5.5
- Band: YNGWIE MALMSTEEN
- Durata: 00:54:01
- Disponibile dal: 05/12/2012
- Etichetta:
- Rising Force Records
- Distributore: Universal
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Partiamo da una premessa d’obbligo: il voto in calce alla presente recensione è riferito esclusivamente a chi, come il sottoscritto, segue da sempre il corpulento chitarrista svedese. Chi ancora non conoscesse nessuno degli album (alcuni immortali, altri immondi) del virtuoso per antonomasia, può tranquillamente aggiungere un bel punto al voto. Ora possiamo parlare del nuovo “Spellbound”, l’ennesimo lavoro di Yngwie J. Malmsteen che farà discutere e non mancherà di dividere. Il problema è: chi è rimasto da dividere? Infatti non sono pochi (incluso il sottoscritto) quelli che, dopo avere amato alla follia i primi album, si sono stancati dell’immobilismo stilistico da sempre vessillo di Malmsteen, abbandonandolo. Per chi scrive, gli album fino a “Facing The Animal” (con qualche pezzo addirittura dal successivo “Alchemy”, datato 1999) sono dei lavori di tutto rispetto, che hanno contribuito a far nascere e prosperare il metal neoclassico che ha fatto la fortuna di innumerevoli band. Proprio quella convinzione, che definiremmo più propriamente ossessione, è stata la fortuna e al tempo stesso la condanna di Yngwie: impermeabile a qualsiasi innovazione, ha creato uno stile che una volta mostrata la corda gli si è ritorto contro come un boomerang. Le sue dita si muovono quasi autonomamente ormai, abituate come sono a suonare a ripetizione sempre le solite scale, e “Spellbound” ne è l’ennesima dimostrazione. Cacciato fuori, come da tradizione, il buon Tim “Ripper” Owens (ex-Judas Priest, ex-Iced Earth, Charred Walls Of The Damned) – poiché nessun cantante può permettersi il lusso di rimanere alla corte dello svedese per più di due album consecutivi – Malmsteen decide di prendere in mano il microfono (per fortuna nostra solo in tre pezzi) con risultati tutt’altro che esaltanti: “Repent” vuole richiamare i fasti di “Rising Force”, fallendo miseramente con melodie poco più che improvvisate, e “Let’s Sleeping Dog Lie” è il solito esperimento simil-blues senza infamia e senza lode se non fosse per la penosa prova vocale, tra l’altro soffocata dalla musica in sede di mixing… ma dove davvero si tocca il fondo è nel terzo pezzo cantato, “Poisoned Mind”, sicuramente uno dei punti più bassi di una carriera trentennale. Per fortuna ci sono gli strumentali, e se siete fan sarà divertente giocare a prevedere le parti che si susseguono: basta aver sentito bene dieci-quindici classici per avere il 99% di probabilità di vincere a questo giochetto. Certo che se dovesse venire meno l’aspetto ludico, cosa molto probabile specialmente dopo il primo ascolto, le cose si fanno più complicate se le guardiamo nella prospettiva di un chitarrista che si trova intorno al ventesimo lavoro solistico e che vuole presumibilmente continuare la propria carriera. Qui dentro c’è tutto Malmsteen, ma come sottolineavamo in apertura questa è un’arma a doppio taglio, perché per molti quel ‘tutto’ da molti anni a questa parte e sempre di più rappresenta un ‘solo’. Non è possibile autocitarsi in questo modo, specialmente quando si hanno potenzialità e personalità così spiccate; i pezzi sono godibili (anche se non capiamo il significato delle brevi “Turbo Amadeus” e “Electric Duet” e della sconclusionata e inconcludente “Nasca Lines”) e chi li avvicinasse per la prima volta li troverà sicuramente interessanti, ma per noi fan non c’è una nota, un’idea, un’atmosfera, che non abbiamo già sentito, e in versione assai migliore, in passato. Mantenendo le promesse, ricordiamo che il cinque e mezzo per gli aficionados diventa un bel sei e mezzo per i neofiti.