DEATH – Una selezione di brani in ricordo di Chuck Schuldiner

Pubblicato il 13/12/2021

Speciale a cura di Giuseppe Caterino

Venti lunghi anni sono passati da quel fatidico, maledetto, 13 dicembre del 2001, eppure sembra ancora ieri. I messaggi sgomenti, i dischi riascoltati per giorni, i concerti tributo e le playlist (anche se non si chiamavano ancora così!) al pub metal dedicate a lui, Chuck Schuldiner, che lasciò questo pianeta quell’infausto giorno a soli trentaquattro anni. Nel corso degli anni non si è mai affievolito l’affetto verso questo musicista, così come la stima per il suo lavoro all’interno dell’heavy metal e del mondo delle sei corde; padrino del death metal tutto e innovatore del genere stesso, ‘Evil Chuck’ ebbe modo di suonare nei suoi dischi con musicisti stellari, dimostrando una leadership forte, un’idea chiara verso la propria arte, una fama di comandante a volte dispotico (forse figlia di un carattere complesso); questo, insieme forse con i lutti in giovane età, mostra spesso un senso quasi di insicurezza, talvolta capace di trasparire, come vedremo, in alcuni suoi testi. Ma figurano anche una grande riflessione psicologica, un’aura di esistenzialismo e una tangibile cultura, la quale nel corso dei sette dischi a nome Death (che qui ripercorriamo), diventerà punto focale della sua produzione. Così come la musica, un viaggio dalle origini violente e splatter con “Scream Bloody Gore”, un album capace di rivoluzionare un intero movimento, sino alle derive più heavy che death di “The Sound Of Perseverance”. Abbiamo voluto scegliere tre brani per album (decidendo di dedicarci solo ai Death, lasciando da parte i Control Denied, di cui pure adoriamo “The Fragile Art Of Existence”), corredandoli, quando possibile, con video dell’epoca di produzione, per ripercorrere ideologicamente, attraverso un percorso simbolico, la discografia di una band-simbolo all’interno del genere. Vi lasciamo dunque questa selezione a titolo di ascolto collettivo, come se fossimo tutti al pub, alzando un calice al nome di Chuck ancora una volta, mentre nelle casse i suoi giri di chitarra suonano ancora una volta. Certamente non l’ultima. 

 

 

INFERNAL DEATH (da “Scream Bloody Gore”, 1987)
Autore: Chuck Schuldiner
Il primo brano di un primo disco ha sempre un fascino che lo avvolge, un po’ per il suo ruolo di capostipite in una discografia – in questo caso – fondamentale nel genere tutto, un po’ perché la foga della giovane band che la piazza in quel preciso punto si esprime in un brano quasi sempre d’impatto. È il caso di “Infernal Death”, vero e proprio assalto frontale: un giro di accordi basilare in apertura, scandito dai piatti, una partenza dimessa sorretta da urla a metronomo, come intro, e poi via si parte. Riff ipnotico e ripetuto, semplice, brutale, rozzo, francamente irresistibile, una creatura mutuante dal thrash metal più rumoroso e in cerca di una propria ragione d’essere, assolo a rasoiata, “Infernal Death” è prima di tutto una dichiarazione d’intenti. I testi (di tutto il disco) sono puro gore, violenti, horror, la produzione è grezza come l’esecuzione dei brani, la sensazione è quella di un’aggressione bella e buona: l’importanza di “Scream Bloody Gore” all’interno dell’heavy metal lo renderà un album fondamentale per tutto un sottogenere, e designerà Chuck come il padrino del death metal.

Existence fading
Into ashes
Burn those bodies
To infernal death

 

ZOMBIE RITUAL (da “Scream Bloody Gore”, 1987)
Autore: Chuck Schuldiner
Intro evocativa a due chitarre, quasi misticheggiante, pronta a deflagrare in una strofa inviperita che però si ferma quasi subito per creare un’alternanza di varie velocità nel proseguimento. Già ai suoi esordi ‘Evil Chuck’ mostra una certa capacità di creare degli afflati melodici all’interno di brani rumorosi e violenti, e lo svolgimento del pre-chorus è a modo suo semplice, ma quanta espressività troviamo in questo pugno di accordi che ci portano al ritornello dall’urlo “Drink from the goblet, the goblet of gore”? Un pezzo d’impatto che non si leverà più dalla mente di ogni metallaro degno di questo nome.

“Drink from the goblet, the goblet of gore
Taste the zombie’s drug, now you want more
Drifting from the living, joining with the dead
Zombie dwelling maggots, now infest your head”


EVIL DEAD
(da “Scream Bloody Gore”, 1987)
Autore: Chuck Schuldiner
Intro adeguata per un brano a tema horror (sebbene ispirata fortemente dai metaller francesi Sortilege e dal loro brano “Amazone”), il richiamo più immediato è rivolto a quel capolavoro assoluto che è “Evil Dead” (“La Casa”, in Italia), di Sam Raimi. Il prestito della forma canzone puramente thrash è evidente in questi tre minuti scarsi di botta e risposta tra strofe violentissime ed essenziali nei loro accordi atmosferici, contro un ritornello di sole due parole urlate grondando sangue. Non per niente il brano era già presente nel demo dei Mantas (la band poi diventata Death – con voce del batterista Kam Lee, peraltro), in una forma ancora più rozza e primigenia, e non stupisce per l’appunto nella sua composizione fortemente influenzata dagli ascolti propri dell’autore. Il riffing fa da contralto a una sezione ritmica (che su “Scream Bloody Gore” era ad opera dello stesso Chuck, al basso, e Chris Reifert alla batteria, poi in forze negli Autopsy, come recita ciascun manuale di storia) dritta come gli spari di una mitragliatrice, mentre l’assolo trasuda un’oscurità seminale, primigenia.

“Covered in blood, all hope is lost
Forever to rot, controlled by the powers of the
Evil dead”

 

 

LEPROSY (da “Leprosy”, 1988)
Autore: Chuck Schuldiner
Che dire di un disco e di un brano come “Leprosy”? Una copertina divenuta iconica, intro martellante, crescente, e che a sorpresa esplode, si, ma in una strofa pesante più che veloce, sorretta da una doppia cassa pronta a macinare ogni cosa sul suo cammino. Il brano evolve, con accelerazioni interne, stop and go, passaggio ‘semi-ska’: il bello di un pezzo come questo è nella sua continua capacità di cambiare rimanendo perennemente in tema con se stesso.  Il songwriting del resto è ancora piuttosto grezzo, ma rispetto al debut album risulta già evoluto e pronto a mostrare le capacità di questo progetto, che muterà forma praticamente in ogni sua incarnazione. Il thrash esasperato di “Scream Bloody Gore” diventa qui qualcos’altro, il germe del death metal è chiaramente pronto a spuntare e a generare un intero movimento e n profluvio di emulatori. La line-up, come in ogni disco dei Death, è rinnovata: Rick Rozz di ritorno alla chitarra (e co-autore di alcune musiche), con Bill Andrews e il solo accreditato Terry Butler al basso, che si unirà di fatto a registrazione avvenuta, lasciando le quattro corde in mano a Schuldiner anche per questo disco.

“Leprosy will take control and bring you to your death
No chance of a normal life to live just like the rest
Leprosy will spread with time, your body soon to change
Appearance becomes hideous a sight too much to take”

 

LEFT TO DIE (da “Leprosy”, 1988)
Autori: Chuck Schuldiner, Rick Rozz
Una chitarra solitaria apre ad una partenza in tupa-tupa che finisce poi in una strofa con un riffing prettamente death metal, trasudante tiro, pronta a sua volta a portare verso una velocità controllata, pesante, pronta a travolgere chiunque si trovi sulla sua strada. Il brano è per l’appunto massiccio, ma non per questo privo di agilità, come dimostra la sua parte centrale, e s’incentra su temi ancora una volta gore, come tutta la prima produzione della band, anche se qui si percepisce già una nota di tristezza (ricordiamo ancora quanto la morte del fratello sedicenne influì fortemente sulla formazione di un Chuck ancora bambino) e di quelli che saranno, ancora alla lontana, i testi dei Death.

“Bodies fall onto the ground
Blood flies through the air
Shredded victims lie in pain
Death is never fair”

 

OPEN CASKET (da “Leprosy”, 1988)
Autori: Chuck Schuldiner, Rick Rozz
È proprio in “Open Casket” che Chuck cerca di esteriorizzare il dolore e probabilmente la confusione generata nella sua mente dalla morte del fratello; forse il testo di “Leprosy” che più virerà verso il Chuck maturo dei prossimi dischi. Il brano parte con un riff marziale spinto da una forza propulsoria come sempre volta ad un crescendo esplosivo, dove la velocità e la violenza prendono il sopravvento ma si intersecano tuttavia con un paio di riff rallentati, quasi più ragionati, non privi di una nota melodica, pronti però a lasciar spazio a una cruda realtà di sofferenza e brutalità, fino all’esecuzione di un assolo minimale e un continuo rincorrersi di riff pronti a lasciare il passo l’uno all’altro, in un finale sempre più colorato di pennellate pronte a ritornare al tema principale. Forse il brano più completo di “Leprosy”, quanto meno il preferito di chi scrive.

“Death is oh so strange
The past no one can change
What you can’t predict
Is how long you’ll exist
Open casket – Open casket
Life will never be the same
Death can never be explained
It’s their time to go beyond
Empty feeling when they’re gone”

 

 

LIVING MONSTROSITY (da “Spiritual Healing”, 1990)
Autore: Chuck Schuldiner
Una opener killer, come altro potremmo definire un brano come “Living Monstrosity”? Apertura secca, diretta, un cazzotto carico di groove e violenza che però fa presagire immediatamente che qualcosa è cambiato in casa Death. A scapito dello storico Rick Rozz ecco arrivare alla sei corde un musicista decisamente più virtuoso come James Murphy, assieme al quale arrivano influenze capaci di spaziare dal death marcio e rabbioso di “Leprosy” a influenze blues e jazz,  pronte a traghettare i Death verso una nuova dimensione. Ma non è ancora tempo, e “Spiritual Healing” suona come perfetto punto d’incontro, dove anche i temi si fanno più maturi e popolari, abbandonando il gore delle prove precedenti ma ancora non toccando le vette esistenzialiste che seguiranno. Poco male; brani come questo e tutti gli altri mostrano un Chuck in forte crescita tecnica, e le composizioni saranno caratterizzate sempre più da un bilanciamento di tecnica e violenza, come già qui sentiremo nelle varie parti che compongono “Living Monstrosity”.

“The beginning of the end begins at birth
Breeding masses
of twisted screaming flesh
An example we should make out
of theses creators of misfortune
A serious crime that should not be forgiven”

 

DEFENSIVE PERSONALITIES (da “Spiritual Healing”, 1990)
Autore: Chuck Schuldiner, Terry Butler
Un riff di apertura che sembra quasi mutuato dagli Slayer porta ad una ventata di violenza totale, con una strofa veloce come la morte e destinata a portare scompiglio, fino ad un rallentamento che inganna e ci porta di fronte ad uno stop and go tra i migliori di questo disco, accompagnato dalla voce di Chuck, ancora gutturale e basilare, ma già personalissima e riconoscibile. Un riffing spietato, deflagrante in una parte centrale da spezzare il collo con la sua ritmica esaltante, e una parte solistica dove Schuldiner e James Murphy si scambiano continuamente il timone dell’apparato solistico. Uno dei pezzi più indiavolati del disco forse, capace di trasmettere una morbosa melodia e di evocare tutta la rabbia che bruciava nel cuore dei Death.

“Protecting the weak points of the mind
Defensive personalities
Violent one minute calm the next
Defensive personalities”

 

SPIRITUAL HEALING (da “Spiritual Healing”, 1990)
Autore: Chuck Schuldiner
Impossibile non inserire questo brano in una compilation dedicata ai Death! Un pezzo monumentale, che all’alba del 1990 segna uno scarto tra sé e tutto quello composto dal suo autore in precedenza. Un pachiderma di quasi otto minuti dove le varie parti componenti il brano si susseguono una dietro l’altra senza respiro, eppure con un’armonia quasi commovente. Un brano sull’ipocrisia, che prende di mira in particolare i predicatori dal comportamento ambiguo, i guaritori, la chiesa e le sue falle ideologiche; in trasparenza si intravede già una sorta di delusione verso un certo tipo di comportamento umano. Dall’iconica introduzione al proseguimento che fa credere di avere intuito più o meno la struttura del brano, ecco che sul più bello il pezzo si ricrea all’interno di una vera e propria sottotrama, con l’urlo di un bestiale “Practice what you preach!”, un mid-tempo da scardinarsi tutte le vertebre e un passaggio di chitarra a seguire da farci palpitare anche dopo quasi trent’anni che l’ascoltiamo. Il duo Schuldiner e Murphy è il vero protagonista di questa canzone e dell’album intero (laddove la sezione ritmica non risalta così tanto, a dire il vero), e ci fa pensare a come sarebbero evoluti i Death a fronte di una collaborazione duratura fra questi due musicisti. Ma una mente vulcanica come quella di Chuck Schuldiner necessitava autonomia, e i dischi futuri sono pronti a dimostrararlo.

“Practice what you preach
Your loved one is now deceased
Knowledge is at our hands
Never to understand
Spiritual healing”

 

 

FLATTENING OF EMOTIONS (da “Human”, 1991)
Autore: Chuck Schuldiner
Cambio di programma! Se “Spiritual Healing” lasciava presagire un cambio di stile, una nuova visione della propria musica, quando “Human” esce sul mercato diventa chiaro che il disco precedente agì di fatto da leva verso un modo tutto nuovo di intendere il death metal (senza voler relegare “Spiritual Healing” a semplice disco di passaggio). Già con il logo e la copertina, ancora prima di ascoltare “Human”, si presagisce un cambio di rotta: death metal tecnico, ragionato, eppure pregno di passione, di sentimento; merito di una line-up stellare: Paul Masvidal e Sean Reinert direttamente dai Cynic, e al basso un giovanissimo Steve Di Giorgio dai Sadus, il quale lavorerà ancora a fianco di Chuck in futuro. Il cambiamento è tangibile sin dal primo brano, quella “Flattening Of Emotions” in partenza come un pesante schiacciasassi, pronta a lambire lidi dalle influenze progressive – quando non jazz e fusion. Eppure, al di là di un cambiamento pazzesco rispetto alla band di soli pochi anni prima, l’imprinting della creatura è ben presente nello stile di Schuldiner, nonché nei suoi testi i quali da qui in poi assumeranno un valore introspettivo ed esistenziale sempre crescente.

“Should we not prepare
For the uncertain
Mysteries of our life
Of our destiny

See things that are not there
Intruding voices

What went wrong
To their picture perfect life
They once knew
Flattering of emotions”

 

LACK OF COMPREHENSION (da “Human”, 1991)
Autore: Chuck Schuldiner
Ci sembrava una scelta sin troppo scontata, quella di includere anche “Lack Of Comprehension” nella nostra lista, ma come avremmo potuto tenere fuori questo capolavoro? A modo suo melodica e catchy (scelta per un videoclip, forse non a caso), questa canzone rappresenta uno dei fulcri di “Human”: dal suo inizio soffuso, liquido, a una strofa veloce come la morte, strabordante in un ritornello che sublima un tema ricorrente nel pensiero di Chuck, ovvero quello dell’incapacità di vedere la vita da diversi punti di vista, della disonestà intellettuale di alcuni di noi (se non tutti) nell’incolpare ‘l’altro’ senza prima fare i conti con se stessi. Gli assoli godono di un’esposizione in una fase rallentata che quando passa ad un’accelerazione diventa una sinfonia, dove sezione ritmica e chitarre si intendono in un dialogo perfetto. La voce di Chuck raggiunge una sua vetta di perfetto growl ‘maturo’, potente e profondo, segnando a tutti gli effetti uno stile all’interno di un genere che non sarebbe lo stesso senza la sua creatura.

“So easy to blame the
Everlasting guilt on a pathetic attempt
To justify the ending of life
Lies
Right before your very eyes
A reflection of the mistakes
To the end you will deny
Your help in the ending of a life”

 

VACANT PLANETS (da “Human”, 1991)
Autore: Chuck Schuldiner
Altro pezzo da novanta, come del resto tutto l’album sembra essere. “Vacant Planets” chiude l’album lanciando simbolicamente il filo alla sua continuazione, lasciando immaginare il futuro musicale dei Death grazie alle sue escursioni chitarristiche, alla sua capacità di ricreare un sound brutale ed estremamente evocativo, con un intermezzo centrale nel quale basso e chitarre si rincorrono in un trionfo di tapping totalmente al servizio della canzone e non dello sfoggio fine a se stesso, che è un po’ quello che accade nella precedente (sull’album) “Cosmic Sea”, brano strumentale trasognante e visionario. Il death metal resta ancorato alla sua brutalità, ma come per tutto “Human” il livello è altissimo, così come quello del testo, che qui sembra voler scandagliare l’indifferenza umana a quello che segue il proprio passaggio: così come distruggiamo la nostra stessa Terra per vivere una vita fatta di cose inutili, così facciamo coi rapporti con le persone, con gli esseri umani vicino a noi, calpestando affetti e dignità, rimanendo infine soli nel nostro personale pianeta, vuoto e prossimo alla distruzione.

“Limiting our passages of thought
Are they examples of regression
A life form’s abusive progression
In a realm so vast
We sit among the vacant
Planets”

 


OVERACTIVE IMAGINATION (da “Individual Thoughts Pattern”, 1993)
Autore: Chuck Schuldiner
Altro giro altro scossone in casa Death! Per alcuni il punto più alto dell’arte dei Death, “Individual Thought Patterns” arriva sugli scaffali nel 1993, e vede nel suo libretto una formazione da far ghiacciare il sangue nelle vene: Andy LaRoque alla chitarra, Steve DiGiorgio al basso e un imponente Gene Hoglan dietro le pelli, agli ordini di uno Schuldiner alla ricerca di un suono sconvolgente, che non stravolga la base death metal ma bensì porti la sua band a superare le barriere della tecnica, che suoni musicale ma inconsueto, cervellotico e godibile assieme. Il risultato è una bomba. Un disco pazzesco, che si apre con “Overactive Imagination”, un brano di quelli da farci cadere dalla sedia; un’apertura micidiale sempre più in crescita, culminante in un ritornello in cui la sezione ritmica funge da tappeto mobile per una voce sempre più personale e una musicalità che traspare dalle trame intessute dal duo Schuldiner-LaRoque alle sei corde, per un continuo incrocio di emozioni. I testi sono ormai diventati importanti quanto la musica, seguendo il pattern iniziato in “Human”: qui sembra voler descrivere un pensiero costante di appartenenza ad un ruolo e allo sviluppo del controllo delle proprie azioni, pratica destinata a fallire vista l’impossibilità di gestire gli accadimenti che non dipendono da noi. Forse un testo semplice, rispetto ad altri di quest’era, ma dal significato più che mai indicativo del Chuck-pensiero.

“Your script will run short of ideas
The story will soon end itself
People to trust come short in number.
Like a plague your lies spread
Fast across the world
Mastering the art of deception
That increases your sick addition
It’s an overactive imagination
That enslaves your empty shell”

 

IN HUMAN FORM (da “Individual Thoughts Pattern”, 1993)
Autore: Chuck Schuldiner
Una grande ossessione di Chuck, nei suoi testi, è la moralità dell’essere umano, la sua natura fondamentalmente meschina, piena di contraddizioni, vero inferno sulla terra mascherato da uomini e donne con due gambe e due braccia, concetto ben esemplificato in questa “In Human Form”. Il brano inizia quasi in medias res, entrando immediatamente all’interno della narrazione, con una progressione che si tiene sulla base di un tappeto di note, per poi lasciare lo spazio ad un passaggio puramente stile Death, pronto a divenire nuova base per una seconda strofa, e a sua volta diventando teatro per passaggi strumentalmente ineccepibili, dove rallentamenti e ripartenze ci permettono di entrare a contatto col nichilismo qui presente, ritornando poi sfiancati all’inizio del ciclo di narrazione.

“Looks can be deceiving, see beyond the shell
Flesh and eyes mean nothing.
The truth, time it will tell
Before you think you fool the world.
What comes around goes around.
Shown for what you are, a waste of life”

 

JEALOUSY (da “Individual Thoughts Pattern”, 1993)
Autore: Chuck Schuldiner
Un altro tarlo del Chuck pensiero, la gelosia; è un tema che riaffiora spesso nei testi dello Schuldiner che diventa adulto, una sorta di ossessione per chi parla alle spalle, per chi vorrebbe ciò che non può avere; platealmente, appare in questo brano un testo meno diretto di quanto sembra. Dal punto di vista musicale un altro tassello di un album epocale, con alcuni passaggi davvero senza respiro, una catarsi mistica tra Hoglan e DiGiorgio, e una vibrazione prettamente heavy metal a fare da corredo agli aspetti più musicali del brano. Il tiro trasudante dai passaggi che corredano le strofe è da far tremare la terra, e sebbene “Jealousy” sia un pezzo tenuto un po’ in disparte dalle playlist dei Death, meriterebbe un posto di primo piano anche per quanto in un pugno di minuti si riescano a condensare melodia, potenza, tecnica e groove.

“What do you want from me,
what is it you expect
I have spoken my mind from deep inside my soul
Behind the eyes is a place on one will be able to touch
Containing thoughts that cannot be taken away or replaced
You want what is not yours, Jealousy
You want what you cannot have, Jealousy”

 

SYMBOLIC (da “Symbolic”, 1995)
Autore: Chuck Schuldiner

È il 1995 e il nuovo disco dei Death è “Symbolic”, sicuramente quello che assieme al precedente consegna, in una sorta di ideale ‘doppio’, la versione migliore della band di Chuck Schuldiner. Si può discutere – e molto -su quale sia mai stata la migliore incarnazione dei Death, ma certamente la musica partorita in questi primo lustro degli anni ’90 rimarrà tra le cose migliori mai create in ambito death metal. Mantenuto Gene Hoglan alla batteria, Chuck stravolge ancora la sua band, immettendo alla seconda chitarra Bobby Koelble e Kelly Conlon al basso. Un enorme mistura di death metal, melodia, tecnica, e in maniera più marcata che in passato, una certa malinconia, un suono virante verso una strana tristezza cosmica che peermerà questo e il prossimo album. Siamo suggestionati, conoscendo l’epilogo di questa storia? Forse. Eppure non riusciamo a non percepire una sorta di fatalismo a fare da spettro ai temi e alle musiche di questo capolavoro. “Symbolic” è un brano sulla vita, su come dobbiamo celebrarla nei suoi passaggi, su come i ricordi siano importanti ma necessariamente transitori, parte di qualcosa che non esiste più, e sulla presa di coscienza che tali momenti restino irripetibili, come le occasioni perse e la voglia (impossibile da soddisfare) di rivivere determinate situazioni.

“I don’t mean to dwell
But I can’t help myself
When I feel the vibe
And taste a memory
Of a time in life
When years seemed to stand still
I close my eyes
And sink within myself
Relive the gift of precious memories
In need of a fix called innocence”

 

WITHOUT JUDGEMENT (da “Symbolic”, 1995)
Autore: Chuck Schuldiner
Una intro che cade come una mannaia per aprire ad una strofa dal riffing squisitamente heavy, note in un rincorrersi continuo che portano a diversi passaggi uniti in maniera squisita l’uno all’altro. “Without Judgement” non ha lasciato tracce live, quantomeno nell’universo dell’internet, ma è un pezzo che all’interno della scaletta di “Symbolic” risalta per una forte componente emozionale. Inserimenti di chitarre pregne di malinconia accompagnano i vari passaggi (tra cui la splendida sezione centrale, venticinque anni che l’ascoltiamo e ancora ci straccia il cuore) e sembrano aver lasciato spazio alla tristezza, in luogo della feroce rabbia che animava il ragazzo che cantava “Evil Dead”. Il tema non si discosta poi così molto dal giudizio di Chuck sulla capacità delle persone di giudicare senza voler essere giudicati, l’intolleranza di pensiero e una sorta di riflessione su come potrebbe essere tutto meglio senza il pregiudizio. Una canzone praticamente perfetta, nei suoi dettagli e nelle sue sparate death, dall’inizio alla fine.

“Take part in a diminishing breed
Where complex turns to simplicity
When pain is acknowledged
Frivolous calculations will be abolished

Without judgement what would we do?
We would be forced to look
At ourselves emerged in lost time
Assuming what may be without judgement
Perception would increase a million times”

 

PERENNIAL QUEST (da “Symbolic”, 1995)
Autore: Chuck Schuldiner
Altro brano capolavoro, altra mancata performance live, purtroppo. Una canzone dove rabbia e tristezza s’inseguono, si superano, si rincorrono; ora violenta, ora pregna di tristezza, ora complicata e intricata, ora splendidamente musicale, con un paio di passaggi dove Hoglan e Chuck sembrano aver trovato la formula perfetta per far collimare le due sezioni di appartenenza in un unicum sonoro irripetibile. Il finale torna a riprendere un senso di malinconia, un’escursione introspettiva che chiuderà il disco, “Symbolic”, in maniera quasi annichilente. Il testo sembra scandagliare la ricerca di un senso dell’esistenza, la domanda perenne posta da chiunque, e la consapevolezza della mancanza di una risposta possibile, di un vero significato, uno scopo, il ruolo della scienza nella continua evoluzione, ma sempre con uno sguardo a quello che ci risulta impossibile da spiegare. Un testo meraviglioso, da leggere nella sua interezza ascoltando le note soffuse a chiudere un album davvero epocale.

“The journey begins with curiosity
And evolves into soul-felt questions
On the stones that we walk
And choose to make our path
Sometimes never knowing
Other times knowing too much
[…]
From rivers of sorrow
To oceans deep with hope
I have travelled them
Now, there is no turning back
The limit, the sky
I ask my questions Why? What today?
When tomorrow?”

 


SCAVENGER OF HUMAN SORROW (da “The Sound Of Perseverance”, 1998)
Autore: Chuck Schuldiner
Il 1998 segna quella che sarà l’ultima release della storia dei Death per quanto riguarda album di inediti (uscirà infatti il “Live in L.A.” nel 2001, un paio di mesi prima della morte di Chuck) – e quanto meno per le uscite ufficiali con Schuldiner in vita. Parole difficili da scrivere anche vent’anni dopo, pensando a quali altri evoluzioni musicali il nome dei Death (o di Chuck Schuldiner, che in realtà aveva quasi messo in congelatore la band per dedicarsi alla ricerca di un suono più heavy e meno death – come accadrà coi Control Denied). E di fatto “The Sound Of Perseverance” è un album evoluto, fortemente discostato dal sound sin qui creato dalla band, incapace tuttavia di togliersi di dosso quello che è stato finora, sebbene la line-up sia del tutto stravolta in questa incarnazione (Scott Clendenin al basso, Shannon Hamm alla chitarra e Richard Christy alle pelli). Il suono, nella ricchezza delle composizioni, diviene quasi minimale (iperbolicamente parlando), si secca, diventa acido e aspro come la voce di Schuldiner, e mentre il riffing cerca di essere il meno death metal possibile, abbracciando idealmente un concetto di heavy metal a tutto tondo, la scrittura, nella forma classica del Death-pensiero, diviene ancora più intricata, funambolica. L’aggiunta dietro le pelli di un batterista come Richard Christy fa certamente il suo nel rendere il risultato ordinatamente caotico, complesso, e l’apertura del disco va proprio in quella direzione: un pugno con le nocche, aperto con la batteria e un riff acidissimo che porta ad un continuo rincorrersi di evoluzioni musicali difficili da dimenticare.

“Live how you want
Just don’t feed on me
If you doubt what I say
I will make you believe
Shallow are words
From those who starve
For a dream not their own to
Slash and scar

Big words, small mind
Behind the pain you will find
A scavenger
Of human sorrow

Abstract theory
The weapon of choice
Used by a scavenger
Of human sorrow”

VOICE OF THE SOUL (da “The Sound Of Perseverance”, 1998)
Autore: Chuck Schuldiner
In questa playlist ci è molto piaciuto ragionare sui testi dei brani di Chuck Schuldiner, ma abbiamo deciso di introdurre anche “Voice Of The Soul”, perché pur in assenza di liriche, il suo ‘feel’ resta davvero forte. La voce dell’anima, per l’appunto, una sequela di incroci chitarristici che restano ben distante da un mero sfoggio di tecnica, scavando e pizzicando le corde dell’anima, nel profondo del nostro inconscio. Un brano che stacca totalmente da quanto fatto in precedenza dai Death, dove le doti chitarristiche svolgono un servizio in funzione di qualcosa di più grande che la tecnica fine a sé stessa. Una canzone che a modo suo sembra voler fungere da testamento spirituale, e che, sebbene atipico, resterà marchiato a fuoco nella memoria e nel cuore di ogni ascoltatore e ammiratore.


A MOMENT OF CLARITY (da “The Sound Of Perseverance”, 1998)
Autore: Chuck Schuldiner
Così come avevamo aperto con il primo pezzo del primo disco, chiudiamo l’epopea a nome Death con l’ultimo (esclusa la cover di “Painkiller”, ovviamente!). Una canzone che ancora una volta sembra racchiudere una forte malinconia, e che nel suo incedere richiama, come tutto il disco, una struttura fortemente incentrata sull’heavy metal, ma davvero incapace di togliersi di dosso il classico suono alla Death. Fin dall’apertura si percepisce un crescendo notevole, con un passaggio martellante a introdurre la strofa, ma il ruolo del leone lo svolge la parte centrale della composizione, che diventa pura musicalità, pura emozione, dove tra vari intrecci si narra ancora una volta un punto di vista, un pensiero, questa volta rivolto alla ricerca di un punto di vita finalmente chiaro, un momento di lucidità dopo aver attraversato anni di confusione, di chiusura mentale auto-imposta, per sbiadire le cose che inconsciamente non volevamo vedere. Come se tutti i nodi fossero venuti al pettine, e come se questi nodi, infine, rappresentassero un momento passato, la possibilità infine di avere un istante, uno solo, di capacità di vedere la realtà com’è, accettandone anche i lati a noi non graditi. Non sappiamo se davvero Chuck intendesse esattamente questo, ma ci piace pensarlo. Cala il sipario, applausi e ancora applausi, e un lascito che non ci stancheremo di riascoltare.

“Open my eyes wide to see a moment of clarity
Confusion gone, it’s in your hands
Your turn to ask why.

Life is like a mystery
With many clues, but with few anwers
To tell us what it is that we can do to look
For messages that keep us from the truth”

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