6.5
- Band: ZIPPO
- Durata: 00:38:44
- Disponibile dal: 12/03/2016
- Etichetta:
- Apocalyptic Witchcraft
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E’ sempre un piacere poter promuovere una band italiana, specie se riesce a ottenere il risultato di un buon album, accattivante e coinvolgente, in tutta semplicità. Verrebbe quasi da identificarlo, semplicemente, come alternative metal, se fossimo nel 1994, ma date le connotazioni assunte da questa etichetta negli anni, vediamo di chiarirci un po’ le idee. La band pescarese giunge con questo “After Us” al quarto full-length in dieci anni di intensa attività, anche live, e, come per i precedenti, si tratta di un lavoro curiosamente sospeso tra moltissime influenze diverse. E chissenefrega, viene da dire: in primis richiami stoner, qualche cessione più sludge, un preponderante carattere alternative rock e diverse spruzzate psichedeliche… il tutto permette di far scorrere i circa quaranta minuti di durata con leggerezza e piacere. Le note dell’iniziale “Low Song” ci portano in territori prossimi agli ultimi Kyuss, quelli di “…And The Circus Leaves Town”, per intenderci, in particolare per le linee vocali simili a quanto fatto a suo tempo da John Garcia; e poi per il basso zanzaroso e grasso, peraltro elemento centrale di quasi tutti i brani. Le quattro corde, appunto, disegnano particolarmente l’atmosfera anche nella successiva title track o in “Comatose”, ma, come accennato più sopra, i lidi di riferimento paiono spostarsi quasi da Palm Desert a Seattle: entrambi i brani non avrebbero stonato, infatti, in un lavoro degli Alice In Chains. “Familiar Roads”, il pezzo più sperimentale dell’album, funge quasi da intermezzo (nonostante sette minuti e passa di acidume non indifferente!), prima del passaggio alla seconda parte dell’album, che potremmo quasi vedere come una strana evoluzione del mix presente fin’ora. Da qui in poi le parti più propriamente stoner ammiccano particolarmente alla seconda creatura di Josh Homme, ossia i Queens Of The Stone Age, soprattutto per quanto riguarda il bell’equilibrio tra dissonanze e melodie catchy, mentre per le influenze made in Washington ci spostiamo da Seattle ad Aberdeen, complici non poche strizzate d’occhio ai Melvins, in particolare, secondo chi scrive, in “Stage6” o nella conclusiva “The Leftovers”, entrambe dotate di quella atmosfera sporca e avvolgente insieme tipica di King Buzzo &co. Del resto non dev’essere indifferente avere al mixer Toshi Kasai, tecnico del suono in una bella manciata di album dei suddetti. Che difetto si può trovare, quindi, in questo lavoro? Be’, come evidente dalla ridda di citazioni che sono sorte spontanee, sicuramente il quartetto non ha ancora una direzione precisa né tanto meno univoca a definire il proprio cammino musicale, e forse dopo quattro album questo rischia di diventare un problema di riconoscibilità: ma per ora godiamoci questo nichilismo stilistico senza troppe pretese.