7.0
- Band: WITCHES OF DOOM
- Durata: 00:44:15
- Disponibile dal: 29/04/2016
- Etichetta:
- Sliptrick Records
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Reduci dal buon esordio di “Obey” nel 2014, i romani Witches Of Doom si ripresentano sul mercato a circa due anni di distanza con un album affine all’identità sonora plasmata nel primo capitolo discografico. Uno stile sfaccettato, quello che avevamo assimilato con l’opera prima, che andava a pescare nel doom, nel gothic rock e nel dark metal novantiano, increspando il tutto con un suono di chitarra richiamante l’universo stoner. Nel periodo intercorso fra i due full-length non è cambiato molto, sarebbe stato illogico attendersi degli stravolgimenti a una formula che aveva dimostrato di funzionare, anche se il gruppo non è rimasto affatto fermo e ha svolto un’interessante perlustrazione all’interno dei generi già frequentati. Ce ne accorgiamo immediatamente con l’opener “Lizard Tongue”, cadenzato molto ritmico aperto da synth di forte derivazione ottantiana, bilanciati da un riffing secco e metallico. Il refrain piacione si muove felpato fra i Moonspell più commerciali e i Sisters Of Mercy, dispensando con parsimonia il delay. Si va sul sicuro, insomma, però si capisce che il rapporto di forza fra chitarre e tastiere si è invertito, con le seconde a prendere piede e fungere da vero elemento cardine della proposta. Impressione accentuata da “Run With The Wolf”, artefice di un dark rock soffuso, imperlato di un giro organistico-pop che riporta alla mente alcune trame dei Faith No More di “Angel Dust”. La sei corde incalza nelle strofe e si dirada nel refrain, quando il singer sporca il suo timbro, supportato da seconde voci più algide e tranquille. La gamma d’azione dei synth si amplia in “Deface (The Thing That Made Me A Man)”, qui s’inaspriscono, s’increspano in sentori di malvagità in apertura, salvo schiarirsi in sentimenti angelici nel chorus. La voce segue dappresso i movimenti tastieristici, altalenanti fra plasticosità da dancefloor gotico e retaggi sinfonici applicati a un contesto rock. Il metal c’è ancora, ma assume connotazioni più sfumate e occupa meno spazio che nel recente passato. Il dark rock romantico avanza con le sue ombrosità durante “Winter Is Coming”, piacevolmente evocativa delle misurate tristezze dei Type O Negative nel periodo di “Life Is Killing Me”, riepilogati in una derivazione sopita delle angosce Steeliane. Il drumming nell’intero “Deadlights” propende per pattern controllati, nei ritmi e nella potenza del tocco, la voce aggredisce poco, raccogliendosi su registri bassi, frequentati con sicurezza. Le basi elettroniche avanzano tumultuose nella modernista “Homeless Mix”, che fra richiami al gothic metal di un ventennio fa, l’incedere squadrato e il basso spigoloso si candida a essere un altro potenziale hit dell’album. Il romanticismo si insinua educato in “Black Voodoo Girl”, le chitarre da spesse si fanno vellutate e poco appariscenti, lasciando campo libero ai baritonali di Danilo Piludu. In “Mater Mortis” avvertiamo invece l’ascendenza del sound dei Death SS, i Witches Of Doom orchestrano un rock’n’roll lugubre e vizioso, vivacizzato dalla commistione di arrangiamenti d’organetto, elettronica e impavide sinfonie, all’interno di una traccia interamente strumentale che non fa calare assolutamente l’attenzione. Rock’n’roll e toni crepuscolari sono il tratto caratteristico di “Gospel Of War”, “I Don’t Wanna To Be A Star” si lascia andare a un mood da night club, dolceamaro e suadente, imperniato anche in quest’occasione su un ottimo lavoro dei synth. Se perde qualcosa in potenza rispetto a “Obey”, “Deadlights” guadagna in varietà, cambiando spesso d’abito senza dare mai l’idea che le nuove vesti siano raffazzonate o di cattivo gusto. I Witches Of Doom si sono quindi confermati, il campo delle sonorità gotiche per loro ormai non ha (quasi) più segreti.