6.5
- Band: ZWIELICHT
- Durata: 00:48:08
- Disponibile dal: 09/02/2024
- Etichetta:
- Ván Records
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Non possono certo essere definiti prolifici, gli Zwielicht, visto che ci troviamo di fronte al secondo album nel giro di poco meno di vent’anni, e quando è uscito il predecessore di questo “The Aphotic Embrace”, era un innocuo 2014.
Dediti ad un black metal misantropo e oscuro ma capace di inglobare una buona dose di melodia, i tedeschi si (ri)presentano con un disco denso e pieno di contenuto, il cui black metal gioca, come detto, in maniera molto chiara con una musicalità nemmeno troppo celata, e prova ad addentrarsi in composizioni lunghe e il cui intento è quello di diventare claustrofobiche e angoscianti; già la prima ‘vera’ canzone dopo l’intro è sui dieci minuti e, in genere, tolti due brani da tre e cinque minuti, il minutaggio è piuttosto corposo.
Il risultato è in parte felice, ma non del tutto secondo noi, giacché è vero che i tedeschi hanno un’innata capacità di scrivere brani esaltanti e la cui progressione esalta non poco, ma tendono a perdere d’efficacia nella riproposizione di passaggi sì gustosi ma che nel ripresentarsi tendono a sfibrarsi un pochino senza assumere lo status ipnotico magari ricercato.
“The Fallen Abbey”, ad esempio, ha dei momenti gustosissimi, ma ogni tanto sembra perdere la rotta, cercando di trasformarsi in qualcosa che poi non sembra riuscire ad ottenere. Questa tendenza ci fa un po’ storcere il naso, soprattutto perché gli Zwielicht hanno un gusto notevole nella scrittura di passaggi che sanno come prendere l’ascoltatore in corde molto intime, arrivando a toccare una sorta di malinconica rabbia quando non una trasognante tristezza, come nella interlocutoria “Transcendental Salvation”, semplicissima quanto riuscita.
Non manca qualche eco, anche marcata, a nomi piuttosto noti nel panorama odierno (Mgla, Uada soprattutto Watain), e pur non brillando per originalità, le composizioni hanno una marcia in più nella loro struttura, se non fosse per quella velleità di voler scrivere brani con ambizioni più complicate di quanto non serva. Peccato perché poi, quando gli Zwielicht vanno al sodo, lo fanno giocando tutti gli assi in un’unica mano: “Babalon”, coi suoi cinque minuti, è la più corta delle canzoni vere e proprie, e pur non essendo tra i momenti migliori del disco (rappresentati da “Stench Of Rotten Deities”, la citata “The Fallen Abbey”, con un riffing vincente, e la title-track svettano, sebbene pure quest’ultima potrebbe fare a meno di un minutino buono, messo lì in mezzo un po’ scolasticamente) racchiude un’essenzialità che ci pare venga a mancare nel resto del lavoro.
Insomma, sperando di non dover aspettare altri nove anni per nuova musica da parte degli Zwielicht, promuoviamo con una sufficienza abbondante un disco che, con un pizzico di personalità in più e qualche divagazione in meno, avrebbe potuto ambire a qualche spazio di maggior rilievo.