7.0
- Band: WHITE BARONESS
- Durata: 00:36:00
- Disponibile dal: 07/11/2025
- Etichetta:
- Primitive Reaction
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Provenienti da varie piccole realtà dell’underground finlandese, i White Baroness debuttano con “War Chariots”, un album che testimonia un’identità già chiara e un’urgenza espressiva notevole, soprattutto per una band agli esordi. I trascorsi dei ragazzi in ambito speed e black-thrash lasciavano presagire un disco più rozzo e istintivo, ma qui il gruppo in un certo senso sorprende, scegliendo di imboccare una strada più nettamente black metal, senza rinnegare del tutto certe origini vecchia scuola, ma filtrandole attraverso un gusto melodico e un’energia costantemente arrembante.
Nonostante l’immaginario estetico rimandi a un certo tradizionalismo – look compreso – i White Baroness non si rifugiano insomma nella nostalgia ottantiana, optando invece per una rielaborazione di certe correnti anni Novanta, guardando in particolare al versante svedese e al glorioso catalogo No Fashion Records, riferimento dichiarato tanto dalla band quanto dall’etichetta. Ci troviamo così davanti a una manciata di pezzi estremamente tirati, spesso appunto essenziali a livello di strutture e variazioni, ma anche melodici sul fronte chitarristico, con quelle tipiche “smandolinate” di marca svedese a dominare gran parte del materiale. Vengono alla mente i Naglfar di “Diabolical”, i primi Dark Funeral, Lord Belial, più ovviamente tanti altri nomi minori di quel filone. Si sente persino qualcosa dei primissimi The Crown, quando erano ancora noti come Crown Of Thorns.
I brani di “War Chariots” si muovono quindi su coordinate serrate e prive di compromessi: le strutture sono appunto per lo più semplici, talvolta addirittura scarne, ma l’equilibrio tra ferocia e melodia mantiene alta la tensione e impedisce all’ascolto di risultare monocorde. È un disco che procede per slanci e assalti, più interessato alla spinta che alla costruzione atmosferica: nessun orpello epico, nessuna divagazione ambientale, solo pura aggressione. In questo, emerge ogni tanto anche l’influenza dei Nifelheim – band spesso citata dai membri in altri loro progetti – la quale si riflette in un’attitudine smargiassa e orgogliosamente “da battaglia”.
La produzione, ruvida ma equilibrata, sottolinea bene l’immediatezza del materiale, mettendo in risalto le instancabili chitarre e un lavoro ritmico nervoso e tagliente. La voce, acida e sferzante, si inserisce nel mix con efficacia, mantenendo quel tono da maledizione scagliata più che da urlo disperato. La tracklist – sette episodi in poco più di mezz’ora – garantisce compattezza e, pur nella relativa uniformità dei brani, evita di perdere smalto a lungo andare. Anzi, a ogni ascolto si coglie meglio la coerenza e la misura di un songwriting che, pur senza inventare nulla, mostra idee solide e una visione precisa. C’è in effetti qualcosa di ostinatamente vivo nella furia controllata dei White Baroness, nella loro scelta di privilegiare l’impeto alla teatralità, la tensione alla magniloquenza.
Laddove molte giovani formazioni si rifugiano nella reverenza verso i modelli storici – basti pensare ai vari tributi ai Dissection che puntualmente emergono dall’underground – qui si avverte invece una volontà di incarnarne lo spirito, più che di riprodurne le forme. Il risultato è un debutto grezzo per certi aspetti, ma che nel suo insieme convince per autenticità e spinta; un disco che non cerca rifugio nella nostalgia, ma preferisce mordere, spingersi in avanti con la stessa energia cieca e febbrile che animava i dischi a cui si ispira. Se questo è solo l’inizio, i White Baroness hanno già trovato la propria direzione – e non sembrano intenzionati a rallentare.
