7.5
- Band: WHITE WARD
- Durata: 00:40:26
- Disponibile dal: 12/05/2017
- Etichetta:
- Debemur Morti
- Distributore: Audioglobe
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Prendete una base post black metal, alla quale andrete ad aggiungere una punta di depressive che richiama, a fare un nome, i Lifelover, un pizzico di My Dying Bride, un’abbondante varietà di chitarre che spaziano dal riffing black classico a più aperte vedute e, infine, un tappeto elettronico à la Ulver di “Perdition City”. Fate amalgamare e aggiungete un sax di estrazione jazz che verrà messo in primo piano più di una volta, e avrete “Futility Report”, il primo interessantissimo album degli ucraini White Ward. La band esiste dal 2012 e debutta oggi sulla sempre oculata Debemur Morti con un lavoro che fa dell’eclettismo la sua arma principale. Già dall’apertura ad opera di “Deviant Shapes” annusiamo che qualcosa di diverso sta per irrompere nei nostri padiglioni auricolari, quando un inizio quasi lounge viene interrotto da del blast beat furioso che va dunque ad irretirsi in un assolo di sax che, seppur straniante di primo acchito, riesce a farsi ascoltare con attenzione, prima, e ammirazione subito dopo, quando riusciamo ad assimilare e normalizzare le melodie presentateci. Il sax, come detto, non è assolutamente uno strumento di contorno utilizzato al fine di poter ‘avere qualcosa di diverso’ all’interno del progetto, è anzi una voce che continua ad apparire, spesso in primissimo piano, e che connota tantissimi momenti, in particolare un brano inaspettato come “Rain As Cure”, che tanto deve al già citato “Perdition City” (di cui, secondo la fascetta pubblicitaria, questo “Futility Report” sarebbe una versione metal). Brano, questo, che farà felici i palati più open minded del filone black e post black, così come i ritorni all’efferatezza più aggressiva del genere torna a fare da padrona con ad esempio la successiva “Black Silent Piers” o nella cangiante e buonissima title track, dove la componente jazz è invece più atmosferica che musicale, lontana, portando a compimento una summa generale della violenza di partenza e di un finale elettronico che quasi ci porta alla mente gli Aborym ai tempi del loro esordio. Paragoni a parte, l’incedere di quest’opera è davvero vario e tende a non stancare, anzi: la bontà nell’esecuzione e la complessità di alcuni momenti fanno si che ad ogni giro sul lettore un nuovo particolare venga riconosciuto dall’orecchio dell’ascoltatore, il che gioca assolutamente a favore dei White Ward. Non potevamo chiedere di più agli ucraini, e per essere un debut siamo al cospetto di un lavoro davvero brillante. Il capolavoro, invece, lo attendiamo alla prossima uscita.