7.5
- Band: WOLF
- Durata: 00:46:52
- Disponibile dal: 13/03/2020
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: Sony
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Se c’è una caratteristica che in ben più di vent’anni di carriera non è mai mancata agli svedesi Wolf, quella è senza dubbio la personalità: il loro heavy metal affilatissimo può infatti vantare delle caratteristiche peculiari e riconoscibili sia dal punto di vista del songwriting, folle ed opprimente al pari di pochi altri, sia per quanto riguarda i singoli elementi, tra cui il timbro raggelante del leader Niklas ‘Viper’ Stalvind. Tutto ciò rende di fatto la proposta del quartetto nordico una delle più interessanti e ricche di spunti dell’intera ‘new wave of traditional heavy metal’, e trattandosi di una delle prime realtà appartenenti al suddetto filone non c’è certo da stupirsi.
L’ottavo album “Feeding The Machine” arriva sul mercato, prepotente come un colpo di mazzafrusto, a ben sei anni di distanza dal gradevole predecessore “Devil Seed”, a seguito del quale metà formazione ha deciso di dare forfait lasciando così il posto a due nuovi ingressi, i cui nomi lasciano ben intendere l’intenzione del buon Niklas di rilanciare a cannone la sua creatura metallica: a partire dal talentuoso ex batterista degli Hammerfall Johan Koleberg, fino ad arrivare al possente Pontus Egberg, bassista in pianta stabile di Sua Maestà King Diamond e anch’egli con alcuni vissuti alle spalle nella band guidata da Joacim Cans.
Si spara per uccidere e si tagliano letteralmente teste con le iniziali “Shoot To Kill” e “Guillotine”, due vere e proprie sciabolate di acciaio e adrenalina, in cui emerge perfettamente la verve assassina degli Wolf, qui impegnati a smerigliare riff taglienti e ritmiche incalzanti per poi abbinarli a ritornelli rabbiosi e ficcanti. Un inizio micidiale che modula in un prosieguo parzialmente più lento, grazie all’evocativa “Dead Man’s Hand” e al decisamente più lugubre singolo “Midnight Hour”, che ad un primo ascolto può sembrare quasi un pezzo semplicistico e dall’ossatura fragile, ma che già al secondo/terzo si rivela per quello che è: un brano di heavy metal tanto essenziale quanto spettrale nella sua atmosfera, con un chorus urlante e impreziosito dalla versatile sezione ritmica. Caratteristiche riprese dalla leggermente meno incisiva “Mass Confusion”, poi stravolte in una “The Cold Emptiness” più fredda e moderna, entrambe comunque pregne di quel retrogusto angosciante di cui parlavamo nelle prime righe di questa recensione.
L’attesa titletrack esordisce in modo funereo sui rintocchi di una campana che precede uno degli estratti più lugubri dell’intero pacchetto, stimolando inoltre una sensazione vicina alla proverbiale calma prima della tempesta; e considerando la sanguinaria e deliziosa ferocia di “Devil In The Flesh” possiamo dire di aver colpito nel segno, seguita a sua volta dalla bizzarra “Spoon Bender”, dotata di una commistione di luminosità e deviazione degna del titolo, rivolto evidentemente all’atto di piegare un cucchiaio in presenza di poteri psichici. Una dote pericolosa che diventa ancora più inquietante allo scoccare di quel connubio di malignità e violenza presente in “The Raven” e “Black Widow” – differenti eppure simili nella loro natura di preludio del finale. Questo giunge come di consueto con la traccia più lunga del pacchetto, nonché la più lenta, malinconica e dissonante, ovvero “A Thief Inside”.
Si chiude così questa sorta di viaggio metallico in una follia di rappresentazione distopica e colma di violenza, in cui il sangue e gli orrori svolgono un ruolo chiave nella buona riuscita di una tracklist che è riuscita a stupirci e stimolarci molto più di quanto ci saremmo aspettati, malgrado un paio di colpi andati a segno solo parzialmente. Ascolto pressoché obbligatorio per chiunque ami le sonorità classiche, senza però volersi imbattere nel solito dischetto heavy metal derivativo e ridondante.