7.0
- Band: VOYAGER
- Durata: 00:42:44
- Disponibile dal: 01:11:2019
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
I Voyager giungono con “Colours In The Sun” al loro settimo full-length, che segue di un paio di anni il precedente “Ghost Mile”, ma stavolta con un’etichetta alle spalle, la Season Of Mist. Sicuramente parliamo di un gruppo particolare, come conferma questo loro nuovo album: il leader Danny Estrin ha usato assai efficacemente una metafora per descrivere la loro musica, immaginandola come il figlio che nascerebbe dall’incontro tra Dream Theater e Depeche Mode. Certo, l’esempio è forse un po’ semplicistico rispetto alle tante influenze dei Voyager, ma l’accostamento in effetti non è così campato in aria e anzi rende assai bene l’idea. Nel loro stile ci sono infatti tanti elementi diversi: c’è un sound marcatamente ottantiano, sonorità new romantic, un approccio vocale praticamente pop, il tutto inframmezzato di tanto in tanto da ritmi prog e qualche sporadico riff vagamente metal, con un utilizzo massiccio di synth. Insomma, uno stile sicuramente molto personale, che si concretizza in un disco vivace, come il titolo stesso suggerisce, ricco di colori, a tratti quasi imprevedibile. L’opener “Colours” sembra infatti un pezzo dance, sul quale poi s’innesta qualche chitarra, mentre “Water On The Bridge” fa emergere il lato più duro della band australiana, con una traccia praticamente djent. Molto bello un pezzo rockeggiante come “Sign Of The Times”, ma gli apici del disco sono forse rappresentati dalla cangiante “Severomance”, da “Brightstar” e da “Entropy” (in quest’ultima peraltro compare in veste di guest Einar Solberg dei Leprous).
La nostra sensazione è che i Voyager sembrino volere a tutti i costi rifuggire etichette o schemi di sorta, perchè in fondo è più facile definire cosa non sono: non sono metal, non sono prog, non sono pop, ma si muovono in un continuo gioco di rimandi e allusioni, facendo affiorare a turno tutte le proprie influenze, in un coacervo di atmosfere e melodie perlopiù accativanti e orecchiabili, nelle quali fanno capolino ogni tanto passaggi più duri o più tecnici. Contrariamente alle apparenze, non è detto che sia semplicissimo calarsi nel loro contesto sonoro e districarsi tra tutte le sfumature del loro sound, anzi forse persino la band stessa in qualche frangente sembra faticare a trovare un ottimale equilibrio in tal senso. Lo sforzo però di fare qualcosa di originale è davvero apprezzabile, per cui, per chi non li conoscesse ancora, vale la pena di accostarsi alla loro musica, a patto che, a scanso di equivoci, lo si faccia chiaramente con la massima apertura mentale possibile.