ARCH ENEMY: il nuovo “Deceivers” traccia per traccia!

Pubblicato il 19/07/2022

Mentre c’è ancora chi rimpiange l’era Liiva – in un partito di nostalgici che se la gioca con chi spera in un nuovo “The Jester Race” – gli Arch Enemy di Michael Amott procedono imperterriti per la loro strada lastricata di death metal melodico, forti di un consenso crescente da quando in formazione c’è stato l’avvicendamento tra Angela Gossow e Alissa White Glutz. A cinque di distanza da “Will To Power”, pausa evidentemente dilatata dalla pandemia, è dunque tempo per il terzo capitolo con la cantante dai capelli blu, dove ancora una volta il comando delle operazioni è saldamente nelle mani dell’ex Carcass (leggasi: nessun coinvolgimento di Jeff Loomis). Anche se le anticipazioni dei primi singoli risalgono ormai a quasi un anno fa, a poche settimane dall’uscita abbiamo avuto modo di ascoltare con calma il disco: in attesa della recensione per il giudizio definitivo, a voi il resoconto traccia per traccia.

 

ARCH ENEMY
Michael Amott – chitarra
Jeff Loomis – chitarra
Alissa White-Gluz – voce
Sharlee D’Angelo – basso
Daniel Erlandsson – batteria

DECEIVERS
Data di uscita: 12/08/2022
Etichetta: Century Media
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01. HANDSHAKE WITH HELL (05:39)
Sebbene la sorpresa fosse già stata anticipata qualche mese fa con l’uscita del singolo, il momento è finalmente arrivato. Dopo aver rotto il ghiaccio con la semi-ballad “Reason To Believe” (dal precedente “Will To Power”) le clean vocals di Alissa si ergono finalmente a co-protagoniste di un pezzo più ritmato, non a caso posto in apertura: se sarà il preludio di un nuovo corso è ancora presto per dirlo, ma di sicuro l’esperimento funziona più che bene. Dopo un minuto di su e giù sul manico della chitarra, scandite da pelli e piatti in un crescendo epico che funge da intro mascherata, l’inizio del brano è abbastanza classico, con una ritmica veloce accompagnata dal classico scream, fino all’arrivo del sopra citato coro pulito. Il giochino scream/clean si ripete trovando il proprio climax nel bridge acustico, prima del lungo assolo finale in pieno stile della casa. Con una brutale sintesi potremmo definirlo come un incrocio tra gli Arch Enemy di “Wages Of Sin” (soprattutto per i lick melodici) e gli Amaranthe: una bestemmia per molti, ma probabilmente anche un modo per intercettare nuove fette di pubblico che non erano ancora nate ai tempi di “Burning Bridges”.

02. DECEIVER DECEIVER (03:51)
Se la traccia d’apertura mostra il lato più ‘zuccherino’, la quasi title-track invece spinga su quello più pestone (pur restando nei limiti auto-imposti dagli Arch Enemy degli ultimi anni). Il riffing stoppato e il sound più compresso in stile Fear Factory riporta l’orologio indietro ai tempi di “Doomsday Machine” (terzo disco dell’era Gossow), e chiudendo gli occhi sembra di sentire Alissa arringare le folle al coro di “Deceiver, Deceiver”. Il consueto solo neo-classico riporta tutto sui binari più tradizionali, ma la durata è tutto sommato contenuta (sempre per gli standard della casa) e la commistione funziona egregiamente, con tanto di risata diabolica posta alla fine. Un po’ poco per emozionarvi se avete sentito due-tre band più o meno estreme nella vostra vita, ma comunque svolge bene la sua funzione d’intrattenimento/iniziazione per le nuove leve affascinate dai capelli blu della cantante canadese.

03. IN THE EYE OF THE STORM (04:09)
La tempesta promessa dal titolo si apre con delle orchestrazioni epiche, preludio alla battaglia scandita da un midtempo che come ambientazione potrebbe essere uscito da una colonna sonora di un film anni ’80, non tanto per la presenza di synth quanto per il climax funzionale ad un training montage stile “Rocky IV”: strofa e ritornello mantengono la velocità di crociera, creando la giusta atmosfera per la sei corde di Amott che entra anch’essa in crescendo come protagonista a metà del brano con tanto di chiamata alle armi del pubblico sul finale, a conferma di come questo sia un pezzo pensato per incendiare il pubblico del Wacken quanto e come “We Will Rise”.

04. THE WATCHER (04:58)
Un riff più epic-folk apre la quarta traccia, ma quando pensavamo di aver fatto partire per sbaglio gli Alestorm o i Trollfest ecco spuntare il consueto mitragliamento ritmico delle due chitarre, per una strofa sparata a mille che lancia di nuovo il ritornello da balera (stupido finché si vuole, ma vi sfidiamo a non accompagnarlo al suono di “ooooh-oh-oooooh”). Perfetto come sempre il lavoro alle pelli dello storico batterista Daniel Erlandsson, dalla doppia cassa ai fill rockeggianti del chorus, così come da sottolineare la timbrica di Alissa, che pur senza abbandonare lo scream riesce a modulare bene la differenza tra le parti più tirate e quelle più melodiche. La maggiore lunghezza del pezzo lascia poi ampio spazio ai guitar heroes, che nella seconda metà si ergono ad assoluti protagonisti spaziando dal classico Gothenburg sound a qualcosa di meno già sentito (un po’ di libertà per il soldato Loomis?).

05. POISONED ARROW (03:51)
La chiusura della traccia precedente sfuma nell’incipit orchestrale della quinta, presto seguita da un arpeggio in delay che potrebbe ricordare la versione romantica dei Metallica. Dopo circa un minuto entra in scena il distorsore, ma l’impressione di trovarsi al cospetto di una semi-ballad viene confermata dal cantato di Alissa, morbido pur nella sua asprezza e scortato costantemente da due tracce di chitarra in stile ‘poliziotto buono/poliziotto cattivo’. Assolo e bridge procedono come da copione, tra overdose di Floyd Rose e sussurri atmosferici prima dell’esplosione finale, ma arrivati a metà tracklist l’impressione è che la parola chiave del disco sia ‘contaminazione’, mescolando il classico Arch Enemy sound con altre maschere, come ben rappresentato dalla copertina.

06. SUNSET OVER THE EMPIRE (04:03)
Un bel giro di basso apre quello che Amott stesso ha definito come una ‘hit da pogo’, e da questo punto di vista non ci sentiamo di dargli torto visto il tiro micidiale e i trucchi pensati per scatenare il pubblico. Musicalmente classificabile come un ‘more of the same’ – la struttura è paragonabile a successi più o meno recenti come “War Eternal”, “Nemesis” o “Dead Eyes See No Future” – il pezzo funziona grazie ad un testo perfetto per gli ammiratori un po’ faciloni di Greta Thunberg e viene spinto a dovere dagli arrangiamenti, compreso un coro registrato che sarà facilmente sostituito dal boato del pubblico in sede live. Mettendo da parte un po’ di sano cinismo, un pezzo formalmente perfetto per incendiare le folle sotto gli incitamenti della pasionaria dai capelli blu, concedendo un momento di gloria anche allo spesso dimenticato bassista Sharlee D’Angelo qui in veste protagonista sul finale.

07. HOUSE OF MIRRORS (03:39)
Parlando di paraculaggine e retro-mania l’apice probabilmente è rappresentato dalla casa degli specchi, brano nei cui crediti figura perfino il fratellino minore degli Amott (che evidentemente pur suonando coi Dark Tranquillity ha ancora diritto di parola negli Arch Enemy, a differenza di Loomis). Musicalmente tutto si regge sul riff portante preludio ad una classica cavalcata anni ’80 nello stile delle ultime produzioni come “A Fight I Must Win”, con i lick melodici a farla da padrone. Parafrasando una dichiarazione recente di Alissa, c’è sì da preoccuparsi sul futuro del metal ma per quanto riguarda il presente non ci possiamo lamentare: anche qui non s’inventa assolutamente nulla, ma c’è comunque di che divertirsi.

08. SPREADING BLACK WINGS (04:46)
Ancora la chitarra protagonista con un intro che sembra un pezzo strumentale, in un crescendo orchestrale presto accompagnato dai cori del pubblico, a voler ribadire una volta di più l’intento ‘festivaliero’ delle nuove canzoni. Dopo circa un minuto entra anche la voce, su un midtempo che cresce lentamente d’intensità fino ad un ritornello più epico che catchy, con una base ritmica abbastanza elementare ma comunque efficace nello scaldare le braci prima della fiammata all’altezza del chorus. Nonostante tutto comunque un pezzo abbastanza anonimo, e la presenza di un ulteriore outro di circa un minuto restituisce l’idea di un brano un po’ riempitivo, che avrebbe potuto essere tranquillamente strumentale.

09. MOURNING STAR (01:36)
La vera strumentale arriva invece subito dopo, con uno strano effetto sonoro inframezzato tra due arpeggi di chitarra sovrapposti: vista la ridotta durata difficile da giudicare se non in funzione di cuscinetto, ma curiosamente si pone a metà tra gli intermezzi più atmosferici degli ultimi In Flames e quelli più classici dei Nightrage.

10. ONE LAST TIME (03:48)
Ci aspettavamo una ripartenza sparata dopo la quiete del precedente break, invece la penultima traccia mescola un po’ le carte. Lo scatto iniziale per la verità è abbastanza standard, ma al momento dell’esplosione nel ritornello spunta un inedito pre-chorus in spoken word, prima che Alissa ci prenda per mano con un ritornello tra i più trascinanti dell’album, nonché perfettamente armonizzato con la chitarra di un Amott che guarda più al feeling che alle scale a perdifiato. In poco più di tre minuti, un bel pezzo che tiene alta l’attenzione mentre ci avviciniamo al gran finale.

11. EXILED FROM EARTH (04:44)
Un tappeto di tastiere (quasi in odore di Children of Bodom) apre l’ultima traccia regolare del disco, preludio ad un pezzo più sinfonico che sembra iniziare come colonna sonora di un film horror fantascientifico. In realtà dopo l’intro atmosferica si torna su coordinate più canoniche con una marcetta che unisce epica battagliera e modernità cyber senza particolari colpi di scena, come a voler mescolare la seconda e la quarta traccia. La parte più interessante resta il lungo assolo, ma per chiudere in bellezza ci si poteva aspettare qualcosa di più spettacolare che una coda strumentale con dei synth a là Stringer Things .

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