IDENTIKIT: In Flames – ‘In Viaggio Tra Le Fiamme’

Pubblicato il 21/10/2004

BIOGRAFIA

Introduzione
In Flames: oggigiorno una delle band più discusse e criticate dell’intero panorama metallico europeo, non a torto bisogna dire, a causa di alcune recenti svolte musicali perlomeno discutibili, ma che in passato ha rappresentato sicuramente (e per certi versi rappresenta tutt’ora) un importante punto di riferimento per schiere di appassionati di heavy metal e formazioni alle prime armi; una band che ha contribuito in maniera decisiva alla nascita, la crescita e lo sviluppo del metal scandinavo, dando origine, assieme ai “cuginetti” Dark Tranquillity, a quel particolare sottogenere che viene definito con l’ormai abusato nome di “death metal melodico”; una band che ha saputo sempre rigenerarsi, nonostante le croniche instabilità di line-up dei primi tempi, plasmando dischi dal successo (commerciale) crescente e lasciandosi dietro un’orda di proseliti e seguaci che spudoratamente cercano di copiarne le gesta. Sebbene ora siano stati chiaramente abbacinati dalle Sirene d’Oltreoceano e siano diretti verso veniali Orizzonti di Gloria, riteniamo giusto dare la meritata importanza ad una formazione decisamente “fuoriclasse”, senza la quale di certo la Svezia non avrebbe raggiunto e quasi superato la Germania, nel ruolo di nazione-regina del metallo europeo…

Gli anni sotterranei
Gli In Flames nascono ben quattordici anni fa, nel 1990, quando Jesper Stromblad, allora nei seminali Ceremonial Oath, nei quali fra l’altro militarono anche Anders Fridèn, Oscar Dronjak (ora chitarrista degli Hammerfall) e Anders Iwers (poi bassista dei Tiamat, nonché fratello di Peter), decide di formare una nuova entità sonora, con precise ed innovative caratteristiche. Jesper, quindi, abbandona i Ceremonial Oath e, assieme ai giovanissimi Glenn Ljungstrom e Johan Larsson, fonda gli In Flames, andando a creare quello che sarà il nucleo portante della band nella prima parte della propria carriera: Stromblad alla batteria e alla chitarra, Larsson al basso e Ljungstrom all’altra chitarra. Il terzetto registra in quattro e quattr’otto un demo, spedendolo poi alla lungimirante Wrong Again Records: in men che non si dica, gli In Flames si trovano con un contratto firmato e con un disco pronto! E parliamo, ovviamente, dello storico “Lunar Strain”, platter in grado di unire alla perfezione la furia del death-black scandinavo primordiale al folk caratteristico di quelle regioni. Pregio assoluto di tale album è quello di avere, in veste di vocalist, l’allora chitarrista dei Dark Tranquillity, un ragazzino rispondente al nome di Mikael Stanne. “Lunar Strain” ha buon successo, ma i problemi relativi alla line-up sono solo all’inizio: per il successivo, transitorio mini-CD, l’oscuro “Subterranean”, i tre In Flames si avvalgono della collaborazione di alcuni special guest: essendo Stromblad deciso a dedicarsi esclusivamente alla chitarra, dietro le pelli sentiamo all’opera Anders Jivarp (Dark Tranquillity) e Daniel Erlandsson (ora negli Arch Enemy e fratello di Adrian, storico drummer degli At The Gates), mentre alle vocals si esibisce Henrik “Henke” Forss (ora cantante degli ottimi death-black metaller Dawn), quest’ultimo autore di una prestazione che ai palati fini farà storcere il naso, ma in possesso di uno screaming-style marcissimo e corroso. Il notevole folk-appeal di “Subterranean” desta le attenzioni della Nuclear Blast Records, rampante etichetta tedesca, la quale pone rapidamente sotto la propria egida gli In Flames, assicurandosi così, in un futuro ancora lontano, laute entrate commerciali. A questo punto, però, Jesper, Johan e Glenn devono per forza trovare elementi fissi, al fine di completare la line-up, registrare il nuovo album e partire per un probabile tour…

La maschera del jolly
“Eternal grinning jester masque”: l’eterno sogghigno della maschera del jolly. Questa è la frase che gli In Flames stampano sul booklet di “The Jester Race” (e che poi riprenderanno anche in un testo di “Colony”), facente riferimento alla creazione di quello che sarà il loro “Eddie degli Iron Maiden”, ovvero la faccina maligna e sorridente del joker, la quale accompagnerà la band praticamente in tutte le uscite ufficiali, a partire dal 1996. Ed è proprio questo l’anno che vede l’uscita del disco ancor oggi considerato il più riuscito, forse, del combo di Goteborg, “The Jester Race” appunto. Colmate le lacune nella line-up, tramite l’inserimento di Anders Fridèn (dopo aver provato per un breve periodo anche Jocke Gothberg, ex singer dei Marduk e sentito anche nei Dimension Zero), passato nel frattempo dai Ceremonial Oath ai Dark Tranquillity, alla voce e di Bjorn Gelotte, pur egli nascendo chitarrista, alla batteria, la band è bravissima ad innestare le originali peculiarità folk ad un solido e parossistico death metal, già ben innervato però da concessioni alla melodia che rendono il tutto molto più accattivante, mantenendo comunque una durezza di fondo notevole. “The Jester Race” può venir tranquillamente considerato come uno dei primi veri esempi di melodic death metal e spalanca le porte del successo europeo al quintetto, da questo momento permanentemente in tour. Dopo un secondo mini-CD riempitivo, caratterizzato da un bellissimo picture-disc a forma di “jester” ed intitolato “Black-Ash Inheritance”, è la volta della release del terzo full-length album, l’acclamato “Whoracle”, nel quale le influenze ottantiane della band (Iron Maiden in primis) cominciano a venire maggiormente a galla, facendo coniare alla stampa specializzata il termine “power-death” per definire le bordate rocciose, ma pregne di melodia, caratterizzanti il sound proposto. “Whoracle” consegna alla Storia una band in ascesa verticale; ascesa che rischia però di bloccarsi repentinamente sul più bello, proprio quando, appena terminate le registrazioni, Glenn e Johan decidono di saltar giù dal carrozzone: a Jesper, Anders e Bjorn non resta che accettare le decisioni prese, rimboccarsi le maniche e cercare nuove braccia per affrontare gli imminenti tour; all’uopo, vengono reclutati due amici, il bassista Peter Iwers ed il chitarrista Niklas Engelin. Seguono un tour europeo ed il primo tour giapponese: al rientro da quest’ultimo, mentre Peter diventa membro ufficiale degli In Flames, Niklas getta la spugna, intenzionato a concentrarsi sulla sua band-madre, i Gardenian. E qui, finalmente, l’assetto della formazione riceve l’ultima, e per ora definitiva, rimescolata: Bjorn Gelotte passa al suo strumento preferito, la chitarra, e l’allora drummer dei Sacrilege, Daniel Svensson, va a sedersi dietro il drumkit. Con la nuovissima line-up, il combo svedese è davvero pronto a “colonizzare” il mondo…

Colonizzazione
“Colony” esce nella primavera del 1999 ed è il definitivo salto di qualità compiuto dagli In Flames: non troppo differente da “Whoracle”, anche nella struttura della tracklist, il nuovo platter beneficia di una produzione stellare e potentissima (come al solito, made in Fredman Studios) e mostra leggere variazioni nel songwriting, a volte aperto ad influenze più groovy, a volte più riflessivo. In breve, esso diventa la release più redditizia del gruppo e consente ai cinque di imbarcarsi in un tour mondiale di grande successo, comprendente anche gli Stati Uniti. A breve distanza di tempo, solamente dodici mesi, ecco uscire il successivo “Clayman”, album nel complesso non riuscitissimo, forse composto in fretta, e tendente troppo al metal classico, peculiarità che però consente agli In Flames di allargare molto la base di fan. Durante i tour di supporto a “Clayman”, c’è da registrare il momentaneo abbandono di Peter Iwers, rimasto in Svezia per stare accanto al figlio appena nato, e sostituito da Dick Lowgren degli Armageddon. Il 2001 vede il rientro in formazione del bassista ed un’altra serie di show da effettuare. Per ringraziare i fan di tutto il mondo, ma soprattutto quelli giapponesi, Paese nel quale gli scandinavi sono delle vere rockstar, Jesper e compagni mettono sul mercato l’appena sufficiente live-album “The Tokyo Showdown”, concludendo così la parte di carriera in cui probabilmente la band riesce ad ottenere i responsi più positivi e, soprattutto, unanimi. Fatto che, però, più non accadrà  in futuro…

Deviazione di percorso
Due anni fa, infatti, la svolta: “Reroute To Remain” segna una decisa ed evidente sterzata verso sonorità americane, ricche di groove e contaminate da un briciolo di nu-metal, il quale basta a far storcere il naso a tutti gli ammiratori del gruppo detrattori di questo genere e, in particolar modo, ai die-hard fan. Le sperimentazioni vocali di Fridèn, iniziate in sordina su “Whoracle”, diventano ormai onnipresenti e il riffing, in certe occasioni, ricorda tremendamente quello degli Slipknot, senza parlare poi della produzione molto ribassata e cupa. La band rimane ancora legata alle origini death, ma è certo che il cambio di attitudine è stato ben evidente. Supportando e venendo supportata sempre più spesso da formazioni americane lontane dal metal puro e/o estremo, gli In Flames rientrano dai tour mondiali, pronti a comporre nuovo materiale, raccolto nell’ultimo loro vagito, intitolato “Soundtrack To Your Escape”, ideale prosecuzione del nuovo corso della band, ma per alcuni versi leggermente più piacevole del precedente. Tutto il resto è storia dei giorni nostri…

LUNAR STRAIN

IN FLAMES - Lunar Strain
Narra la leggenda che “Lunar Strain”, debut-album degli In Flames, fu composto nell’arco di sole 24 ore, dopo che Jesper Stromblad, Glenn Ljungstrom e Johan Larsson ricevettero in piena notte la telefonata del boss della Wrong Again Records, il quale disse loro di essere stato folgorato dal demo ricevuto e di essere intenzionato a pubblicare subito l’album. Non ci è dato sapere se ciò risponde esattamente a verità, ma fatto è che l’album in questione contiene poco meno di quaranta minuti di extreme metal freschissimo, aggressivo, piacevole ed esaltante: insomma, un esordio con i fiocchi e assolutamente da avere, se vi considerate veri fan della band. Oltre ai tre componenti ufficiali e al tagliente screaming-growl style di Mikael Stanne, prende parte alle registrazioni, avvenute già all’epoca negli ora osannati Fredman Studios e con l’ora osannato Fredrik Nordstrom in consolle (anche se la produzione risulta a carico della band stessa), anche il secondo chitarrista Carl Naslund, breve meteora nell’incessante viavai di musicisti che attorniavano il combo scandinavo nei primi anni di vita. Il platter è aperto dal vorticoso riffing della memorabile “Behind Space” (sì, proprio la song che poi verrà ripresa in “Colony”), la quale mette subito in mostra il notevole appeal folkish del disco, le doti canore devastanti di Stanne e un finale acustico dolcissimo, colpevolmente (o no?) omesso nella riedizione del 1999. A ridosso segue la title-track, brano discreto ma non eccezionale, nel quale si segnala la presenza alle backing vocals di Oscar Dronjak (poi divenuto famoso negli Hammerfall); la seguente “Starforsaken”, una delle preferite di chi scrive, viene introdotta da un grazioso incipit di violino, suonato da tale Ylva Wahlstedt, e si dipana attraverso riff vicini al thrash e ottime linee vocali. Potente ed incessante è la strumentale “Dreamscape”, perfetto esempio di come i primi In Flames sapessero costruire partiture di chitarra intricate ma dannatamente affascinanti. Divisa in due distinte parti, ecco sopraggiungere “Everlost”, alla cui prima sezione death-doom succede una sognante seconda metà di brano, composta da chitarre acustiche e interpretata dalle female vocals di Jennica Johansson, per un pezzo che rammenta abbastanza alcune soluzioni care anche ai primi Dark Tranquillity. L’imprevedibilità dell’album non si smentisce neanche con la settima traccia, “Hårgalåten”, riedizione metallica di un brano tradizionale svedese, nella quale sono ancora protagonisti violini e viole. “In Flames” riporta “Lunar Strain” su binari più consoni e contiene l’ennesima ospitata “celebre”, ovvero le lead guitars di Anders Iwers, cesellanti le ritmiche di un pezzo fra i più riusciti del disco, dotato di un break acustico davvero intenso. La rapida e nervosa “Upon An Oaken Throne” e la più cadenzata “Clad In Shadows”, quasi mai mancante dai loro live-show, almeno fino a qualche tempo fa, fanno scendere il sipario su un platter che non necessita di altre descrizioni. Non una brutta canzone, non un filler… un piccolo, grande monumento metallico.

SUBTERRANEAN

IN FLAMES - Subterranean
Una delle maggiori chicche che la discografia degli In Flames ci offre è, senza ombra di dubbio, il mini-CD “Subterranean”, partorito nel 1995, sempre per i tipi della Wrong Again Records, ed ora pressoché introvabile (se non attraverso riedizioni). L’album contiene cinque tracce indimenticabili di proto-melodic death, registrate senza troppa cura ed attenzione, seppur tecnicamente perfette, ed aventi una produzione appena accettabile, anche se deliziosamente underground. Stanne non è più della partita, impegnato ormai in pianta stabile nei Dark Tranquillity, e viene sostituito dal session vocalist “Henke” Forss, autore anche delle lyrics. La cover è, a giudizio di chi scrive, bellissima, raffigurante una bambina imprigionata da fiamme che scaturiscono da un non ben delineato luogo (ma potrebbe essere anche il camino di casa…), e crea un cupo ed oscuro feeling che va a permeare anche le composizioni contenute nel dischetto. Dischetto che viene inaugurato da una melodia spaziale alle keyboards, precedente l’esplosione melodica dell’opener “Stand Ablaze”, puro coacervo di melodia e furore nord-europeo; la voce di Forss è acidissima e sembra provenire da putride e remote grotte, mentre i riusciti riff di Stromblad e Ljungstrom si inseguono a ripetizione; in questo brano, alla batteria troviamo Daniel Erlandsson (presente anche nella photosession del booklet), così come nel seguente “Ever Dying”, simile al primo nell’incedere, ma caratterizzato da un buon break acustico nel bel mezzo del suo evolversi, poi ripetuto nel finale, e da una straziante interpretazione di Forss. Inframezzate dal breve affresco strumentale “Timeless”, la title-track e “Biosphere” vedono all’opera al drumkit Anders Jivarp, per un’accoppiata di canzoni che confermano in pieno quanto di buono stiano costruendo gli In Flames: song equamente divise fra spunti melodici che richiamano il folk epico e digressioni più estreme, tanto care ai prime-mover della scena scandinava; semplicemente stupendo il lavoro chitarristico di “Biosphere”, al cui interno troviamo uno dei riff più belli mai scritti da Jesper & Co.. Grazie a questa uscita discografica, la band otterrà un nuovo contratto, nientepopodimenoche con l’emergente Nuclear Blast, ed un tale di nome Bjorn Gelotte viene già indicato come nuovo drummer del combo… che incomincia a pensare davvero in grande. 

THE JESTER RACE

IN FLAMES - The Jester Race
“The Jester Race”, primo disco pubblicato dagli In Flames per la Nuclear Blast, sotto licenza della Wrong Again però, è l’album che fa uscire allo scoperto la bravura della band e la fa conoscere anche al di fuori degli ambienti underground. Fin dalla magnifica copertina, realizzata da Andreas Marschall, artista tedesco che all’epoca era molto richiesto dalle più disparate metalband, e ritraente l’avanzata dell’imponente carro armato/base strategica della Jester Race, si comprende bene come la formazione svedese abbia concepito un “signor disco”, degno di entrare nel gotha degli album death di ogni tempo. Alla voce è stato arruolato nel gruppo Anders Fridèn, un singer non superlativo ma certamente adatto per il sound abrasivo e tagliente udibile nel platter in questione. Avendo scarsa proprietà della lingua inglese, Anders si fa aiutare, nella traduzione dei testi dallo svedese all’inglese, dal chitarrista dei Dark Tranquillity Niklas Sundin (esisteva un continuo scambio di favori fra i componenti delle due formazioni principe del melodic death, soprattutto negli anni della loro affermazione), assieme al quale inizia a creare una sorta di concept grafico/lirico che andrà ad abbracciare anche le due successive opere del combo; concept davvero ben scritto, anche se molto difficile da interpretare, vuoi per le abbondanti allegorie utilizzate, vuoi per la fantastica ambientazione in cui si muovono i vacui personaggi della storia, protagonista della quale, comunque, è a tutti gli effetti l’Uomo. Il bellissimo prologo acustico di “Moonshield” è perfetto per introdurre l’ascoltatore al cospetto di un sound magniloquente, epico ed esaltante, pregno di sensazioni nostalgiche ed incredibilmente arrangiato: l’opener, pur soffrendo di un mixaggio non ottimale, diventa presto uno dei brani più importanti degli In Flames. Non si fa in tempo a riprendersi dalla valanga di note ascoltata ed ecco partire la breve strumentale “The Jester’s Dance”, piccolo gioiello di melodia e potenza, subito bissata dalla speed-death song “Artifacts Of The Black Rain”, per la quale la band gira anche un semplice video, caratterizzata dal primo di una lunga serie di riff portanti ultra-melodici che diventeranno il trade-mark assoluto del quintetto. “Graveland” (la preferita del sottoscritto) riprende il furioso discorso aperto con “Lunar Strain”, rivelandosi una bordata malefica di grande impatto, durante la quale Fridèn sfodera una delle sue migliori prestazioni di sempre (spettacolare l’urlo disumano seguente i versi “burn the visionnaire/kill ideologies/mankind must die”). Subito dopo tocca a “Lord Hypnos”, brano di secondo piano ma che mostra la grande versatilità compositiva dei nostri scandinavi; con “Dead Eternity” si giunge ad un altro momento topico del disco, grazie alle penetranti melodie della song ed al bel testo (scritto, per la precisione, da Jocke Gothberg), ripercorrente una singola, comune esistenza nel giro di cinque minuti; la canzone vede la breve apparizione (ancora!) di Oscar Dronjak alle backing vocals e cede il passo al perentorio incedere della title-track, probabilmente il pezzo più rappresentativo del platter, nonché quello più legato a solide radici classic metal, impreziosito da assoli di pregevole fattura. Si riprecipita a folli velocità con l’ottava “December Flower”, mazzata black-death che spazza via ogni velleità di resistenza e che contiene un accattivante solo di Fredrik Johansson, all’epoca nei (secondo voi chi? Ma certo…) Dark Tranquillity. Per far scemare l’adrenalina accumulatasi nel corpo dell’ascoltatore, e che rischierebbe di farlo collassare, gli In Flames piazzano a questo punto un gran bel pezzo strumentale, la lunga e complessa “Wayfaerer”, condita da molteplici soluzioni, fra le quali sognanti passaggi di tastiera suonati dall’ospite Kaspar Dahlqvist (Treasure Land, Dionysus). Chiude i giochi l’assalto feroce di “Dead God In Me”, stilettata finale che termina un disco pienamente soddisfacente ed appagante e che aprirà nuove strade alla nascente stella del firmamento metal…

WHORACLE

IN FLAMES - Whoracle
“Spesso sogno cupe e giganti costruzioni, nero lucente e dall’architettura sinistra, installate quando nessuno ancora vedeva. La loro apparizione fu così improvvisa, che solo pochi se ne accorsero. E quando mi sveglio, immagino di esser stato schiacciato da una di esse; immagino il suo peso, il suo silenzio; e l’assenza di scuse per una vita distrutta; e il privilegio di avere una lapide di 22 chilometri”. Con questi deliranti versi, piccolo esempio della magia lirica che pervade tutto il disco, prende il via “Jotun”, l’opening-track di “Whoracle”, l’album con il quale gli In Flames raggiungono la maturità e grazie al quale definiscono ancor meglio le peculiarità del loro sound. Ottimamente presentato da una copertina a dir poco favolosa, dipinta ancora da Andreas Marschall ed in piena ambientazione apocalittica, il terzo full-length del gruppo di Goteborg vede perdere buona parte della rabbia primordiale presente in “The Jester Race”, per assumere sembianze leggermente più pacifiche, dovute al rispolvero di influenze provenienti direttamente dai mostri sacri del metallo ottantiano. Quel che ne scaturisce è uno stile molto originale e caratteristico, sorretto finalmente da una produzione realmente potente ed aggressiva, di certo la migliore fin qui beneficiata dal quintetto svedese. Quintetto che ha da poco pubblicato il mini-CD “Black-Ash Inheritance”, release transitoria e da collezionisti, dotata di un divertente disco sagomato e contenente l’ottima “Goliaths Disarm Their Davids”. La band registra il secondo disco consecutivo con la stessa line-up e il terzetto di compositori formato da Stromblad, Gelotte e Ljungstrom, in questa sede, dà il meglio di sé. L’iniziale, già citata “Jotun” è un altro degli hit storici del gruppo, avvolgente l’ascoltatore in spire melodiche dal riuscito appeal ed avente un chorus strappa-applausi. L’attacco frontale di “Food For The Gods”, ed il massiccio break di centro-canzone, rappresentano i primi salti indietro nel tempo udibili nel platter, in una song che mette in mostra alcuni timidi esperimenti vocali che Fridèn utilizzerà poi in abbondanza nel futuro. Dolce e quasi onirica è la cadenza melodica di “Gyroscope”, traccia che sarà immancabile dal vivo e dal testo molto strano ed affascinante (come non ricordare il mitico verso “white insectoid legs”?). Ancora la melodia è a farla da padrona nell’eccellente strumentale “Dialogue With The Stars”, seguita dalla meno riuscita “The Hive”, brano da puro headbanging ma un tantino ordinario. Le radici folk non sono state certo dimenticate dagli In Flames e “Jester Script Transfigured” arriva a dimostrarlo, palpitante nelle sue violente esplosioni e commovente nei passaggi acustici, durante i quali la tipica timbrica robotica di Fridèn fa capolino per una delle sue prime volte. “Morphing Into Primal”, come sottolinea già lo stesso titolo, è un furente ritorno al “primitivo”, nella song più veloce e cattiva del lavoro in questione, precedente la complicata ed epica “Worlds Within The Margin”, filosofica disquisizione sulla relatività delle cose e degli eventi, un brano semplicemente magnifico, nel quale tappeti di tastiere fanno da sfondo al corposo growl di Anders e alle intersecanti trame chitarristiche. Altra traccia di successo è “Episode 666”, forse quella dal maggior impatto live ed una delle più apprezzate dai fan. Leggermente fuori luogo, ma neanche poi tanto, ecco sopraggiungere la cover di “Everything Counts” dei Depeche Mode, ri-eseguita molto bene del resto. Ed infine, a chiudere più che degnamente questo capolavoro, l’intensa e nostalgica title-track, strumentale acustico-percussiva sorretta dal cantato sognante di Ulrika Netterdahl: bellissima! Che altro dire? Must assoluto del death metal anni ’90, poche storie…

COLONY

IN FLAMES - Colony
A differenza dei loro compagni d’avventura Dark Tranquillity, i quali nel 1999 fanno uscire sul mercato il discusso e sperimentale “Projector”, gli In Flames decidono di percorrere strade sicure, soprattutto dopo aver perso due dei tre membri fondatori della band (Ljungstrom e Larsson), pubblicando un disco che in pratica ricalca le coordinate musicali di “Whoracle”, pur presentando qualche novità/cambiamento. I nuovi arrivati, Peter Iwers e Daniel Svensson, compongono la sfavillante sezione ritmica, ben messa in evidenza dalla mostruosa produzione scaturita dai Fredman Studios, ormai assurti a status di “tempietto sacro” per il Goteborg-sound. La cover, manco a dirlo, è ancora stupenda, rappresentante un mondo ormai colonizzato dalla Jester Race e imperniata sul solito fondale magicamente dipinto (stavolta di rosso e sue sfumature), tipico dell’arte di Marschall. L’apertura è affidata alla trascinante “Embody The Invisible”, vera e propria rilettura di “Jotun” (non che ciò sia un difetto, anzi!); nella successiva song, “Ordinary Story”, la band varia leggermente attitudine, componendo un brano relativamente tranquillo e dal netto appeal “commerciale”, avente una strofa pulitissima, un riffing molto orecchiabile e deliziosi arrangiamenti alle tastiere (suonate dal produttore Fredrik Nordstrom o, talvolta, da Jesper stesso): con il senno di poi, si può tranquillamente dire che tale pezzo è la prima avvisaglia dei cambiamenti che avverranno nel songwriting della band di lì a breve. Piccole sperimentazioni si odono anche nell’ottima “Scorn”, dotata di campionamenti accennati e di una strofa quasi “rappata”, la quale non inficia assolutamente la cattiveria della traccia. Piacevoli gli arrangiamenti di organo Hammond della title-track, inno epico e cadenzato, devastante dal vivo e atta a mettere in mostra un Fridèn in grandissima forma, cangiante nelle sue varianti vocali. Segue “Zombie Inc.”, cavalcata melodica piuttosto anonima, se non fosse per i due intermezzi acustici posti nel mezzo della track. Deludente, invece, la strumentale di turno (l’ultima composta, ad oggi), “Pallar Anders Visa”, per niente all’altezza delle instrumental track presenti nei due dischi precedenti “Colony”. “Coerced Coexistence” si attesta su buoni livelli, classico power-death à la In Flames, impreziosito da un solo di Kee Marcello degli Europe (!!). Sempre parafrasando “Whoracle”, la band compone una sorta di neo-“Gyroscope” e la intitola “Resin”: l’imponente incedere melodico e linee vocali ringhianti e rabbiose la incoronano uno dei brani migliori del disco. E’ la volta poi della riproposizione della primitiva “Behind Space”, riarrangiata e prodotta a dovere: l’impatto della song è tremendamente efficace e il timbro di Fridèn non fa rimpiangere quello di Stanne, seppur un pizzico di nostalgia per la prima versione lo si senta. Fanno calare il sipario sull’album, “Insipid 2000”, brano sotto la media e non particolarmente esaltante, e la botta adrenalinica di “The New Word”, nella quale fa la sua comparsa un bel riffing triggerato che poi sentiremo spesso in futuro. Platter avvincente e che conferma i cinque svedesi alla guida di un movimento in rapida ascesa, dal quale, però, proprio i nostri In Flames sceglieranno di prendere sempre più le distanze… a partire dal lavoro successivo, “Clayman”…

CLAYMAN

IN FLAMES - Clayman
Il death metal furioso ed incalzante, così come le connotazioni folk del sound dei primi anni, incominciano lentamente a dileguarsi dall’impronta che gli In Flames vogliono dare alla propria musica, e “Clayman” è pieno protagonista di questa mutazione in atto. Le composizioni del quinto full-length del combo svedese, nonostante siano ancora ascrivibili senza dubbio al death metal, sono per la maggior parte grandi sequenze di riff debitori degli Eighties (rivisti in chiave moderna, ovvio), alternati a partiture acustiche, queste ultime però non più di deriva folk, e/o a passaggi più moderni. Peggiorata clamorosamente la resa visiva del prodotto, tramite un artwork scadente (giusto un giochino per bambini l’effetto ottico della cover), la qualità di registrazione di “Clayman” è di elevatissimo standard, fin troppo pulita e limpida, mentre abbondano sia gli effetti vocali utilizzati da Fridèn, sia il programming di Charlie Storm. Inoltre, l’album in questione vede finalmente il vocalist occuparsi in solitario delle lyrics, queste ultime cupe, disperate e pregne di tristezza come mai erano state in passato. Due opposte composizioni si segnalano fin dal primo ascolto come particolarmente riuscite e piacevoli: “Pinball Map” si dipana in maniera veloce e nevrotica, fino alla solita esplosione melodica all’altezza del chorus (per inciso, uno dei migliori in assoluto proposti dagli In Flames), seguita da un potentissimo breaking riff e da un bell’assolo; la seconda song è “Only For The Weak”, vero e proprio saltellante hit da stadio, al cui ritmo si è costretti a battere il piede, oltre che a sognare lontano durante il solo epicissimo. Il platter, poi, presenta un terzo cavallo da battaglia, ovvero la title-track, altro brano sempre eseguito dal vivo e che Fridèn interpreta estremizzando il suo nuovo, acido screaming. “Square Nothing” e “Satellites And Astronauts” sono molto simili e, a parti pacate, ricche d’arrangiamenti, fanno seguire bordate melodiche notevoli, ideale evoluzione di quelle che erano state “Ordinary Story” e “Zombie Inc.”, presenti su “Colony”. Al cospetto di tali brani, l’opener “Bullet Ride” passa un attimo in secondo piano, pur essendo meritoria di plauso e discreta summa del contenuto dell’intero lavoro, con un Peter Iwers a suo agio nel far pulsare rumorosamente il basso. Mentre “…As The Future Repeats Today” si fa apprezzare per le ritmiche coinvolgenti e per gli arrangiamenti ancora azzeccati, l’accoppiata “Brush The Dust Away”/”Swim” si segnala per l’ottimo lavoro di Svensson alle pelli e per le vittoriose melodie, in particolare il roboante rifframa della seconda. Christopher Amott degli Arch Enemy è l’ospite di lusso di questa tornata e suo è il lavoro solista alla chitarra in “Suburban Me”, canzone che precede la conclusiva “Another Day In Quicksand”, caratterizzata da una sorta di ritorno ad un death più abrasivo e tecnico. Nonostante i pezzi non siano affatto malvagi e si tratti comunque di un disco più che decente, chi scrive assegna a “Clayman” la palma di “peggior disco degli In Flames”, sebbene esso rappresenti l’ultimo, decisivo tassello, atto a suggellare la lenta scalata della band al successo di scala mondiale. Successo che porterà gli scandinavi a scelte decisamente criticabili…

THE TOKYO SHOWDOWN

IN FLAMES - The Tokyo Showdown
Anche per gli In Flames viene il turno di pubblicare un live-album: dopo cinque full-length, una popolarità crescente ed un tour mondiale di successo appena concluso, il momento sembra davvero propizio. Come parecchie metal e rockband hanno fatto in passato, anche il quintetto svedese sceglie di tributare i più grossi ringraziamenti al pubblico giapponese, proponendo, per il suo primo disco dal vivo, canzoni tratte dalle tre date nipponiche (Osaka, Nagoya e Tokyo) tenute nel novembre del 2000. Si sa, i fan asiatici vanno realmente pazzi per questo tipo di sonorità, e basti considerare le regali accoglienze con cui le band di maggior richiamo vengono onorate in quel Paese. La setlist è sufficientemente buona, anche se, ma questo è un vizio della band, alcuni fra i pezzi più datati vengono bellamente trascurati. La parte del leone la fanno le ultime release, in particolare “Clayman”, con cinque brani, e “Colony”, altrettanti cinque, considerando anche “Behind Space”, originariamente presente sul debut del gruppo. A ridosso il magistrale “Whoracle”, con quattro tracce, ed infine il penalizzato “The Jester Race”, rappresentato dalla sola “Moonshield”, un vero peccato! La resa sonora è discreta, anche se Anders Fridèn non sembra in grandissima forma e la potenza che gli In Flames emanano negli studio-album è una pallida rimembranza. Le chitarre sono mantenute ben divise (una per cuffia) ed è interessante scoprire, in alcuni passaggi, le piccole improvvisazioni di Gelotte e Stromblad (vedi proprio “Moonshield”, eseguita con qualche novità), mentre onnipresente è il battito della cassa di Svensson, spesso distraente l’attenzione dal resto delle evoluzioni sonore. La partecipazione del pubblico giapponese è messa in risalto soltanto a sprazzi, ovviamente negli spazi fra una canzone e l’altra, durante i quali Anders si diletta (non sempre) ad annunciare la song successiva, oppure in situazioni particolari, ad esempio quando, nel bel mezzo di “Scorn”, la band provoca l’esaltazione collettiva accennando “Raining Blood” degli Slayer. Inspiegabile, e parecchio irritante, la scelta di far iniziare il platter direttamente con l’opener “Bullet Ride”, senza neanche creare un minimo d’atmosfera, inserendo l’intro oppure qualche grido del pubblico… mah, trovate che lasciano a dir poco di stucco! Fra i brani di maggior appeal, si segnalano la graffiante “Food For The Gods” e le trascinanti “Only For The Weak” e “Colony”. Tutto sommato, un disco che avrebbe potuto essere realizzato con più cura ed attenzione, in modo da lasciare un tangibile ricordo di quelli che possono venir chiamati “i vecchi In Flames”. Concepito così, è un semplice resoconto di un concerto, non certo un tributo a quasi dieci anni di carriera sui palchi…

REROUTE TO REMAIN

IN FLAMES - Reroute To Remain
La pietra dello scandalo. Il Grande Tradimento. La svolta. “Reroute To Remain”, sesto studio-album degli In Flames, segna un deciso cambiamento nelle coordinate musicali della proposta dei cinque pard di Goteborg. Apertamente influenzati ed affascinati dalle sonorità moderne e contaminate dei gruppi d’Oltreoceano che, proprio nei primissimi anni di inizio millennio, cavalcavano l’onda del successo, dovuto anche ad un grande tam-tam radiofonico e televisivo, i nostri svedesi partoriscono un disco “diverso” dal solito e si staccano, anche e soprattutto a livello attitudinale, dalla scena death metal europea. Basta Fredman Studios, basta Fredrik Nordstrom, look da nu-metaller con capello lungo: i nuovi punti saldi per la registrazione e la produzione del nuovo platter diventano i Dug-Out Studios di Uppsala e l’ottimo Daniel Bergstrand (passato alla storia, fra l’altro, per aver contribuito alla creazione dello storico “Destroy Erase Improve” dei Meshuggah), tramite i quali scaturisce un suono deciso, secco e piuttosto cupo. L’aspetto grafico ritorna efficace, affidato all’estro nascente e visionario di Niklas Sundin, autore di un artwork introspettivo e particolare. Il disco, ancora una volta, non si può definire completamente estraneo al death metal, anzi, le caratteristiche di base della musica degli In Flames rimangono le stesse, ovvero potenza e melodia, qui però connesse ed elaborate in modo nuovo e di certo meno ortodosso. Prendono piede in maniera sempre maggiore sia le variazioni vocali di Fridèn, sia i campionamenti e i loop elettronici, questa volta opera di Orjan Ornkloo, il quale coglie bene (questo bisogna ammetterlo) le esigenze della band, mettendo al servizio di essa una serie di idee azzeccate (sentire a proposito “Cloud Connected” e “Free Fall”, ruffiane quanto volete ma bellissime!); la melodia, come accennato sopra, è presente in modo perentorio, sebbene non provenga più dai riff di chitarra, bensì strabordi nei chorus estremamente orecchiabili, forse l’aspetto che più fa storcere il naso ai vecchi fan della band, scontenti anche dell’abbondanza di parti chitarristiche stoppate e/o triggerate (“Transparent” è molto vicina al nu-metal più aggressivo). Inoltre, il quintetto scandinavo decide di inserire nel disco ben quattordici brani, davvero troppi, che finiscono con il creare per forza un paio di filler tranquillamente dimenticabili: non è il caso, però, delle due ballate acustiche presenti in “Reroute To Remain”, “Dawn Of A New Day” e “Metaphor”, poste in tracklist quasi a dimostrare come il passato folkish della band non sia stato dimenticato; chi scrive ama i due pezzi citati, carichi di feeling nostalgico e crepuscolare, sebbene abbiano ben poco di folk. Ottima anche la song scelta come secondo singolo, “Trigger”, dotata di un ritornello clamorosamente commerciale, ma altrettanto esaltante. Non mancano alcune veloci cavalcate power-death tipiche degli standard In Flames, anch’esse però mutate e infettate dal “trigger-virus”, e ci riferiamo a “Drifter” e “Egonomic”, mentre le restanti track si evolvono fra alti e bassi ispirativi, comunque sempre impostate su una ricerca melodica e vocale molto attenta e, in fin dei conti, apprezzabile. Criticato oltremodo negativamente, spesso con i paraocchi, “Reroute To Remain” rappresenta il tentativo, riuscito per tre quarti, operato da Anders e compagni di rigenerarsi e aprirsi nuove strade musicali e – ovviamente – commerciali. Che da questo momento in poi l’immagine degli In Flames, agli occhi del metallaro medio, si presenti con un leggera puzzetta sotto il naso, sinceramente crediamo che alla band interessi davvero poco…

SOUNDTRACK TO YOUR ESCAPE

IN FLAMES - Soundtrack To Your Escape
Puntuali come dei metronomi svizzeri e più prolifici di una qualunque mamma-coniglio, tornano a farsi sentire i nostri cari, amati In Flames! I paladini più illustri, gloriosi e di maggior successo di quella crociata chiamata “death metal melodico” sfornano, con questo nuovo “Soundtrack To Your Escape”, dal titolo vagamente pretenzioso, uno dei dischi più attesi del 2004. Dunque, avevamo lasciato la band di Jesper Stromblad ed Anders Fridèn alle prese con le rinnovate sonorità concepite per il precedente “Reroute To Remain”, ovvero un ibrido di metallo moderno, ancorato sì al death metal, ma con lo sguardo proiettato verso correnti musicali decisamente più mainstream. Ebbene, la curiosità per tale nuova release sta tutta nello scoprire verso quali sponde l’act scandinavo abbia orientato la propria bussola, stavolta: chiunque sperasse, anche per un breve, fuggente attimo, un ritorno alle sonorità del magico trittico “The Jester Race”/”Whoracle”/”Colony” rimarrà amaramente deluso; fortuna vuole, d’altro canto, che il gruppo non abbia preso come punto di riferimento neanche “Clayman”, ovvero, per chi scrive, il lavoro più scadente della loro discografia; detto questo, la più banale delle ipotesi è quella che rimane: “Soundtrack To Your Escape” è l’ideale prosecuzione di “Reroute To Remain”…e solo per questo, probabilmente, sentirete e leggerete una caterva di critiche negative piovere sulla testa del quintetto. Be’, pazienza! Di certo, gli In Flames sono cambiati e quelli del passato difficilmente ritorneranno…e allora conviene predisporsi bene, aprire la mente e godersi le canzoni del platter in questione, sì contaminate, ma belle comunque. Una produzione magistrale, superante anche quella del perfetto “Colony” e marchiata Dug-Out Studios/Daniel Bergstrand, fa solo da contorno ad una dozzina di pezzi che si fanno piacere fin dai primi, sommari ascolti. Il songwriting non è cambiato molto, ma qualche differenza la si nota bene: c’è, innanzitutto, la netta predominanza di riff triggerati/stoppati, quasi onnipresenti durante l’evolversi dell’album; i classici spunti melodici “à la In Flames” (avete presente le melodie portanti di “Jotun” o “Embody The Invisible”?) sono qui confinati solo nella penultima “Dial 595 – Escape”, peraltro una delle song migliori, per dare spazio ad una pletora di schitarrate compresse, cupe e sinistre (attenzione, prendere questi termini con le pinze); i chorus, con le solite sovrapposizioni vocali, sono molto orecchiabili e quasi tutti ben riusciti, da segnalare in particolare quelli di “Touch Of Red” e “My Sweet Shadow”; l’esecuzione da parte dei cinque svedesi è impeccabile e Anders è bravissimo a sperimentare innumerevoli soluzioni effettistiche per la sua voce, fra le quali la sua tipica impostazione semi-robotica, ben apprezzabile nella semi-ballad “Evil In A Closet” e nell’ottimo singolo “The Quiet Place”, dotato di melodie iper-penetranti; buoni, per chi è in grado di apprezzarli, gli arrangiamenti elettronici di Orjan Ornkloo, bestemmia per qualcuno, tocco in più per qualcun altro; è da rilevare, infine, l’assenza, forse voluta, di pezzi interamente pacati, quali erano “Dawn Of A New Day” e “Metaphor” del precedente disco. Non tutto, ovviamente, si mostra nella sua versione positiva, in quanto sono facilmente riscontrabili una certa monotonia d’insieme e una marcata carenza d’ispirazione, evidenti soprattutto nella prima parte dell’album, ad esclusione della sorprendente opener “F(r)iend”, un pezzo massiccio, senza chorus melodico, né voce pulita e deliziosamente atipico per i nuovi In Flames, dove i brani si susseguono piuttosto simili…ecco, diciamo che il gruppo non si è di certo spremuto troppo per cercare di realizzare un album memorabile! Se poi siano riusciti a scrivere comunque un bel disco, allora complimenti! In definitiva, la sentenza è quella che tutti si aspetterebbero: se vi è piaciuto “Reroute To Remain”, allora forse “Soundtrack To Your Escape” vi piacerà anche di più; se siete inguaribili nostalgici delle bordate sonore di “Graveland” o delle complicate trame di “Worlds Within The Margin”, allora state alla larga dal nuovo In Flames e andate a scovare da qualche altra parte la “colonna sonora per la vostra voglia di evadere”…

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