8.0
- Band: WOTAN
- Durata: 00:54:11
- Disponibile dal: 15/06/2004
- Etichetta:
- Eat Metal Records
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Quel primo scorcio del terzo millennio dove si va a collocare “Carmina Barbarica” (2004) fu un periodo di straordinario fermento per sonorità epic metal. Genere di rinomanza mainstream sostanzialmente e unicamente per le gesta dei Manowar, retto nell’underground dalla leggendaria marcia dei Manilla Road, ancor oggi numi ispiratori indiscussi per chiunque si cimenti in questo campo, in quegli anni si andava riscoprendo e glorificando, per merito di un manipolo di giovani musicisti accomunati da ottima cultura specifica, passione e una voglia matta di emulare i propri eroi. ‘Eroi’ che sono l’essenza dell’epic metal, stile per sua natura contraddistinto da sentimenti fin eccessivi, vibrazioni emozionali gigantesche, la ricerca di un empireo, di una dimensione alta, sovrannaturale e gloriosa come raramente la si può ritrovare in altri contesti. Una tensione verso l’alto, da svilupparsi attraverso musiche drammatiche, altisonanti, che ha appunto nell’esordio della formazione milanese uno dei migliori frutti di quegli anni.
Un album che, rispetto ad altre uscite ‘cult’ del periodo, viene addirittura messo in secondo piano, quasi trascurato, rispetto magari a opere con una discreta rilevanza internazionale come “Resound The Horn” dei Doomsword, presso i cui studi l’esordio del quartetto viene registrato. Rivisitando oggi le gesta del periodo, incise indelebilmente a futura memoria da strumentisti ancora oggi sulle scene e ormai tra i più longevi portabandiera di un suono che oggi vede soprattutto nella frangia americana e tedesca i suoi migliori protagonisti, verifichiamo che quel lontano “Carmina Barbarica” era veramente qualcosa degno di nota. È invecchiato bene ed è questo uno dei complimenti migliori si possa fare a un album. Perché, anche risentendolo con l’orecchio di oggi, con un approccio più calcolato e analitico di quello che molti dei fan di tali sonorità potevano avere al momento della sua pubblicazione, quando intercettò il bisogno di imberbi metalhead di riappropriarsi di un certo tipo di tradizione, i suoi contenuti trasportano in un immaginario vivido, battagliero, con indomita intensità e una carica che non è scemata nel tempo.
“Lord Of The Wind”, manowariana al cento per cento come è del resto l’intera tracklist, è quell’inno di battaglia senza tempo che avrebbe potuto incarnare il genuino spirito heavy metal nel 1985, come potrebbe farlo oggigiorno, senza che se ne colga alcuna incongruenza temporale. Un’invocazione squillante al “Signore del Vento”, uno strappo secco, il vibrare dell’emulo di Eric Adams, Vanni Ceni, e via a dimenare la spada, tra melodie cantabili di impronta germanica, chitarre al limite del thrash tale ne è la bramosia di sangue nemico, rallentamenti grondanti pathos, utili a far respirare e declamare il refrain. Si poteva iniziare meglio? No. E si prosegue sulle ali di un’ispirazione oltre i livelli di guardia, andando incontro fino al termine a un’efficace riproposizione del sound manowariano periodo-“Hail To England”/”Sign Of The Hammer”. Quindi, una miscela di ritmi incalzanti e guerreschi e momenti di sospensione dal sapore mistico e di ascesi. Sulla seconda tipologia, è subito degna di nota la seconda traccia “Under The Sign Of Odin’s Ravens” e i suoi cori a mezz’aria, sospiranti di melanconia, a far da cornice alla sferzante voce principale. “Carmina Barbarica” prosegue ebbro di furia, spiritato, in preda a un fuoco sacro che rende micidiali episodi di rustico speed metal (“Hussard De La Mort”, brividi nel ritornello, “Wrath Of North”), galoppate in crescendo riconducibili anche a taluni stilemi dello US metal (“Ride Of Templars”, “King Of Crows (The Dream Of Ronabwy)”), inesorabili marce barbariche (“Innoxia (Vercingetorix)”).
Eccellenti le sottolineature delle soliste, i contrappunti melodici, i brani sono zeppi di piccoli inserti che ne valorizzano l’atmosfera ardente, quello spezzarsi il fiato per l’emozione che il miglior epic metal dovrebbe saper provocare. Versatile anche la sezione ritmica, elemento spesso non preso in considerazione per dischi di tal fattura, in questo caso un altro solido anello di un diadema di cui molti non hanno presente il valore. Rumori di spade condiscono qua e là il tracimare della musica verso la colonna sonora di un colossale scontro di armate, dall’esito incerto e ricco di colpi di scena. Non ci vengono risparmiate nemmeno risate sardoniche, in ottemperanza ad alcune espressioni del miglior Eric Adams (durante la vagamente rolleggiante “Black Conqueror”), avviandoci al deflagrar di emozioni del finale della tracklist. Qui risplende “Thermopiles”, fulgidamente bathoryana nel preludio, una muraglia rocciosa di chitarre ritmiche suonate col cuore in mano, arpeggi tristi, recitati in idioma ellenico e una fiumana solista nel finale, che rendono vicine a una realtà lampante le immagini evocate. Niente punti deboli né filler, “Carmina Barbarica” costituisce un fulgido esempio di come l’epic metal andrebbe interpretato. Da riscoprire.