8.5
- Band: YNGWIE MALMSTEEN
- Durata: 00:52:45
- Disponibile dal: 09/05/1994
- Etichetta:
- Music For Nations
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Di un artista come Yngwie Malmsteen si potrebbero scrivere decine di libri; si potrebbe parlare delle sue manie, del suo carattere scorbutico, scontroso, sicuramente difficile, della sua ambizione, delle sue elitarie collezioni, dei suoi vizi ed abusi, del suo look anacronistico, della sua concezione forse troppo romantica e poco realista dell’Italia, stigmatizzata come un paese di Sole, mare (e detto da uno che vive in Florida…) e cultura (non crediamo si riferisca alla penisola attuale). Parleremo invece del suo talento, quello oggettivo, quello del quale non si può che provare un’ammirazione onesta, epurata da ogni invidia e critica sterile ed inutile, nonché sentita migliaia di volte. Il Maestro svedese, ormai molto più americano di tanti nativi yankee, pubblica nel 1994 quello che per molti è il suo indiscusso capolavoro, andando anche ad oscurare (blasfemia!) i suoi primi, indimenticabili dischi. Non si potrà mai parlare di evoluzione musicale di Malmsteen, in quanto a lui semplicemente non interessa. Stop. Dobbiamo comprendere che non sempre la ricerca evolutiva, musicalmente parlando, è una pulsione geneticamente insita in ogni band: criticheremmo mai i Rolling Stones perchè non inseriscono parti metal, o electro-goth in un loro lavoro? Criticheremmo mai gli AC/DC per il fatto che non si sforzano neppure di andare oltre i quattro (forse cinque) accordi che le loro dita suonano con il pilota-automatico? Malmsteen non è i Faith No More, non è gli Ulver o Moby. Si può solo sperare che il funambolico asso della chitarra pubblichi un disco qualitativamente buono, che non si intestardisca nel voler metter mano alla produzione, semplicemente rovinando il tutto; si può altresì sperare che si circondi di musicisti adatti a lui, che ben si prestino a seguire le sue direttive mettendo al suo servizio il loro talento e non il loro ego, perché purtroppo o per fortuna, a casa Malmsteen, il parcheggio riservato a Mr. Ego è occupato. Prodotto da Mike Fraser (Metallica, Aerosmith e Joe Satriani, tra gli altri) e con una line-up tra le migliori che il creatore del “baroque & roll” abbia mai avuto, questo “The Seventh Sign” resterà per molti anni stampato nel cuore e nelle orecchie di svariati rockers, rapiti non solo dai soliti (e criticati) virtuosismi del chitarrista, ma da canzoni davvero memorabili, che si snodano per una tracklist mai così varia e dalla qualità così omogenea. La classica scala suonata alla velocità della luce ci preoccupa immediatamente, almeno sino a quando la voce di Mike Vescera (Obsession, Loudness) non si sposa con un riffing davvero terremotante, squisitamente metal e supportato dalla batteria in doppia cassa di un colossale Mike Terrana. In questo disco, Yngwie dimostra tutto la sua sicurezza e la certezza di essere ormai un leader, palesando in modo mai così diretto tutte le sue influenze, omaggiando in modo quasi sfrontato, ma sempre e comunque filtrato da talento e rispetto, i chitarristi che lo hanno formato. Il genio di Hendrix fa capolino nel brano “I Don’t Know”, con il suo mood blues e le sue pentatoniche cantate da un caldo ‘wha-wah’. Nel brano sopra-citato, il genio svedese dimostra a tutti i suoi detrattori che non è solo velocità, esibendosi in caldissimi vibrati ed un assolo assolutamente cantabile e degno dei più moderni bluesmen. Dopo una bella “Meant To Be”, graziata da un break strumentale davvero da brividi, giungiamo alla prima ballad del disco, una “Forever One” pregna di calore, passione ed interpretazioni strappa-applausi, dove un arrangiamento perfetto ne esalta il sapore ed il risultato. Uno splendido hard rock è quello che ci fa ascoltare la bella “Hairtrigger”, la quale pompa la nostra adrenalina prima che venga calmata dalla strumentale (e forse prolissa) “Brothers”. Si giunge alla bellissima title-track, dove Terrana fa letteralmente a gara con la tastiera di Mats Olausson, per creare un tappeto dove il buon Vescera riesce quasi (pazzo…) ad oscurare la mitica bianca Fender. Se i Whitesnake facessero una cura di steroidi musicali, forse potrebbero comporre un brano dannatamente vicino all’accativante “Bad Blood”, mentre la successiva “Prisoner Of Your Love” torna a farci innamorare e battere il cuore, con le sue partiture di pianoforte e il solito, stucchevolmente affascinante, arrangiamento – la sua progressione armonica e la linea vocale ricorderanno a molti di voi il classico di Bach “Aria Sulla Quarta Corda”. Un altro amore di Malmsteen si affaccia dal passato, con una “Pyramid Of Cheops” che non può non evocare Uli Jon Roth e la mitica “Sails Of Charon”. Terrana ancora protagonista, pedalando con la sua doppia cassa per cercare di reggere il passo di Sua Maestà, in una veloce “Crash And Burn”. Chiude questo indiscusso capolavoro, un brano per chitarra classica intitolato “Sorrow”, che mostra, nella sua brevità, tutta la grandezza di colui che resta tutt’oggi il più criticato ed al contempo copiato chitarrista della storia. “Yngwie Who?” recitava una famosa t-shirt; la risposta arrivò immediata, con una versione successiva che riportava sulla schiena: “Yngwie Fucking Malmsteen, that’s who!”.