7.5
- Band: YOB
- Durata: 00:51:51
- Disponibile dal: 04/09/2005
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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Ritmi lugubri, atmosfere oscure, andamento funereo. Si sa, il doom si nutre di tutte queste cose, eppure è così facile per una band perdersi per strada, ritrovandosi a comunicare solo una lunga, interminabile sensazione di noia. Talvolta, invece, si ha la fortuna di incappare in un manipolo di veri artisti, capaci di modellare a loro piacimento le corde più profonde dell’animo e della mente con l’incedere ritmico e ossessivo delle note. In quei rari casi la musica si espande, si dilata nella sua lentezza fino a condurre l’ascoltatore a una sorta di trance, un’ipnosi sonora capace di rapire e scaraventare in un altro mondo tutti coloro che non si sono lasciati scoraggiare da una proposta non certo facile. Gli Yob, un trio proveniente dall’Oregon arrivato alla quarta prova in studio, appartengono di diritto a questa categoria di artisti, grazie a un lavoro tanto difficile quanto affascinante. La band si cimenta in un doom metal portato all’eccesso: lento, angosciante e magniloquente. Nel loro sound si sentono echi di Sleep, Electric Wizard, Black Sabbath (d’altra parte chi in questo genere non deve qualcosa ai padri fondatori di Birmingham?), con in più quel tocco di follia che ha reso grandi band come i Neurosis. La prima mezz’ora di “The Unreal Never Lived” viene equamente divisa in tre brani potenti e ricchi di pathos, con basso, batteria e chitarra a fare da tappeto alla splendida voce di Mike Scheidt, dotato di una versatilità unica, che gli permette di passare con assoluta naturalezza attraverso tutto lo spettro vocale. Lo ritroviamo, infatti, in “Quantum Mystic” a cantare prima con fare epico, poi rabbioso e ringhiante, con un timbro che ricorda il miglior Phil Anselmo e infine ci stupisce con un agghiacciante growling in “Grasping Air”.
Tutto questo sarebbe già sufficiente a dar vita a un lavoro pregevole, tuttavia la band riesce a dare il meglio di sé in “The Mental Tyrant”, una lunghissima composizione di oltre venti minuti, in cui gli Yob estremizzano ulteriormente la loro proposta. Dopo una lunga introduzione psichedelica, che riporta alla mente le interminabili divagazioni strumentali figlie di un certo space rock, esplodono le chitarre in tutta la loro inquietante rudezza. Immaginate una “Black Sabbath” appesantita e dilatata, capace di evocare, col suo incedere, le profondità gelide dello spazio siderale o i più remoti abissi della mente. Proprio come quella, il brano cresce col passare dei minuti con un andamento sempre più schizzato, che termina in un finale in cui Mike Scheidt si produce in una cacofonia di gorgoglii degna delle antiche, mostruose divinità dell’universo lovecraftiano.
Un’opera difficile, dunque, che necessita di ascolti attenti e che sa essere tanto ipnotica quanto insostenibile. Sicuramente non è un lavoro che può essere consigliato a cuor leggero, dato che potrebbe spiazzare più di un ascoltatore; tuttavia coloro che riusciranno a capirlo vedranno aprirsi davanti ai loro occhi una finestra sul vuoto dello spazio interstellare, scoprendo come ciò che per definizione è privo di massa possa essere invece incredibilmente pesante.