Speciale a cura di Alessandro Corno
Quella degli Amon Amarth è stata probabilmente una delle crescite più significative in termini di numero di fan che il metal estremo abbia visto negli ultimi dieci anni. Partiti come un gruppetto viking melodic death metal da piccolo club, gli svedesi sono ora una band importante; in certe nazioni, come Germania e Nord Europa, addirittura talmente grossa da radunare migliaia e migliaia di persone ai propri concerti. Un risultato frutto sicuramente di un notevole lavoro svolto sulla ricerca di un sound che, partendo da ottimi lavori come “Once Sent From The Golden Hall” o il grande “The Avenger”, ha raggiunto probabilmente il picco della propria maturità con “With Oden On Our Side” e “Twilight Of The Thunder God”, i lavori che, sebbene più orecchiabili e meno estremi rispetto ai primi citati, hanno reso univocamente identificabile il sound Amon Amarth. Successivamente, con “Surtur Rising” e “Deceiver Of The Gods”, il gruppo ha proseguito la propria sterzata verso sonorità più accessibili, che gli hanno permesso di raggiungere un pubblico ancora maggiore e sempre più giovane. Non è dunque un caso che oggi la band possa contare su un contratto nientemeno che con la major Sony per la pubblicazione del nuovo e attesissimo album “Jomsviking”. Con lo storico batterista Fredrik Andersson ormai fuori dalla formazione e qui sostituito in veste di session dall’ex Vomitory, Tobias “Tobben” Gustafsson, si tratterà del primo concept album realizzato dal gruppo e la storia sarà ambientata nel mondo vichingo, nella fattispecie ruoterà attorno agli Jomsviking, un ordine di vichinghi mercenari. Noi di Metalitalia.com siamo lieti di offrirvi in anteprima la nostra descrizione traccia per traccia del disco dopo solo un paio di ascolti consentiti dalla casa discografica. Anche per via di questo numero limitato di ascolti, per un giudizio finale vi rimandiamo alla recensione definitiva che uscirà su queste pagine nelle prossime settimane.
AMON AMARTH – “Jomsviking”
Etichetta: Sony
Data di pubblicazione: 25 marzo 2016
01 – FIRST KILL
La traccia d’apertura è già stata pubblicata come primo singolo e video e ve la riportiamo tale e quale. per raffronto con le altre, è tra le più vicine al classico stile Amon Amarth. In diverse delle altre tracce si sente infatti una maggiore influenza della componente classic metal del sound del gruppo. Già da questo brano si può notare la produzione potente e nitida a cura del noto Andy Sneap.
02 – WANDERER
Il brano è aperto da una melodia di chitarra che ricorda quasi certi incipit dei Kreator degli ultimi album e poi prosegue su tempi medi dall’incedere marziale, contornati dal solito alone epico. La strofa è cadenzata e molto lineare, mentre il ritornello è lanciato da una repentina accelerazione che non basta a renderlo particolarmente accattivante. Sicuramente più interessante la incalzante parte centrale che precede una melodica parte solista di chitarra. Proprio le melodie di chitarra sono molto semplici e il sound è piuttosto “pulito”, a volte anche troppo. Se si esclude il growl di Johan Hegg, che a tratti è comunque meno estremo che in passato, la sensazione è quella di un un pezzo classic/power epic metal piuttosto scialbo.
03 – ON A SEA OF BLOOD
I ritmi tornano a crescere, anche se non siamo al cospetto di un brano particolarmente veloce. La doppia cassa c’è, ma è accompagnata da chitarre mai troppo frenetiche anche se qui sul bridge tornano i classici riff con giri melodici dal sapore epico che hanno sempre caratterizzato il sound del gruppo. Anche in questo caso la pulizia del sound appare quasi eccessiva e le coordinate restano quelle di un classic metal reso estremo solo dal cantato. Il ritornello è discreto e precede una parte centrale finalmente più aggressiva e incline a un death/thrash metal che fa da preludio a una sezione con melodici soli armonizzati di scuola Iron Maiden e alla ripresa finale del ritornello. Brano abbastanza canonico ma più che sufficiente
04 – ONE AGAINST ALL
Riecco i riff epici e veloci dal taglio viking accompagnati da un tappeto di doppia cassa su cui si staglia il growl profondo e potente di Johan Hegg… riecco gli Amon Amarth dei primi tempi. La strofa così costruita e accostabile al tipico melodic death metal dalle atmosfere nordiche portato in auge dalla band in passato, conduce a un ritornello immediatissimo rinforzato da cori battaglieri che potrebbero far storcere il naso ai fan più tradizionalisti ma che a conti fatti risultano essere molto efficaci. Solo un rallentamento nella parte centrale, prima che un altro bel riff melodico ci riporti alla ripresa del ritornello. Di sicuro dotato di un grande tiro e di un notevole potenziale in vista dei fituri show, è forse il pezzo migliore del disco.
05 – RAISE YOUR HORNS
Ecco una delle tracce che meno piaceranno a chi apprezzava gli Amon Amarth dei vecchi tempi e che invece non ha digerito il loro recente avvicinamento a sonorità classic. Il qui presente “mid tempone” bello cadenzato e ridondante sulle strofe, dal pre-chorus più veloce e “aperto” e dal ritornello molto cantabile e piuttosto banale che sa molto di brindisi di gruppo, è tra gli episodi che meno ci convincono, non tanto per via dello stile ma proprio per la qualità del songwriting. Lo stacco corale centrale poi, potrebbe essere uscito da un pezzo dei Manowar di “Warriors Of The World”. Precisando che chi scrive è da sempre amante anche del classic, del power, nonchè del folk/pagan metal più festaiolo, qui si nota un nemmeno velato intento di accontentare i fan di questi generi con un pezzo che però è troppo canonico e banale per essere considerato all’altezza di quanto fatto in quarant’anni da band che queste sonorità le hanno create o portate avanti per decenni.
06 – THE WAY OF THE VIKINGS
Un inizio lento ed evocativo che porta alla mente i Bathory di “Nordland I” crea l’atmosfera adatta per l’attacco di una strofa costruita su up tempo impetuoso e battagliero sostenuto da un bel riffing. Una accelerazione in doppia cassa lancia un pre-chorus non troppo entusiasmante che introduce a un ritornello decisamente migliore. Semplice ma bello il solo melodico centrale contornato da riff epici che portano alla mente scenari mitologici del Nord Europa. Il brano, seppur non certo accostabile alle vecchie produzioni in quanto a durezza del sound, nel complesso appare valorizzato da delle linee vocali immediate, sicuramente più ispirate rispetto a quelle della precedente traccia, e da un buon lavoro sulle melodie di chitarra.
07 – AT DAWNS FIRST LIGHT
Una breve parte narrata da Johan Hegg che anticipa la melodia del ritornello viene presto spazzata via da una strofa che si sviluppa su un up tempo piuttosto adrenalinico. Bello lo stacco del pre-chorus, dove invece il pezzo muta in un pesante e monolitico mid tempo prima di un ritornello che purtroppo non colpisce quanto dovrebbe, colpevole una linea vocale troppo scontata. Cupa, bassa e cadenzata la parte centrale, in netto contrasto con le qui presenti armonie in stile molto Iron Maiden create dalla coppia di chitarre. Un brano che accosta dunque un’anima più pesante alla ormai onnipresente o quasi tendenza ad ammorbidire il tutto con sempre maggiori inserti di metal classico e melodie catchy, per un sound che su queste tracce appare ormai distante anni luce dall’irruenza degli esordi.
08 – ONE THOUSAND BURNING ARROWS
L’infrangersi delicato di onde e un riff molto melodico aprono un mid tempo malinconico che cambia pelle solo sul ritornello, dove si fa spazio un riff più pesante e il tutto assume un tono più cupo. Nella sezione centrale il brano acelera e devia su sonorità più viking, mentre la parte finale è una lunga ed epica coda strumentale. Brano differente dagli altri come struttura e piuttosto atipico per questa band nelle sue parti più melodiche. Il risultato finale é ad ogni modo interessante e il brano, immaginiamo, si farà meglio apprezzare dopo più ascolti.
09 – VENGEANCE IS MY NAME
Pezzo che si apre come un comunissimo up tempo classic metal con un riffing dal discreto tiro sulle strofe ma che scade nella scontatezza appena fa capolino il primo pre-ritornello corale. Troppo banale per risultare interessante e anche il ritornello soffre della medesima mancanza di ispirazione. La solita parte centrale con melodiche twin guitars in stile Maiden non risolleva le sorti di un pezzo che a questi primi ascolti pare quasi uscito da uno degli album meno brillanti dei Grave Digger del nuovo millennio.
10 – A DREAM THAT CANNOT BE
Il brano parte come un up tempo sostenuto da un tappeto di blanda doppia cassa, ma vira poi sulla strofa in un pesante mid tempo dall’incedere pachidermico. Sul pre-chorus e sul più tirato e discreto ritornello e fa la sua comparsa Doro, la famosa metal queen tedesca. La sua prestazione non colpisce particolarmente, più che altro per l’accostamento non troppo riuscito tra la sua voce e quella di Hegg. E’ sempre lei, con un approccio più aggressivo rispetto a quanto sia solita fare, la protagonista dello stacco presente a centro brano che precede la reprise finale del ritornello. Un pezzo senza infamia nè lode che non colpisce particolarmente.
11 – BACK ON NORTHERN SHORES
Il brano, che coi suoi sette minuti è il più lungo del disco, si apre con un malinconico giro melodico di chitarra solista a cui segue una parte lenta e cadenzata. La strofa evolve poi in un altro epico mid tempo che conduce ad un arioso ritornello molto immediato e cantabile, accompagnato da riff melodici di scuola Running Wild. Le atmosfere sono quelle tipiche di un pezzo conclusivo che offre all’ascoltatore un’immagine visiva di terre nordiche e leggende legate alla storia vichinga. Il pezzo è però abbastanza vario e, a vantaggio della sua longevità, possiede una buona progressione data da una parte centrale più veloce e trascinante che lancia l’ultimo ritornello e che viene interrotta solo da un nuovo rallentamento nella parte finale. Evocativa e drammatica conclusione di uno dei capitoli migliori del lavoro.