Identikit: JUDAS PRIEST – In assoluzione di tutti i vostri peccati

Pubblicato il 20/06/2022

Speciale a cura di Giovanni Mascherpa e Carlo Paleari

Nel 2020 i Judas Priest hanno compiuto cinquant’anni di carriera. È quindi dal 1970 che i Metal Gods per antonomasia sono in attività: un numero impressionante. Perché significa che quella materia vasta, multiforme e sempre più imponderabile nelle sue venature chiamata heavy metal esiste da quel dì, dagli inizi degli anni ’70. Assieme ai Black Sabbath, Rob Halford, Glenn Tipton, KK Downing e Ian Hill sono il quadriumvirato attorno al quale il metal ha preso una sua credibilità, concretezza, è uscito dall’ombra, è arrivato alle masse, ha trascinato dietro di sé prima piccole ondate, quindi degli tsumani, degli oceani di musicisti che nella loro scia sono nati, cresciuti, si sono formati, sono divenuti a loro volta delle star. L’influenza della band è pervasiva e misurabile solo in parte, si estende fin dove non è dato sapere. Nelle numerose svolte della carriera, nei cambiamenti non sempre fortunati, nei ritorni all’ovile, nelle liti e nelle spaccature inevitabili quando si convive assieme così a lungo, i Judas Priest hanno saputo tenere alta la bandiera dell’heavy metal, a ridarle slancio ogni qual volta se ne palesava una crisi. Non stiamo parlando solo di una formazione longeva, che arrivata all’apice ha vissuto di ricordi, si è adagiata, ha mantenuto la barra a dritta cercando la rotta più sicura per celebrare se stessa e accaparrarsi consensi senza troppi sforzi. Usciti dal primo decennio di attività con uno status già di prim’ordine, hanno deviato verso tentazioni commerciali – con la prima bocciatura di “Point Of Entry” – hanno riplasmato il concetto di heavy metal con i suoni sgargianti ed effettati dell’opulento decennio ottantiano, hanno provato a entrare nei reami del rock più commerciale con il controverso “Turbo”, hanno azzannato i Nineties con la ferocia di “Painkiller”. Sono sopravvissuti all’abbandono di Rob Halford, rimettendosi alla guida delle torme metalliche con dischi moderni ed evoluti come “Jugulator” e “Demolition”. E anche una volta ripreso con sé il proprio carismatico singer, nella fase della maturità non hanno mancato di provare, osare, pur con gli acciacchi di questi ultimi anni – il ruolo più defilato di Tipton per problemi di salute, l’abbandono non proprio pacifico di KK Downing. Forse siamo vicini ai titoli di coda, forse no, perché come ben sa quel vecchio volpone dell’icona-totem Metal God, Mr. Rob Halford, il metal non ti abbandona l’anima fino all’ultimo respiro. E allora vale la pena lottare in studio, su di un palco, in sala prove, per dimostrare che il Prete di Giuda avrà i suoi anni, ma sa ancora emozionare. Anche con una coppia di chitarre che nulla c’entra con il passato, anche se la temuta terza età è alle porte. In fondo, chissenefrega: ed è con questo pensiero in testa che vi accogliamo in questo nostro speciale su uno dei gruppi fondamentali della nostra musica, pronto a scatenare la sua forza dirompente all’imminente Rock The Castle.

I Judas Priest con Dave Holland nel 1984

Potrebbe sembrare un caso fortuito che due delle più grandi ed influenti band della storia del metal nascano nella stessa città, ma forse le ragioni sono un po’ più profonde e cariche di significato. Birmingham, negli anni Sessanta e Settanta, è una città industriale, rumorosa, coperta di fumo e particelle di metallo provenienti dalle enormi acciaierie. Ai giovani, soprattutto se di estrazione proletaria, non restano tante possibilità: lavorare in fabbrica, mettere su una famiglia, condurre una vita normale. Le alternative sono poche e non certo alla portata di tutti, però esistono: una di queste è la musica e non stupisce più di tanto come molte band provenienti da quelle zone dell’Inghilterra abbiano provato, più o meno consciamente, a mettere in musica l’atmosfera pesante, oscura e a volte minacciosa delle città. E’ successo per primi ai Black Sabbath, giustamente celebrati come i padri fondatori di quello che sarà chiamato heavy metal, ma c’è un’altra band nata poco dopo che quel genere l’ha canonizzato. Si chiamano Judas Priest e questa che vi raccontiamo è la loro storia.
Secondo la vulgata comune, i Judas Priest nascono sul finire degli anni Sessanta per volontà di due dei membri anziani della band, il chitarrista Kenneth ‘KK’ Downing e ed il bassista Ian Hill. Per comodità anche noi partiremo da qui, per quanto questa definizione sia effettivamente impropria: nel 1969 esiste una band chiamata Judas Priest e nessuno dei volti che impareremo a conoscere così bene è ancora coinvolto in questa esperienza: la band, infatti, è composta dal cantante Al Atkins, il bassista Bruno Stapenhill, Ernie Chataway alla chitarra ed il batterista John Partridge. Quando i Priest si erano messi alla ricerca di un chitarrista, in effetti, erano venuti in contatto con un ragazzo di diciassette anni, perdutamente innamorato di Hendrix, di nome Kenneth Downing, ma la sua audizione non li aveva convinti. Il nome Judas Priest era stato suggerito da Stapenhill ad Al Atkins, all’epoca il leader del gruppo: i quattro volevano un nome d’impatto, un po’ come quello dei Black Sabbath, e l’ispirazione era arrivata da un brano di Bob Dylan, “The Ballad Of Frankie Lee And The Judas Priest”. Questa prima incarnazione della band ha già registrato un paio di canzoni, più che altro come biglietto da visita nella ricerca di un contratto discografico, e per il momento suona un blues elettrico che Atkins vorrebbe rendere più oscuro e pesante, ma senza troppo successo. Le cose si mettono male e la storia dei Judas Priest sembra essere uguale a quella di altre mille formazioni nate e scomparse senza lasciare traccia dietro di sè. Per nostra fortuna, però, Al Atkins non si da per vinto e una sera del 1970 si imbatte in un trio intento a suonare con tutta l’energia che hanno a disposizione: si tratta di Kenneth Downing, quel biondo chitarrista che i Priest avevano scartato, il bassista Ian Hill ed il chitarrista John Ellis. Ad Atkins i tre ragazzi piacciono e vede in loro una possibilità di salvezza: propone di unirsi a loro e, nel farlo, porta in dote il nome della sua vecchia band.
I nuovi Judas Priest si mettono al lavoro e passano quasi due anni a lavorare per migliorare come musicisti e come performer, provando a fare il salto definitivo nel mondo della musica che conta, ma le cose non sembrano muoversi abbastanza velocemente: dietro le pelli si avvicendano diversi musicisti, ma è Al Atkins a dare il colpo di grazia, stanco di dover continuare ad investire i suoi pochi risparmi in un progetto che sembra non avere futuro. I Judas Priest sembrano sul punto di sciogliersi per la seconda volta, e ora tocca a Downing ed Hill prendere in mano la situazione: i due si mettono alla ricerca di un nuovo batterista, che troveranno in John Hinch, e soprattutto di un nuovo cantante. La scelta ricade su Rob Halford, che i due conoscevano perchè Ian Hill usciva con sua sorella: i due l’avevano sentito cantare in casa ed erano rimasti impressionati dalla sua voce, proponendogli di fare un’audizione per la loro band. Il nuovo sodalizio funziona e il futuro della band appare ora meno incerto, anche grazie ad un primo contatto positivo con la Gull Records, una piccola etichetta che si rende conto del potenziale della band. Sono proprio loro a suggerire ai Priest di rafforzare la propria line-up con l’aggiunta di un secondo chitarrista, Glen Tipton. Siamo nel 1974 e finalmente i Judas Priest sono pronti per entrare in studio e dare alle stampe il loro album di debutto.

L’album di debutto dei Judas Priest viene registrato a Londra, nell’arco di tre settimane, con il supporto del produttore Rodger Bain, lo stesso che si era distinto per i lavori con i Black Sabbath. (CONTINUA)

Se è vero che la pubblicazione di “Rocka Rolla” non possa considerarsi un successo di vendita, è anche vero che questo primo passo permette ai Judas Priest di iniziare a farsi conoscere ed in effetti pochi mesi dopo arrivano due offerte importanti. La prima è quella di esibirsi sulla BBC, al programma “The Old Grey Whistle Test”, e la seconda è la possibilità di suonare al prestigioso festival di Reading. Proprio questo concerto rappresenta anche l’ultima esibizione della band con il batterista John Hinch, che verrà sostituito in corsa (e per un solo album) da Alan Moore, una vecchia conoscenza della band (omonimo del famoso scrittore e fumettista). Ai Priest, infatti, non resta molto tempo, perchè è già ora di entrare in studio per la registrazione del nuovo album.

La pubblicazione di “Rocka Rolla” ha aperto delle buone opportunità per i Judas Priest, sebbene l’album non possa considerarsi ancora un successo. (CONTINUA)

Dopo la pubblicazione di “Sad Wings Of Destiny” appare evidente come ai Judas Priest serva un supporto discografico più importante rispetto a quello offerto dalla Gull Records. I rapporti con l’etichetta, infatti, si stanno velocemente deteriorando, soprattutto per questioni di soldi: una band sul trampolino di lancio non può permettersi di dover fare i conti con le bollette e la paga settimanale offerta dalla Gull non riusciva ancora a permettere alla band di vivere solo di musica. I Priest, dunque, vengono avvicinati dalla CBS Records, che offre loro un cospicuo anticipo ed un contratto mondiale degno di questo nome.

L’entrata in scena della CBS, la nuova etichetta discografica, porta ai Judas Priest alcuni immediati vantaggi. Il precedente album, “Sad Wings Of Destiny”, ha fatto vedere il potenziale di questa formazione e ora l’etichetta è intenzionata a far fruttare al meglio il proprio investimento. (CONTINUA)

I Judas Priest sono tra quella manciata di band che hanno scritto e reinventato nel corso degli anni l’Heavy Metal, mantenendo in quasi cinquant’anni di attività un livello qualitativo davvero invidiabile (sono ben pochi i passi falsi), e forse sono gli unici ad essere stati capaci di continuare a dettare le regole pur senza snaturare la propria essenza (CONTINUA)

La pubblicazione degli ultimi due album, “Sin After Sin” e “Stained Class”, ha aperto ai Judas Priest la porta degli Stati Uniti, un passaggio fondamentale in quegli anni per raggiungere veramente il successo globale. La formazione, ormai perfettamente rodata e solida dopo l’inserimento di Les Binks alla batteria, inizia a diventare, mese dopo mese, quella macchina da guerra heavy metal che tutti conosciamo. Anche l’estetica della band si modifica, abbandonando progressivamente il look hippie degli esordi a favore degli abiti di pelle borchiati che saranno da lì in poi lo standard del genere. L’idea era venuta a KK Downing, seguendo la volontà di trovare uno stile visivo che potesse ben adattarsi alla musica da strada e senza compromessi suonata dalla band, e aveva immediatamente raccolto il favore di tutti, Rob Halford in primis, che aggiunge a corredo del tutto anche un set di fruste e manette assortite. Conquistati gli Stati Uniti, tocca al Giappone piegarsi alla Priest-mania, ma alla band non è concesso un attimo di respiro. Come d’abitudine in quegli anni, non è ancora passato un anno dalla pubblicazione di “Stained Class” che per la band è già ora di entrare in studio per dare vita al suo successore.

Sono passati appena cinque anni dal debutto dei Judas Priest, ma l’evoluzione della band, in così poco tempo, ha un qualcosa di incredibile: sembrano lontanissime le radici hippie, le derive progressive e l’estetica smaccatamente anni Settanta. (CONTINUA)

Nel 1979, i Judas Priest danno il via al loro secondo tour in Giappone e, visto l’entusiasmo del pubblico, decidono di registrare queste date per la pubblicazione del loro primo live album. Le serate sono un successo e l’album che ne deriva, il celebratissimo “Unleashed In The East” rappresenta uno di quei rari casi di live album capace addirittura di eclissare i vari corrispettivi in studio delle canzoni. La nostra trattazione in questo articolo non prenderà in considerazione anche i numerosi capitoli della discografia dei Priest registrati dal vivo, ma se ci fosse stato spazio per un’eccezione quella sarebbe stata certamente dedicata ad “Unleashed In The East”, una testimonianza eccellente che non deve essere adombrata dalle polemiche nate a seguito della sua pubblicazione. Rob Halford, infatti, era stato colpito da una laringite in quelle sere e la sua performance era stata meno brillante del solito: piuttosto che abbandonare il progetto, infatti, la band aveva deciso di registrare alcune parti vocali in studio (in presa diretta, come se fosse un live), per sovrainciderle laddove i nastri originali fossero troppo al di sotto delle aspettative. Un’operazione poco apprezzata da una fetta del pubblico, che varrà al disco il nomignolo sarcastico di “Unleashed In The Studio”. Terminate le date giapponesi, la band torna quindi negli Stati Uniti e lo show dei Priest si arricchisce di un’altra trovata, con Rob Halford che diventa definitivamente l’icona metal per eccellenza, salendo sul palco a cavallo della sua Harley Davidson.
Sembra non esserci pace, però, dietro le pelli dei Judas Priest e il 1979 vede anche l’abbandono di Les Binks, accompagnato alla porta con una motivazione piuttosto inusuale: la band, infatti, sostiene di avere bisogno di un musicista meno tecnico e più diretto, una figura più adatta alla direzione voluta dalla band in quel momento. Quanto ci sia di vero dietro a queste dichiarazioni non lo sapremo mai con certezza ma, come sempre accade, sembrerebbero esserci motivazioni molto più prosaiche legate ai diritti e alle royalty delle ultime uscite della band, su tutte quella di “Unleashed In The East”, il primo vero best seller dei Priest. Comunque sia la band si mette alla ricerca di un sostituto, trovandolo questa volta in Dave Holland, batterista già in forze nei Trapeze di Glenn Hughes, che completa la line up in vista del prossimo album in studio.
Ci avviciniamo quindi al 1980 e i Judas Priest si trovano immersi un mondo in cui il metal è diventato ormai una realtà: sulle scene hanno iniziato a fare capolino le future grandi band della N.W.O.B.H.M.: Saxon, Def Leppard, Angel Witch e, sopratutto Iron Maiden, una giovane formazione che sembra avere tutta l’intenzione di occupare al più presto il trono dei Judas Priest. Halford e compagni hanno moltissimi punti in comune con la N.W.O.B.H.M., ma di fatto non vi appartengono e, anzi, sono visti proprio come la vecchia guardia, con uno spirito di competizione che vedremo evolversi da lì a breve. Una cosa è certa: i Judas Priest devono dare vita ad un album capace di raccogliere il guanto di sfida lanciato da una legione di giovani metallari battaglieri. La risposta dei Priest è chiara e semplice: sono loro il puro ‘acciaio britannico’ e non hanno alcuna intenzione di cedere facilmente il passo.

I Judas Priest, all’alba del nuovo decennio, hanno un compito importante da svolgere, ovvero dimostrare a tutto il mondo di essere ancora la heavy metal band migliore al mondo, un compito tut’altro che semplice, perchè là fuori iniziano a nascere decine e decine di band pronte a combattere per potersi sedere sul trono occupato da Halford e compagni. (CONTINUA)

Nei mesi di marzo e aprile del 1980, i Judas Priest si imbarcano in un tour con gli Iron Maiden: le due band, però, non sembrano andare d’amore e d’accordo, accendendo una rivalità che si andrà a spegnere solo molti anni dopo. Il più infastidito, in questa faccenda, sembra essere KK Downing, che racconterà diversi dettagli anche nella sua autobiografia. La miccia pare venga accesa da un giovane Paul Di’Anno che, in un’intervista rilasciata a “Sounds”, afferma come i Maiden sul palco avrebbero ‘fatto il culo’ ai Priest. Downing non apprezza l’uscita e inizia a vedere in questi ragazzi un atteggiamento borioso, irrispettoso, ancora più evidente se si considera la chiara, a suo dire, somiglianza tra le due band. Addirittura il biondo KK inizia a vedere in Dave Murray una sorta di suo imitatore, impegnato a copiarlo mossa per mossa. Per contro gli Iron Maiden iniziano ad evidenziare più di un episodio in cui l’entourage dei Judas Priest si trova a mettere i bastoni fra le ruote della band, rendendo loro più difficile la vita on the road. Le cose poi col tempo si appianeranno e le memorie di questo periodo sono molto ridimensionate nell’autobiografia di Rob Halford, che trova semplicemente naturale il desiderio di mettersi in mostra da parte di una giovane band affamata di successo, messa in apertura ad una più affermata e famosa.
Concluso il tour americano, i Judas Priest si concedono un altro bagno di folla al prestigioso Monsters Of Rock, dopodiché, senza sosta e senza riposo, arriva già il momento di registrare un nuovo album. L’atmosfera però è meno frizzante del solito: i primi demo non sembrano soddisfare la band e così il quintetto decide di provare a cambiare aria, trasferendosi per le registrazioni ad Ibiza. La scelta della location non è dettata da motivazioni artistiche, ma puramente finanziarie, a causa della politica fiscale del governo inglese che, curiosamente, rendeva molto più conveniente per una band inglese registrare all’estero che non in madrepatria. Ibiza, però, non è esattamente il luogo ideale per il processo creativo della band che, già provata dai ritmi forsennati della discografia di quegli anni, si ritrova a vivere le sessioni di registrazioni più come una sorta di vacanza pagata che altro. Il risultato finale, come vedremo, non ne gioverà affatto.

Arrivato sul mercato soltanto dieci mesi dopo un ennesimo alloro, quello di “British Steel”, “Point Of Entry” rimane anche a distanza di tempo un capitolo non proprio memorabile della storia priestiana. (CONTINUA)

“Point Of Entry” ha segnato una battuta d’arresto nella carriera, altrimenti perfetta, dei Judas Priest, ma spesso gli errori servono a rimboccarsi le mani e a ricominciare. Siamo ormai nel 1982 e per la band arriva il momento di far vedere a tutti di essere ancora capaci di suonare il miglior heavy metal sulla piazza. Assieme al produttore Tom Allom, dunque, si chiudono in studio ed ancora una volta danno vita a due capolavori di fila.

Se si volesse sintetizzare allo stremo il concetto di heavy metal, se si intendesse far capire a qualcuno che non ne sa nulla come sia fatto, quale sia il suo valore emozionale, dandogli una rappresentazione immediatamente esaustiva, chi scrive ritiene che poche cose possano farlo come l’accoppiata“The Hellion”/”Electric Eye”. (CONTINUA)

Un titolo che è un programma, anzi un vero e proprio manifesto, dato che pochissime band possono fregiarsi del titolo di “Difensori della Fede”quanto i Judas Priest. (CONTINUA)

“Screaming For Vengeance” era stato un successo enorme per i Judas Priest, arrivando al doppio platino e portando la band a vette di notorietà mai raggiunte. “Defenders Of The Faith”, pur portando avanti un discorso musicale molto simile e rappresentando di fatto una sorta di continuazione di quanto ascoltato con il precedente lavoro, non riesce a bissarne il successo, forse a causa dell’assenza di un vero e proprio singolo trainante, capace di far breccia nel cuore degli ascoltatori più occasionali. Anche se un po’ delusi – a maggior ragione vista la qualità della musica – i Priest non si danno per vinti e iniziano a lavorare su un progetto ambizioso. Per fortuna sono lontani i tempi in cui i cinque dovevano tirare a campare in qualche modo, ormai la band è molto solida anche da un punto di vista finanziario e pertanto è possibile finalmente rallentare un po’ e prendersi il tempo necessario per non fare tutto con l’acqua alla gola. Questa volta, infatti, i Judas Priest vorrebbero dare alle stampe il loro primo doppio album, intitolato provvisoriamente “Twin-Turbo”, ma la CBS si tira indietro, considerando l’intera operazione troppo dispendiosa. L’album viene quindi ridimensionato e pubblicato nel 1986 con il titolo di “Turbo”.

Poche cose grondano anni ’80 come “Turbo” dei Judas Priest. Un disco arrivato come fulmine a ciel sereno, un cambio di rotta spiazzante in un momento in cui i cinque rappresentavano la quintessenza dell’heavy metal (CONTINUA)

Per quanto “Turbo” non sia stato accolto da un unanime coro di consensi per essere poi parzialmente rivalutato solo diversi anni dopo, il tour di supporto all’album viene acclamato come uno dei più maestosi mai creati dalla band. I Judas Priest mettono in piedi uno spettacolo futuristico, con scenografie imponenti ed effetti speciali, ma nonostante questo l’operazione “Turbo” non può dirsi riuscita. La band ha provato ad allargare la sua fanbase cercando di integrarvi il pubblico dell’hair metal, cercando di avvicinarsi alle nuove generazioni di musicisti dagli abiti scintillanti e i capelli cotonati. Il pubblico, invece, vuole dai Judas Priest quello che hanno saputo sempre fare come nessun altro: puro ed incontaminato heavy metal. Non stupisce, dunque, la scelta di fare un deciso passo indietro nell’iniziare i lavori di quello che diventerà “Ram It Down”. Questa volta niente fronzoli, niente guitar synth, solo voce, chitarre, basso, batteria e il desiderio di riprendere un po’ di quello smalto perduto nei solchi di “Turbo”.

Stretto tra i lustrini e le paillette di “Turbo” e l’opulenza metallica di “Painkiller”, “Ram It Down” rischia di passare come opera minore dell’infinita discografica priestiana. (CONTINUA)

Nonostante il netto ritorno alle sonorità più dure, in casa Judas Priest si percepisce la necessità di un cambiamento. Ed è ancora una volta il ruolo dietro le pelli a subire uno scossone: Dave Holland viene accompagnato alla porta, per quanto la versione ufficiale parli di una decisione consensuale, e al suo posto viene assunto Scott Travis, talentuoso batterista già in forze nei Racer X, dotato di uno stile molto più tecnico rispetto a quello più essenziale del suo predecessore. Tra i cinque nasce subito una notevole intesa e l’idea di tornare a suonare dal vivo tutto il materiale dell’era Binks è allettante. Prima, però, c’è da registrare un nuovo album e, in questa nuova ottica di cambiamento, i Priest decidono di cambiare anche il loro storico produttore, Tom Allom, in favore di Chris Tsangarides. La scena metal, infatti, si sta rapidamente evolvendo ed il sound patinato degli anni Ottanta cede sempre di più il passo al metallo più pesante, quello del thrash e dei primi grandi album death. Ancora una volta i Judas Priest, esattamente come successo dieci anni prima, si trovano ad un banco di prova, con il compito di dimostrare di essere ancora degni del loro trono. E ancora una volta, Halford e soci lasceranno tutti a bocca aperta.

Annvs Domini 1990: dopo un paio di album più fiacchi rispetto al livello dei lavori immediatamente precedenti (“Turbo”, del 1986, e “Ram It Down”, del 1988, contro capolavori assoluti tipo “Screaming For Vengeance” o “Defenders Of The Faith”) (CONTINUA)

Se è vero che artisticamente il periodo di “Painkiller” è in assoluto uno dei migliori nella storia dei Judas Priest, le cose non sono altrettanto tranquille nella vita dei musicisti. Per raccontare i fatti, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, al 1985, quando due ragazzi americani, James Vance e Raymond Belknap, rispettivamente di venti e diciotto anni, decidono di stipulare tra loro un patto suicida. I due, che purtroppo hanno alle spalle una situazione disastrata fatta di violenze domestiche, comportamenti antisociali e dipendenza, una sera decidono di farla finita, sparandosi in faccia. Belknap muore sul colpo, mentre Vance rimane orribilmente sfigurato e resterà in vita altri tre anni. Sembrerebbe una tragedia come tante, senza connessioni dirette con la nostra storia, se non fosse per un particolare: i due, la sera del loro gesto insensato, oltre ad ubriacarsi e fumare marijuana, avevano passato la serata ascoltando a ripetizione un album dei Judas Priest, “Stained Class”, proprio quell’album che ritrae in copertina una testa metallica attraversata da un proiettile. Le famiglie dei due decidono che deve esserci un collegamento tra le due cose e intentano una causa per dimostrare l’esistenza, negli album dei Judas Priest, di messaggi subliminali, capaci di influenzare le menti dei loro figli, fino a fargli commettere un atto che altrimenti non avrebbero mai osato fare. L’iter legale nel mentre va avanti, porta via anni, ma alla fine si concretizza: il 17 luglio del 1990 la band e l’etichetta vengono citati in giudizio per 6,2 milioni di dollari. L’area cristiana più conservatrice del Paese va a nozze su questa cosa: politici, giornali e tabloid iniziano a sezionare la musica e l’immaginario dei Priest, cercando simboli satanici e collegamenti occulti inesistenti. Il processo vero e proprio va in scena ad agosto e non usiamo questo verbo a caso, vista la grande copertura mediatica ed il risalto dato da TV e media a questa assurda vicenda. L’avvocato delle vittime dichiara senza mezzi termini come la band sia di fatto responsabile del suicidio dei ragazzi e i musicisti si trovano ben presto a dover giustificare ipotetici e mai verificati messaggi subliminali percepibili ascoltando al contrario questa o quella canzone. La vicenda si protrae fino al 24 agosto, quando finalmente i Judas Priest vengono prosciolti, ponendo fine ad un processo ai limiti della farsa.
Dopo l’uscita di “Painkiller”, dunque, la band torna on the road per un lungo tour e sembra che le cose siano finalmente tornate al loro posto: l’album è stato accolto molto bene, il tour vede la band in grande forma, eppure i problemi non sono finiti per i Judas Priest. Rob Halford, che proprio in quegli anni ha avuto modo di andare in tour con il meglio della scena thrash mondiale, vorrebbe dedicarsi a qualcosa di più cattivo ed estremo dei Judas Priest. La sua idea iniziale è quella di un side-project, ma le cose prendono una piega inaspettata quando, nel settembre del 1992, viene data notizia dello split definitivo tra i Priest ed il loro storico cantante. Lo stesso Halford racconterà molti dettagli su questa decisione nella sua autobiografia, “Confess” (edita in Italia da Tsunami): stando alla sua versione dei fatti, tutta la vicenda sembrerebbe essere frutto di un enorme fraintendimento, una mancanza di comunicazione che avrebbe portato Halford ad essere considerato fuori dalla band, sebbene lui non ne avesse alcuna vera intenzione. Che le cose siano andate effettivamente così o meno, non lo sapremo mai con certezza, ma ora i Judas Priest hanno una bella gatta da pelare, trovare un degno sostituto per uno dei più grandi cantanti che la storia del metal abbia mai conosciuto.
Per quanto interessanti e degne di attenzione, non tratteremo in questa sede le vicende soliste di Halford, dei suoi vari progetti, dai Fight ai Two, per arrivare al suo (poco sorprendente) coming out avvenuto proprio sul finire degli anni Novanta, limitandoci a proseguire la nostra storia concentrandoci solo sui Judas Priest. La band, incassato il colpo, inizialmente sembra prendere tempo: viene dato alle stampe un greatest hits, Glenn Tipton inizia a lavorare ad un paio di album solisti, ma dobbiamo aspettare tre anni prima che la band decida di mettersi seriamente alla ricerca di un nuovo cantante. Naturalmente i candidati sono migliaia e qualche nome più o meno famoso inizia a circolare: si parla dell’ex TNT Tony Harnell, di David Reece, che aveva già sostituito Udo Dirkschneider negli Accept, ma chi veramente arriva ad un passo dal ruolo è Ralf Scheepers, all’epoca ancora nei Gamma Ray. I Priest ascoltano nastri su nastri ma alla fine è Scott Travis a presentare il candidato ideale: gli era capitato fra le mani un video di una cover band dei Priest chiamata British Steel, il cui cantante era un talentuoso ragazzo americano, di nome Timothy Owens. Il batterista rimane impressionato dalla sua performance, lo fa ascoltare al resto della band e anche gli altri tre ne restano folgorati. Nel febbraio del 1996 Owens si sottopone ad una vera audizione. I Judas Priest hanno trovato ciò che cercavano e ora non resta che registrare un nuovo album.

È il 1992 ed i Judas Priest sono in cima al mondo. Il problematico processo che li ha visti impegnati in tribunale per difendersi dall’imputazione di ‘istigazione al suicidio’ in seguito alla morte nel 1985 e nel 1988 di due ragazzi (CONTINUA)

Per quanto “Jugulator” fosse un album solidissimo, le vendite non sono soddisfacenti, segno di come il pubblico sia ancora molto legato alla figura di Halford. Inoltre lo stile così heavy, vicino a quello dei Pantera, lascia un po’ spiazzati i fan di vecchia data, che desiderano piuttosto un ritorno ai fasti degli anni Ottanta. Sarà solo il tempo a rendere giustizia a quest’album, che verrà riscoperto ed apprezzato negli anni a venire. Completato il tour di supporto a “Jugulator”, la band si mette al lavoro ad un secondo album con Ripper Owens, ma i lavori procedono più a rilento e inizia già ad intravedersi qualche crepa nel nuovo assetto della band.

Quello che diventerà a tutti gli effetti l’ultima prova con Tim ‘Ripper’ Owens era ed è un’opera controversa: se nel corso degli anni “Jugulator” ha acquisito addirittura la fama di ‘classico’, da molti interpretato come un lavoro di alto profilo e tra i momenti migliori dell’heavy metal anni ’90, il suo successore non possiamo dire abbia avuto né all’epoca, né ai posteri, la stessa fortuna. (CONTINUA)

Da un punto di vista economico “Demolition” si rivela un flop assoluto, restando totalmente fuori dalle classifiche del Regno Unito e sfiorando appena la top 200 americana. Il malcontento nella band inizia a salire, l’idea di una reunion, considerando anche l’apprezzato ritorno di Halford al metallo più tradizionale dopo gli esperimenti con Fight e Two, inizia a sembrare molto allettante per tutti quanti (escluso Owens, ovviamente). Bisogna aspettare il 2003, però, perchè le cose si concretizzino: Rob Halford torna ufficialmente nella band e l’evento viene celebrato con un maestoso tour di reunion, che arriverà anche in Italia nell’edizione del 2004 del Gods Of Metal. Il passo successivo, ovviamente, è registrare un album all’altezza delle aspettative.

Era il 1990 quando i Judas Priest smossero il mondo heavy metal con “Painkiller”, una album che da molti venne descritto come pietra miliare mai uguagliata da nessun altra band, un’opera perfetta per descrivere in musica il concetto di metallo pesante. (CONTINUA)

“Angel Of Retribution” diventa un passaggio importante nella rinascita dei Judas Priest, un album che, al di là del suo valore artistico puro e semplice, riesce nel difficile compito di riconnettere la band con la sua fanbase. Se, però, con quest’album la band ha preferito giocare sul sicuro, inizia a farsi strada l’idea di provare a fare qualcosa di nuovo, di rischioso e stimolante al tempo stesso. Un grande, maestoso concept album, ispirato dalla vita e le opere di “Nostradamus”.

Negli ultimi anni i Judas Priest stanno vivendo una seconda giovinezza. Con il ritorno all’ovile di Rob Halford ed un disco tutto sommato classico come “Angel Of Retribution”, i padri dell’heavy metal avrebbero potuto continuare per questa strada sicura, senza problemi e con una buona prospettiva di riscontri artistici ed economici. (CONTINUA)

Nel 2011 i Judas Priest annunciano di essere arrivati alla fine del loro percorso, annunciando l’Epitaph Tour, quello che sarebbe dovuto essere un lungo tour di addio. Poco prima della partenza, però, arriva una notizia inaspettata: KK Downing lascia la band, dando il via ad una vicenda che si trascinerà per anni. All’inizio tutto sembra molto pacifico: la band rilascia un comunicato in cui annuncia lo split con il loro storico chitarrista e, contemporaneamente, annuncia l’arrivo di Richie Faulkner, che avrebbe assunto il ruolo di seconda chitarra per permettere alla band di portare a termine il tour. Downing, intanto, rilascia una sua dichiarazione ufficiale in cui ammette l’esistenza di alcune divergenze con il resto della band e con il management, ma invita comunque tutti i fan a continuare a supportare la band anche in sua assenza. In sintesi, KK sostiene di aver perso parte dell’entusiasmo e della motivazione e quindi di preferire farsi da parte piuttosto che portare avanti qualcosa solo per soldi o opportunità.
Intanto, però, l’arrivo di Faulkner ha portato evidentemente una ventata di freschezza nei Judas Priest ed un’armonia che sembrava persa da tempo. E’ noto, infatti, come tra Downing e Tipton ci fossero da anni attriti, in un rapporto conflittuale di amore ed odio che ha portato spesso i due allo scontro. I Priest, dunque, fanno marcia indietro, dicendo di essere stati fraintesi: l’Epitaph Tour sarebbe stato l’ultimo grande tour della band, ma non avrebbe decretato la loro fine e, anzi, un nuovo album di prossima pubblicazione avrebbe presto fatto capire a tutti come i Priest fossero ancora vivi e vegeti.

Arriva in tempi difficili il qui presente “Redeemer Of Souls”, il diciasettesimo sigillo della sontuosa carriera (che oramai tocca le quattro decadi!) degli storici Judas Priest. (CONTINUA)

Accantonata definitivamente l’idea di andare in pensione, i Judas Priest dichiarano presto di essere pronti ad un nuovo episodio della loro discografia, chiamando nel ruolo di produttori il loro storico collaboratore, Tom Allom, ed Andy Sneap che, come tutti sanno, giocherà un ruolo importante in questi ultimi anni della band. Contemporaneamente KK Downing inizia a pentirsi della sua decisione: si dichiara aperto alla possibilità di una reunion, ma solo a fronte di un evento veramente degno di nota, come un tour con i Black Sabbath o gli Iron Maiden, e poi di nuovo nel 2017 quando la band viene nominata per l’ingresso nella Rock ‘n’ Roll Hall of Fame.
Arriviamo quindi al 2018 e arriva un’altra brutta notizia per il pubblico dei Judas Priest: a Glenn Tipton è stato diagnosticato il morbo di Parkinson e, sebbene questa condizione fosse nota alla band da anni, solo recentemente la malattia del chitarrista si era aggravata al punto da rendergli impossibile continuare a suonare dal vivo come prima. Ancora una volta la band decide di andare avanti, con il beneplacito dello stesso Tipton, assumendo Andy Sneap nel ruolo di chitarrista ritmico e spostando il peso delle chitarre soliste tutto sulle spalle di Faulkner. Questa decisione riaccende la polemica con KK Downing: da una parte il chitarrista ritiene ingiusto il fatto di non aver ricevuto alcuna proposta a seguito dell’abbandono di Tipton, dall’altra invece la band ci tiene a precisare come la decisione di lasciare i Judas Priest sia stata, da parte di Downing, una scelta spontanea sulla quale la band non ha intenzione di tornare.
Polemiche a parte, è arrivato il momento di pubblicare l’atteso ritorno discografico e il risultato finale sarà una bella sorpresa per tutti.

Ebbene sì, il momento di parlare del nuovo lavoro dei Judas Priest è finalmente giunto! Chi vi scrive non può che sentirsi onorato per questa opportunità, anche se non è certo un compito facile approcciarsi a parlare del diciannovesimo album in studio della band che, insieme a poche altre, è stata in grado a suo tempo di definire i canoni di tutto ciò che oggi si può anche solo parzialmente definire ‘heavy metal’. (CONTINUA)

Arriviamo quindi alla fine di questo viaggio durato cinquant’anni con le ultime battute: KK Downing ed i Priest continuano a punzecchiarsi a distanza, ora lanciandosi qualche frecciatina, ora offrendosi a vicenda ramoscelli d’ulivo che lasciano ben sperare i fan. Downing nel mentre forma i suoi KK’s Priest, assieme a Ripper Owens e Les Binks, mentre il resto dei Judas Priest lavora al successore di “Firepower”, che dovrebbe essere ormai prossimo al completamento. Tutta la vicenda, infine, vede un ultimo colpo di scena proprio nel maggio del 2022, quando i Judas Priest vengono finalmente ammessi nella Rock ‘n’ Roll Hall Of Fame. I fan immediatamente iniziano ad interrogarsi se questo evento possa essere l’occasione per sanare le vecchie ferite ed entrambe le parti sembrano ben disposte a far sì che il sogno di molti si concretizzi. La nostra storia, quindi, non è ancora giunta alla fine e ci sono ancora interi capitoli che devono essere scritti. I Judas Priest sapranno regalarci un altro grande album prima di concedersi una meritata pensione? KK si esibirà davvero con la band? E questo potrà portare in futuro ad una reunion?
Sono domande a cui non sappiamo rispondere, ma per il momento non guardiamo troppo oltre. Ora c’è il Rock The Castle alle porte e siamo sicuri che sarà una grande festa.

 

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