizon Of Life”, la traccia numero due, si apre e chiude con dei pizzicato tristissimi, presentando però nel mezzo un incedere ancora liquido e rarefatto che poi si trascina verso un classico interludio sludge, groove a manetta e giù la testa: brano semplice semplice, lungo il giusto, affascinante quanto basta. Si cambia ancora leggermente con “The Few Remaining Lights”, una canzone che punta ancora sull’atmosfera, prima languida e nostalgica, poi inalberandosi tra riffoni, passaggi messianici e arrangiamenti di tastiera che ricordano da vicino i My Dying Bride, anche per l’evidente somiglianza catarrosa del growl di Baier con quello di Aaron Stainthorpe, per una versione dei Vorder molto verso il doom-gothic britannico. Addentrandosi nella seconda parte dell’album si arriva alla title-track, episodio diretto, tra Mastodon e Kylesa, con melodie acidule e solida andatura in 4/4, dunque un brano che devia in modo netto, più che altro dal punto di vista del mood, dal binario principale di “False Haven”; non male, se lo si piglia nel modo giusto.
Restano le lunghe propaggini dei momenti finali del disco, “Judgement Awaits” e “Come Undone”. La prima è un piccolo capolavoro, tentacolare, insidiosa, avvolgente, dove il post incontra il doom, il groove e la commozione di una melodia stupenda, e ancora poi accelerazioni e dinamismo fin qui un po’ latente, un continuo cambio di sensazioni, ritmiche e soluzioni, sette minuti davvero incantevoli. “Come Undone”, dal canto suo, chiude i giochi attraverso un macigno sludge/post metal desolante e straziante, impregnato di Sabba Nero fino al midollo, voci cangianti ed evocative, una liturgia metallica di spessore e ben posta in fondo al lavoro.
Insomma, dopo una discreta serie di lodi e belle parole, ci troviamo a dover assegnare ai Vorder solo un sette di quasi ordinanza; in realtà si meritano quasi un 7.5, ma, riflettendo meglio, il tenore dei brani non va oltre un buono standard qualitativo del genere. Già, ma quale genere e quale standard? Forse meglio andare ad ascoltare tutto l’album e farsi un’idea propria, che con le fruizioni non potrà far altro che cementarsi.