INTRODUZIONE
Anche quest’anno scende nuovamente in italia, toccando il Mazdapalace di Milano (il palazzetto che detiene probabilmente il record per il maggior numero di cambi di nome…) il super-giovane e casinista carrozzone del Deconstruction Tour, interessante festival che porta in giro per il mondo un assortito coacervo di band di fama consolidata e di gruppi emergenti del sempre fertile e produttivo filone punk/hardcore, il tutto contornato dalla consueta “corte” di spericolati assi degli sport spettacolari ed estremi come lo skate, la BMX ed il motocross e, naturalmente, sotto l’egida della decana etichetta di genere Fat Wreck Chords, e con l’impeccabile organizzazione della Hard Staff.
I TIMIDI ESORDI
Il vostro eroico redattore, causa impegni lavorativi (…il suo triste lavoro “normale”…) giunge ai cancelli del Mazdapalace in terrificante ritardo sull’orario previsto per l’inizio dei concerti, ed infatti non fa in tempo ad assistere alla prima performance, quella dei milanesi Minnie’s, unica band nostrana presente a questo festival, che vede infatti nella lineup soprattutto gruppi d’oltreoceano. Ed è un peccato, perché i Minnie’s sono una band tutt’altro che di primo pelo, che vanta un passato di tutto rispetto nell’ambiente punk rock, ma che purtroppo fin’ora in Italia non ha ancora goduto delle meritate luci della ribalta (ma d’altronde in una nazione iln cui il punk è rappresenato, agli occhi del grande pubblico, da band di “finto-adolescenti” starnazzanti quali i Punkreas e gli Shandon, la cosa non stupisce…). Il gruppo che si sta agitando sul palco di un palazzetto misteriosamente buio (ma di solito durante i concerti diurni le luci non si tengono accese? E sì che il costo del biglietto mi pareva sufficiente a permettere un tale “lusso”…) sono (ehm…presumibilmente…) i 1208, tristemente tipica band che produce un punk tristemente tipico: il quartetto californiano non è veramente nulla di nuovo sotto il (pallido) sole, e non stupisce il fatto che la sua collocazione cronologica nel programma del festival li abbia visti calcare il palco alle tre del pomeriggio, con il palazzetto ancora semivuoto e gli animi del pubblico ancora a dir poco freddini (seppur, a quanto vedo e, soprattutto, annuso, birra ed altre sostanze più o meno legali sono già bene in circolo fra i gruppetti di ragazzotti che gironzolano sulle gradinate).
La terza band a prendersi l’ingrato compito di svegliare un po’ un’audience che sembra più interessata ad osservare le evoluzioni degli spericolati skater e motociclisti nella piazzetta antistante il Mazdapalace, che a posizionarsi sotto il palco per ascoltare musica, sono i The Movement: look elegantone in stile “mod” e presenza scenica leggermente migliore dei precedenti 1208 per questo combo, che però presenta il serio difetto di avere o un singer dalla voce veramente fiacca oppure un pessimo tecnico mixer; infatti, se la sezione strumentale risulta tutt’altro che sgradevole, con dei riff di chitarra belli secchi e spesso anche abbastanza discostati dal punk più banale, il cantato lascia veramente a desiderare, e nella mezz’ora abbondante del loro concertino la situazione non migliora.
“EMERGENTI” E NON: LA SITUAZIONE SI SCALDA…
Fortunatamente la deludente situazione che ha fin’ora “offeso” le orecchie del pubblico del Mazdapalace, che nel frattempo inizia a riempirsi, subisce una notevole sterzata di qualità quando sul palco salgono gli Yellowcard. Questa band giovanissima innanzitutto dimostra di possedere uno zoccolo duro di sfegatati fan, che infatti corrono a riempire, inneggianti, la triste voragine vuota che fino ad ora si vedeva sotto lo stage. Il quintetto americano ha un notevole carisma: il singer ha una voce particolare, acuta e melodica; il chitarrista, un instancabile ed esagitato biondino che saltabecca per tutta la performance, è molto bravo e preciso, nonostante non stia fermo un attimo; la batteria, inizialmente un po’ “sparata” a livello di missaggio, ma poi celermente regolata, è molto ben suonata ed a tenuta notevole; ma la vera chicca, che regala all’emo-punk degli Yellowcard quel quid in più è la presenza di un violino elettrico, suonato dalla seconda voce, che dona uno spessore diverso ed innovativo ad un genere altrimenti piuttosto trito e comune. Il fedele pubblico è realmente adorante, canta a squarciagola tutte le canzoni e regala alla band persino la soddisfazione di un “circle-pit” ben eseguito (mentre in Italia generalmente i gruppi stranieri rimangono sempre leggeremte delusi dalla scarsa adesione dei fan a quel genere di pogo, tipicamente americano).
A salire sul palco dopo gli acclamati Yellowcard è la volta dei tedeschi Beatsteaks: decani di discreto successo a livello anche mondiale, il loro punk “demenziale” (il cantante sfoggia persino un look alla Freddie Kruger, con cappellaccio e maglia a righe…) è comunque ben suonato e reso abbastanza originale da chitarre pesantucce, quasi stoner (addirittura tre, ad un certo punto, in quanto anche il cantante ne imbraccia una), e da un carisma notevole di tutta la band, che riesce a mantenere vivo l’interesse dell’audience. Non mancano inoltre di ricordare la gloria del punk con la “P” maiuscola tristemente scomparso quest’anno: i Beatsteaks (e, durante il resto del festival, praticamente quasi tutte le altre band) dedicano un brano a Joe Strummer, compianto leader dei Clash, nonché, praticamente, inventore, o quasi, del punk.
Ingresso pretenzioso, invece, per i MXPX: nientemeno che l’intro della storica “Baba O’Reilly” degli Who, per il giovanile trio che ha da un po’ abbandonato (…per fortuna!…) le origini “christian-punk”, per dedicarsi ad una musica non originalissima ma assai piacevole, e che anche oggi al Deconstuction Tour dimostra di saper suonare bene. La voce “sbavata” del cantante/bassista ha un’ottima tenuta ed intonazione, il batterista fa valere la sua esperienza e comunque la resa spettacolare del pimpante trio è tutt’altro che disprezzabile (durante un brano cantante e chitarrista si scambiano gli strumenti lanciandoseli e riafferrandoli al volo); le nuove canzoni fra l’altro denotano una buona volontà di uscire dagli schemi del punk più classico e banale. Pollice decisamente alzato per questi MXPX.
La sessione “pomeridiana” del Deconstruction Tour viene chiusa dagli Strike Anywhere, che decisamente vincono la palma per il gruppo più “pesante” di tutto il festival. Producono infatti un ottimo punk-core, che spesso sconfina ampiamente nell’hardcore vero e proprio, mentre talvolta mescola assai bene, e con risultati originali e promettenti, i due generi, con buoni cambi di ritmo che danno brio a dei brani rapidi, vari ed efficaci. Il carisma del singer, una specie di scimmietta con i dreadlocks, è indiscutibile, mentre i controcanti del chitarrista, bravo a suonare ma non atrettanto alla voce, sono un po’ deludenti; il batterista è un vero virtuoso, e va senza dubbio tenuto d’occhio. Non manca il solito discorsetto pseudo-politico anti-Bush e Berlusconi, tema (tristemente) portante, insieme alla commemorazione di Joe strummer, di tutto il festival.
Il ruolo di traghettatori fra il pomeriggio degli “emergenti” e la serata dei “big” lo ricoprono gli Slackers: band newyorkese fedelissima allo ska più classico e tradizionale, quello che non si è mescolato al punk per “vendersi” un po’ alla scena più giovane. La loro coerenza e fedeltà la vediamo già dal look: praticamente tutti i membri di questo pittoresco e numeroso gruppo sono vestiti con eleganza retrò impeccabile: giacchette, camicie e cravatte, persino un frac bianco! Sfoggiando una sezione di fiati invidiabile, un contrabbasso al posto del basso ed un simpaticissimo corista nero, semi-obeso ma ballerino impeccabile ed instancabile, gli Slackers furoreggiano sul palco con maestria, e non stupisce vedere la massa compatta di pubblico assiepata sotto il palco trasformarsi in un mare ondeggiante agli scanzonati ritmi ska e reggae prodotti dal combo newyorkese, che non manca di dedicare il brano finale a Joe Strummer, alla pace e a Johnny Cash, storico personaggio rock/country americano anch’egli scomparso l’anno scorso. Ottima performance per gli Slackers, che hanno fra l’altro il merito di aver creato una piacevole diversione sonora che ha permesso alle orecchie del pubblico del Deconstruction di rilassarsi in preparazione della mazzata serale.
ARRIVANO GLI HEADLINER!
A riportare l’atmosfera al punk cipensano i Pulley: il quintetto di californiani del sud (e il loro stile li identifica immediatamente in quel filone “geo-musicale”) appare subito come una band che fa leva sulla simpatia e sul feeling col pubblico: ogni intervallo fra i brani (tutti, ahimé, piuttosto banalotti e nemmeno suonati in maniera eccelsa) è caratterizzato dalle gag del cantante che scherza con il pubblico (“…cosa beveti qui in Eetalya? Amaro Monteneegrow?…”).
Ma il pubblico sta aspettando qualcun’altro: ed ecco l’entrata trionfale degli Anti Flag! Il batterista dà il tempo, e i restanti membri entrano in scena, ultra-acclamati dai fan, numerosissimi. Look in perfetto stile anni ’70, tutti magri e secchini come dei veri punk devono essere, gli Anti Flag dimostarno di avere parecchio da dire, e di saperlo fare ottimamente anche dal vivo: il singer, mobilissimo ed intenso, ha una voce grintosa e rauca, ma nitida e precisa, il chitarrista, pur non suonando certamente degli accordi originalissimi, ci mette vigore ed accuratezza, ed il velocissimo batterista non sbaglia un colpo. Siparietti politici (che comunque sapevamo non sarebbero potuti mancare, trattandosi degli Anti Flag) a parte, il loro act è certamente fra i migliori di tutto il mini festival.
Siamo a serata inoltrata, e finalmente ecco apparire sullo stage uno dei gruppi più attesi: i Lagwagon, fautori di quel genere di punk fra i più demenziali ed allegri, ma comunque di buon livello tecnico. La loro prestazione non smentisce le aspettative del pubblico urlante: battute a raffica da parte del cantante piccoletto e spiritoso, la cui voce è sì gracchiante ed “alla Paperino”, ma anche molto ben modulata, e la cui qualità migliora in crescendo con l’evolversi del concerto. L’affiatamento fra i componenti della band traspare evidente dalla precisione con cui tutti suonano, nonché dalle simpatiche “coreografie” con le quali scherzano fra loro, affettando disinvoltura, ma riuscendo comunque a produrre un suono molto professionale ed accurato. In particolare da segnalare la prestazione eccellente del pittoresco bassista: un gigantone dinoccolato, quasi immobile per tutto il concerto, che spicca vistosamente a contrasto di fianco al saltellante e minuscolo singer.
La folla è ormai in delirio quando sullo stage salgono, finalmente (sono quasi le 23, e, pur essendo rimasto sugli spalti, non fatico ad immaginare quanto possa essere provato un fan rimasto invece praticamente per oltre nove ore in mezzo alla massa accalcata sotto il palco…) fanno la loro apparizione i Pennywise. Il cantante ha, naturalmente, in testa il suo solito ed inseparabile berretto portafortuna, e la sua voce, potente e tonante, non ha perso un colpo, anche dal vivo, nonostante la quindicina d’anni di (urlante) attività. Jim sfoggia un invidiabile conoscenza di parolacce in italiano, miste ad un campionario di “fuck” degno di un perfetto frontman californiano. Il batterista è un vero martello, e tiene per tutta l’ora e un quarto abbondante del concerto un ritmo impeccabile; chitarra e basso tengono, dal canto loro, ottimamente il passo. Il gruppo si prende alcune pause fra un brano e l’altro (anche un po’ lunghette, a dire la verità) ma il repertorio è ricco, e spaziante dai brani storici (“Fuck Authority”, ovviamente dedicata all'”amato” Bush, e “Stories”, un titolo, una garanzia, che chiude degnamente il live act fra cori acclamanti degni di un derby) ai pezzi più nuovi; spiccano inoltre alcune cover, qualcuna prevedibile, qualche altra a sorpresa: “Blitzkrieg Bop”, che strappa al Mazdapalace ormai stracolmo e ribollente urla e poghi saltellanti e furiosi, e nientemeno che “Hey, Ya!” del famosissimo duo hip-hop Outkast, presentata da Jim come “il futuro del punk rock”!
La mezzanotte è ormai passata, e le migliaia di ragazzi che hanno avuto la costanza di resistere a tutta la durata di questo festival allegro e massacrante iniziano a defluire dai portoni del palazzetto; le facce non mostrano la stessa freschezza delle due del pomeriggio, ma il cuore punk del pubblico è senza dubbio più che soddisfatto da un tour di “decostruzione” che di certo ha mantenuto le aspettative e non ha deluso affatto.