A cura di Alessandro Elli
Quella degli Amorphis è una storia lunghissima: dagli esordi ruggenti all’inizio degli anni ’90 all’insegna di un death/doom metal intriso di quella malinconia tipicamente finnica e caratterizzato da un suono decisamente personale, passando per gli album di metà carriera, in cui i toni erano sicuramente più leggeri ma l’ispirazione non era per niente in calo, fino ad arrivare agli infiniti cambi di formazione che hanno portato la band ad avere un nuovo, importante cantante che, almeno al principio, ha garantito una ventata di freschezza. Prendendo in considerazione proprio questa seconda parte della carriera dei finlandesi, quella con Tomi Joutsen alla voce, l’accusa principale dei detrattori al sestetto è quella di avere inserito il pilota automatico, infilando una serie di album tra loro troppo simili, in cui si denota una certa stasi a livello creativo. Da qualsiasi angolazione la si voglia vedere, però, c’è un punto fermo: che si tratti di opere più ispirate o di dischi di maniera, la qualità delle pubblicazioni negli anni non è mai scesa al di sotto del livello di guardia, grazie alla classe cristallina dei finlandesi, che sanno realmente come si fa a scrivere un pezzo. Gli ingredienti che vanno a comporre la loro musica sono parecchi e, bene o male, la differenza tra un disco e l’altro sta fondamentalmente nel modo in cui questi vengono miscelati: parliamo di un substrato metal che oscilla tra momenti molto orecchiabili ed altri più potenti, senza mai essere eccessivamente estremi ma sufficienti a mantenere qualche legame con la componente death/doom originaria, con la voce che passa con semplicità da pulita a growl, atmosfere generalmente malinconiche ma anche epiche e talvolta magniloquenti, frequenti incursioni negli anni ’70 e uno spirito vagamente prog che spesso aleggia sulle composizioni; tutto ciò viene dosato in maniera diversa ogni volta, andando a formare la musica di una band che si è creata un suono riconoscibile.
Per il nuovo album, Metalitalia.com è stata invitata ad un preascolto online (purtroppo questa volta la situazione contingente ci ha impedito di incontrare la band di persona) di tutti i brani e ad una relativa conferenza stampa, in presenza dei musicisti, del produttore Jans Bogren e dell’artista francese Jean ‘Valnoir’ Simoulin, autore dell’artwork. “Halo” è il quindicesimo full-length della band, il primo per l’etichetta Atomic Fire Records, e sarà pubblicato a febbraio 2022, quattro anni dopo il precedente “Queen Of Time”. Dopo un solo ascolto non è semplice cogliere tutti i particolari di un’opera complessa come può essere quella degli Amorphis, ma l’impressione generale è quella di trovarsi di fronte ad un disco completamente differente dal suo predecessore soprattutto in termini di approccio, pur restando all’interno dello spettro sonoro che abbiamo descritto in precedenza: laddove “Queen Of Time” suonava sontuoso ed orchestrale, “Halo” sembra essere più grezzo e diritto al punto. Bogren, personaggio carismatico che lavora con i finlandesi da qualche anno ormai e costituisce un evidente punto di riferimento per i sei, ha eseguito un ottimo lavoro, forgiando un suono decisamente più metal e compatto rispetto alle opere più recenti, ma che sembra anche avere un’occhiata di riguardo per il passato più remoto della band, più spoglio e meno eterogeneo – non è necessariamente un difetto, ma che prevedibilmente necessiterà di parecchi ascolti per essere compreso in tutti i suoi numerosi dettagli: il produttore parla di un album più pop, i musicisti lo definiscono più heavy ed è possibile che abbiano ragione entrambi. Gli undici pezzi sono stati scelti tra trentasei canzoni composte dalla band e tra gli ospiti figura la cantante svedese Petronella Nettermalm, mentre Francesco Ferrini e Francesco Paoli dei Fleshgod Apocalypse hanno contribuito agli arrangiamenti. I testi, ancora una volta, sono ad opera del paroliere Pekka Kainulainen e, a detta del cantante Tomi Joutsen, non vanno a definire un vero e proprio concept ma sono ispirati al tema del viaggio. In attesa della recensione completa, vi proponiamo un track-by-track in cui cercheremo di darvi un’idea di ciò che abbiamo ascoltato.
AMORPHIS
Esa Holopainen – chitarre
Tomi Koivusaari – chitarre
Tomi Joutsen – voci
Olli-Pekka Laine – basso
Jan Rechberger – batteria
Santeri Kallio – tastiere
HALO
Data di uscita: 11/02/2022
Etichetta: Atomic Fire Records
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1. Northwards (05:30)
Il primo pezzo di “Halo” si apre con un intro di tastiere nel classico stile della band, ma subito un riff corposo e l’ingresso in scena del growl ci fanno capire quale sarà il mood del disco, sicuramente più greve rispetto a quello del suo predecessore. Le voci continuano ad alternarsi tra growl e pulite per tutta la durata del brano, con le chitarre sempre aggressive che, in alcuni momenti, hanno addirittura un taglio thrash. A circa metà brano, un rallentamento improvviso con un assolo melodico, le tastiere anni ’70 ed una voce evocativa epoca “Far From The Sun”. Un coro anticipa il finale, che ritorna sui ritmi più alti della prima parte e ne va a recuperare il riff. “Northwards” sembra essere un primo brano d’impatto, catchy e potente in maniera equilibrata.
2. On The Dark Waters (04:47)
L’inizio del secondo pezzo è affidato ad un riff di chitarra circolare affiancato da un suono di tastiera goticheggiante, ma subito parte una cavalcata death/doom in pieno stile primi Amorphis, quelli di “Tales From The Thousand Lakes” per intenderci. Growl e voce pulita si rincorrono, cosa che accadrà praticamente in ogni pezzo dell’album, dando vita ad un brano che può ricordare anche gli In Flames del periodo centrale, fino a che il suono di un sitar non rallenta i ritmi, che poi ritorneranno sostenuti nel finale. “On The Dark Waters” è un pezzo dinamico, con una struttura semplice ma anche varia e con un’atmosfera tra il doom ed il folk. Al primo ascolto, uno dei punti focali dell’album.
3. The Moon (05:57)
A dare il là sono ancora una volta con le tastiere, in una lunga introduzione in cui ha un ruolo da protagonista anche il basso, finché un riff epico di chitarre non fa partire il pezzo. L’interpretazione vocale di Tomi Joutsen è nuovamente di alto livello sia nelle parti in growl sia in quelle con voce pulita; in questi ultimi momenti, in particolare, il riferimento sembrano essere i suoni più compassati del periodo “Elegy”/”Tuonela”. L’accoppiata Olli-Pekka Laine/Santeri Kallio ritorna sugli scudi per un breve intermezzo ambient con tanto di eteree voci femminili, prima che l’epicità prenda il sopravvento nel tumultuoso finale. Decisamente un altro centro.
4. Windmane (04:49)
Altro brano che parte lento ma, nel giro di poco, un riff doom e melodico, dal suono tipicamente Amorphis, e qualche nota di tastiera dal gusto folk introducono una sfuriata con tanto di feroce growl che ci riporta in una dimensione death dal sapore parecchio anni ’90. Il pezzo prosegue con una serie di rallentamenti e conseguenti ripartenze ed un altro lavoro rimarchevole dal punto di vista vocale, con l’ugola di un Tomi Joutsen in forma smagliante, capace di guidare il saliscendi di emozioni che “Windmane” riesce a provocare. Il riff iniziale viene poi ripescato, fino al crescendo conclusivo che culmina in un assolo melodico e ci conduce al termine di un brano che vede un ritorno a sonorità che, con questa intensità, non sentivamo da diverso tempo.
5. A New Land (04:36)
Si parte con un riff hard rock epico e potente ad aprire un pezzo veloce e melodico nel quale, come in tutto l’album, growl e voce pulita si rincorrono in modo dinamico. Le tastiere sono meno invadenti rispetto ad altre occasioni ma formano un tappeto sonoro in grado di accompagnare le chitarre secche e potenti nei loro frequenti cambi di ritmo; sono infatti le sei corde ad avere la parte del leone in “A New Land”, con soluzioni varie e coinvolgenti, dando luogo ad un brano che per scorrevolezza potrebbe addirittura ricordare qualcosa dei primi Lacuna Coil. Da notare anche il ritorno del sitar in due diversi frangenti ad aggiungere un pizzico di folk a quello che sembra essere uno dei momenti più orecchiabili dell’album.
6. When The Gods Came (04:56)
Brano caratterizzato da un suono di tastiere ottantiane, usate in una maniera tale che, perlomeno nella parte iniziale, può far tornare alla mente alcuni brani dei Dark Tranquillity, in quello che, di primo acchito, sembra essere un classico pezzo death parecchio melodico. Ancora una volta growl e voci pulite si succedono in rapida sequenza in uno scorrere fluido ma con pochi momenti che rimangono veramente impressi. Magari il tempo e ripetuti ascolti ci faranno cambiare idea ma “When The Gods Came” sembra essere un brano un po’ di maniera, non brutto ma piuttosto anonimo.
7. Seven Roads Come Together (05:38)
Di nuovo le tastiere ad introdurre il settimo brano in scaletta, ma questa volta, fin dall’inizio, il mood sembra essere decisamente più virato verso il prog metal, soprattutto nella prima parte, che mette in mostra riff che non sfigurerebbero in un album dei Dream Theater. Ancora una volta fanno capolino quelle atmosfere e quei suoni che rimandano a “Far From The Sun”‘ e ribadiscono la passione dei finlandesi per gli anni ’70, anche se il cantato in growl ci porta di un ventennio più avanti. “Seven Roads Come Together” è un pezzo dinamico, molto melodico, con un buon impatto ed un ritornello riconoscibile, tra i più progressivi del lotto; sicuramente risolleva le sorti dell’album dopo che il brano precedente non aveva pienamente convinto.
8. War (05:24)
Un arpeggio orientaleggiante suonato con il sitar apre il pezzo che, dopo un break di batteria, non ci mette molto ad esplodere in un riff di chitarra tipico del repertorio dei finlandesi; un improvviso rallentamento e subito una ripartenza con tanto di growl, poi una nuova frenata ed entra la voce pulita ed evocativa di Tomi: quest’altalena va avanti finché un coro epico e fiero non arriva inaspettato ad annunciare il finale furioso, che sembra portare venti di guerra. “War” è un altro brano grintoso e con un buon tiro il quale, però, non aggiunge moltissimo a ciò che si è sentito fino a questo momento. Nessun calo importante, ma si ha l’impressione che la seconda parte di “Halo” sia inferiore a quella iniziale: solo con i successivi ascolti saremo in grado di confermare o meno questo parere.
9. Halo (04:40)
Il pezzo che dà il titolo all’album è anche uno dei pochi brani con i suoni ed un andamento che si differenziano da quanto abbiamo ascoltato finora. L’apertura è affidata a suoni elettronici che subito si trasformano in una cavalcata epica su ritmi medi e con voce pulita; per la prima volta fino a questo punto il growl non riveste un ruolo primario, ma è presente solo in alcuni momenti come contrappunto alle clean vocals. Le tastiere fanno da tappeto sonoro per tutto il brano e nella parte centrale diventano protagoniste, prima che un intramezzo con soave voce femminile introduca la chiusura, con la ripresa delle sonorità iniziali.
10. The Wolf (04:46)
Con il penultimo brano si ritorna a picchiare duro, tanto che lo stesso Joutsen ha definito “The Wolf” come una canzone influenzata dai Metallica e, ascoltando i rocciosi riff iniziali che sfociano in un growl potentissimo, non si può che essere d’accordo con il cantante finlandese. La voce poi, come consuetudine, cambierà più volte durante lo svolgimento del pezzo, che però rimarrà heavy fino a quando un assolo dal sapore Paradise Lost non arriva a spezzare i ritmi e ad introdurre – ancora una volta – un coro, prima della ripresa su ritmi elevati, fino a giungere a degna conclusione. Sospeso tra riffing thrash ed atmosfere death, “The Wolf” è uno dei momenti più duri di “Halo” e ne rappresenta un altro dei picchi.
11. My Name Is Night (04:43)
Si giunge al termine con “My Name Is Night”, l’unica ballata del disco e altro pezzo decisamente riuscito. Archi e strumentazione acustica introducono la voce di Petronella Nettermalm, finché l’ingresso di Tomi non dà inizio ad un duetto che viaggia su toni notturni e crepuscolari, come lo stesso titolo sembra indicare. Un brano decisamente canonico ma non per questo scontato, in bilico tra le ballad anni ’80 e le atmosfere goticheggianti del decennio successivo, parecchio emozionante e perfetto sigillo ad un album che, ad una prima impessione, sembra pareggiare le alte aspettative.