7.0
- Band: WITCHES OF DOOM
- Durata: 00:50:14
- Disponibile dal: 30/04/2014
- Etichetta:
- Sliptrick Records
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Unite le forze a gennaio 2013, i cinque membri dei Witches Of Doom non hanno perso tempo e si sono buttati anima e corpo nel circuito live romano, compattando la formazione e dandole le sicurezze necessarie per approdare già nel 2014 all’esordio discografico. “Obey” tiene in equilibrio molte tipologie di suono, come un trapezista che tiene in mano uno svariato numero di oggetti, e si adopera contemporaneamente per riuscire nel suo numero e salvare la pellaccia. Il suono delle chitarre, tanto per cominciare, avvicina la band alla dimensione stoner e, a intermittenza, a quella grunge: lo stereo crepita di fuzz, i colpi assestati dalla chitarra di Federico Venditti sono poderosi e il basso gonfia di minaccia i riff, dando il suo bel contributo a ispessire il muro di suono. Le tastiere giocano su ben altro tavolo: si muovono di sottecchi fra horror metal e darkwave, coprendo di una cortina oscura ma non oppressiva le singole tracce, che in molti punti si configurano come una rivisitazione di Sisters Of Mercy e Depeche Mode in chiave metal. Il romanticismo decadente che permea “Obey” giustifica quindi anche il paragone con i Paradise Lost di metà carriera e con i Moonspell più commerciali, e se vi sembra che a questo punto si sia fatto un po’ di casino, non temete: i Witches Of Doom sono riusciti a impastare le loro maggiori influenze con molto mestiere e qualche guizzo di classe. Nell’impresa sono stati aiutati da un cantante di valore qual è Danilo Piludu, in possesso di una voce calda e sensuale e anche piuttosto versatile, che consente di affrontare senza patemi linee vicine a quelle degli Alter Bridge, i toni profondi del doom o i malinconici cantici che resero famoso Andrew Eldritch. Si parte con l’arpeggio southern di “The Betrayal”, un espediente ad effetto che, assieme al vocione del singer, mette sull’attenti prima di farsi scuotere dai primi schiaffoni della sei corde; già qui ci sono tutti gli ingredienti del Witches Of Doom-sound, costituito da ritmi medi abbastanza pestati, linee melodiche mai troppo cerebrali, stacchi rock’n’roll a mitigare la pesantezza di fondo, un’amarezza latente e non insistita. “Witches Of Doom” alza i giri del motore e dà il via libera a keyboard intriganti e fondamentali per coinvolgere al massimo l’ascoltatore: il gothic rock Anni ’80 furoreggia, e lo ribadiscono i coretti posti a ingentilimento del chorus. “To The Bone” segue la scia e porta ad altri interessanti ammiccamenti dal sapore sintetico, facendo leva sulla morsa liquida ma ferma dei sintetizzatori. “Needless Needle” ha un lato più scorbutico degli episodi precedenti, punta sulla ruvidezza e le stesse vocals vengono sporcate per dare energia e carica al brano. Venditti stavolta si mette in mostra per un prolungato assolo nella fase centrale, che riesce a emergere nonostante non cali in questo frangente la forza d’urto delle ritmiche. “Crown Of Thorns” è abbastanza sui generis per l’idea che ci siamo fatti dei Witches Of Doom: si tratta di una ballad molto intensa, sa addirittura un po’ di Savatage nell’incipit, e si affaccia prepotentemente sul rock sudista e in generale sul melodic rock di grande appeal commerciale che gli americani hanno esportato in tutto il mondo nel corso degli ultimi decenni. “Dance Of The Dead Flies” e “Rotten To The Core” riprendono in maniera diversa e più ampia alcuni temi proposti in precedenza; la prima flirta col doom psichedelico, stordendoci di effetti, la seconda ci fa le fusa dall’alto di una melodia viziosa e un cantato particolarmente ossessivo. “It’s My Heart (Where I Feel The Cold)” è la seconda ballad del lavoro e sposta l’attenzione su un incedere soffuso di stampo AOR, grazie ai ricami pianistici, per tornare bruscamente su coordinate hard nel chorus e annegare definitivamente in un appassito grigiore autunnale con l’avanzare del minutaggio. La title-track, infine, ha un potere suggestionante non da poco, a causa dell’inserimento di elementi di rottura rispetto al resto della tracklist. La fase digradante del pezzo vede comparire fosche turbative occult rock, un sitar inaspettato e la comparsa di voci recitate che vedono il buon Piludu ricoprire il ruolo di sciamano di un ipotetico villaggio indiano. Non si poteva chiedere di meglio per concludere in bellezza un esordio fresco, intelligente e senza incertezze, che va ad inserirsi in un filone non troppo sfruttato di recente, e quindi destinato ad avere una migliore visibilità di prodotti di eguale levatura ma inseriti in un contesto più affollato.