8.0
- Band: WHITECHAPEL
- Durata: 00.40.12
- Disponibile dal: 29/03/2019
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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La voglia di prendere a spallate la propria zona di comfort e di evolvere la propria formula che ha colpito i pionieri del deathcore Whitechapel è arrivata al culmine in “Mark Of The Blade”, album del 2016 che ha introdotto le temutissime ‘clean vocals’ in un contesto tutto sommato coerente, evitando di far insorgere i sostenitori storici. Il sostegno della propria fan base unito alla confidenza dei propri mezzi e allo status ‘a prova di critiche’ ormai raggiunto da un pezzo permettono alla band di Knoxville di continuare sulla traettoria dell’album precedente, con una singola fondamentale differenza, che li fa puntare dritti alla storica vetta di “This Is Exile”: parliamo dell’approccio profondamente personale dei testi di Phil Bozeman, che uniti ad una prova vocale costantemente al limite, tra gutturali estremi, screaming e sentiti passaggi puliti, affronta la propria infanzia problematica attraverso diversi punti di vista, tra cui quello della madre tormentata da turbe psichiche (dal diario della quale sono stati tratti parecchi stralci di testi). Il disturbante alone di realismo (“Based On True Events” recita la copertina facendo il verso al poster di un film) eleva all’ennesima potenza gran parte dei brani, che battagliano per intensità con gli episodi migliori in discografia: “Forgiveness Is Weakness” e “When a Demon Defiles a Witch” sono pezzi travolgenti e punitivi, che straripano oltre ai confini del deathcore e saranno apprezzati anche da amanti di sonorità differenti. “Black Bear” e “Brimstone” cadono invece in territori groove metal, mentre “We Are One” spinge sull’acceleratore raggiungendo vette di intensità toccate raramente dai mostri del Tennessee, sfruttando la strapotenza tecnica del batterista (di passaggio?) Navene Koperweis. A schiacciare il tentativo di evoluzione dei Suicide Silence con un ‘Mitch Lucker stomp’ c’è poi l’impressionante “Hickory Creek”, primo esperimento completamente a voci pulite che fa soppesare l’autenticità del coinvolgimento del protagonista assoluto Bozeman, sorretto con totale maestria dalla propria band. Un disco ambizioso e profondo quanto non ci saremmo mai aspettati il cui limite più grande risiede nella percezione storica dei Whitechapel, che in questo momento andrebbe cancellata e riscritta per godere appieno di “The Valley”. Un disco che riesce a recuperare la brutalità del passato senza troppi rimandi artistici, dando spazio contemporaneamente a sprazzi di melodia. Il lascito di Phil Bozeman come artista è oggi nelle nostre mani, incastonato in un disco che ridefinisce magistralmente una band al settimo album.