6.0
- Band: WORM OUROBOROS
- Durata: 00:50:47
- Disponibile dal: 20/03/2012
- Etichetta:
- Profound Lore
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Sono californiani, di Oakland, ma sembrano provenire dalla Terra Di Mezzo o da qualche altra fatata landa tolkeniana. I Worm Ouroboros sono un trio folk-metal in cui militano membri dei post-punks The Gault, dei folk metallers World Eater e degli Agalloch. Il secondo album della band, anche in questo caso licenziato dalla instancabile Profound Lore Records, stavolta drammatizza ulteriormente la proposta dei Nostri e ce li riconsegna in una strana salsa minimalistica, dal sapore molto intimo ed essenziale. Gli overdrive di Jessica Way e Lorraine Rath stavolta sono quasi sempre spenti e, al loro posto, appaiono folate continue di delay e riverbero che creano dei soundscapes malinconici e depressivi, ma dall’appeal caldo e avvolgente. “Come The Thaw” è impostato su sonorità talmente innocue e delicate da risultare quasi completamente un disco acustico, e i pochi momenti in cui l’intensità sale, sembrano essere più il risultato di una drammatizzazione dell’essenzialità del sound del trio più che una spinta reale sul versante del volume e della “pesantezza”. Le percussioni di Decker, lungi dall’essere quelle corpulente e incisive messe in mostra negli Agalloch, sono invece per lo più molto sparse, sporadiche e piene di vuoti. Sono onde e pulsazioni quasi casuali che vanno ad accentare le cadenze delle voci da Banshees della Way e della Rath, a tutti gli effetti protagoniste indiscusse del disco. Allo stesso modo, la chitarra e il basso delle due, come per la batteria, “respirano” e sospirano, più che suonare realmente, e sono spesso semplicemente il feedback lasciato fluire e i delay sempre accesi che creano la maggior parte del suono del lavoro. In essenza, il lavoro è senz’altro valido e l’initimismo e la delicatezza che veicola sono reali e del tutto palpabili, segno inequivocabile che la sostanza, anche se volatile, indubbiamente c’e’. Il problema è il sound unidirezionale del disco, che senza grosse variazioni e senza uscire mai da un minimalismo quasi intransigente, provoca un subdolo senso di ripetitività e inavvenenza che non riesce mai a scrollarsi di dosso completamente. Semplicemente in “Come The Thaw”, oltre a questo minimalismo onirico ed evaporante, non succede altro.