IDENTIKIT: Opeth – ‘Storie Di Spiriti’

Pubblicato il 02/02/2006

BIOGRAFIA

Introduzione
Attualmente, nella ristretta cerchia di metalband realmente innovative ed originali che possono nutrire un foltissimo ed appassionato numero di fedeli fan, gli svedesi Opeth giocano di certo un ruolo di primo piano. Creatori di un sound personalissimo, unico e subitamente riconoscibile, i quattro (ora cinque) scandinavi si sono imposti dapprima all’attenzione della critica e dei fan underground, durante i loro primissimi anni di vita, e poi, in un crescendo continuo di popolarità e consensi, sono diventati un piccolo, grande oggetto di culto anche per chi non è avvezzo a sonorità prettamente estreme o metalliche, contagiando, con la loro poliedricità compositiva e la loro innegabile classe, diversissime frange di pubblico, dal progster Seventies al giovane metal-corer d’oggigiorno. In questa speciale monografia dedicata alla band di Stoccolma, ci sembra davvero giusto e doveroso passare in attenta rassegna ogni pubblicazione della carriera di Mikael Åkerfeldt e compagni, nonché fornire qualche interessante aneddoto biografico, in grado di soddisfare alcune curiosità relative soprattutto alla nascita e alla crescita di una formazione semplicemente fenomenale.

La Città della Luna
Le vicende che riguardano la nascita degli Opeth sono piuttosto complesse e, per forza, nel descriverle, si è obbligati a percorrere strade parallele: da una parte, nella piccola cittadina di Sörskogen, troviamo Mikael Åkerfeldt ed il suo amico d’infanzia Anders Nordin, due appassionati di hard rock, heavy ed extreme metal, atti a formare gli Eruption, un gruppo che, senza pubblicare materiale alcuno, ebbe vita dal 1987 al 1990, iniziando come coverband di Death e Bathory e abbozzando timidi tentativi di composizione; dall’altra parte, invece, in quel di Täby, ecco il primo nucleo degli Opet (sì, al tempo senza la ‘h’ finale), formato da alcuni ragazzi del posto e dal vocalist David Isberg, uno skater infatuato di metal estremo. E, proprio mentre gli Eruption terminano la loro breve esistenza, accade che Mikael e David si conoscono, condividendo gusti musicali e amicizia e scoprendo presto di voler collaborare fra loro: Isberg propone quindi ad Åkerfeldt, nonostante il posto fosse già occupato, di entrare negli Opet quale bassista. La piccola discussione che nacque la sera stessa della prima prova di Mikael negli Opet, tra David e i ragazzi di Täby, portò allo scioglimento del nucleo originario della band, lasciando ai due amici l’onere ed il (ancora misero) onore di cercare di proseguire il discorso musicale. Il nome Opet – per chi non lo sapesse, è preso dal libro “L’Uccello Del Sole” di Wilbur Smith, nel quale Opet è la mitica Città della Luna – si tramuta perciò in Opeth e, oltre ad incominciare un percorso compositivo ancora acerbo ed immaturo, David (voce) e Mikael (chitarra) arruolano Anders Nordin alla batteria e Nick Döring al basso (entrambi ex-Eruption), mentre all’altra chitarra arriva tale Andreas Dimeo. Con questa line-up, la band tiene il primo concerto, suonando in una scuola elementare di supporto ai Therion…ma il risultato è davvero pessimo: Andreas e Nick lasciano subito i ranghi, sostituiti da due freakettoni attivi nella sleazy metal band Crimson Cat, ovvero Kim Pettersson e Johan De Farfalla. Le esibizioni proseguono – la seconda gig addirittura di supporto ai nascenti At The Gates – ma è con l’arrivo di Peter Lindgren che gli Opeth iniziano a prendere connotazioni davvero serie: Peter prende dapprima il posto di Johan, momentaneamente uscito dal gruppo, al basso e poi quello di Pettersson alla chitarra; nel frattempo, anche il fondatore David Isberg scende dal carro, scegliendo di giocarsi le sue carte nei Liers In Wait, permettendo così ad Åkerfeldt di traslare alla voce. Per circa un anno, alla quattro corde viene reclutato Stefan Guteklint, ma i nostri ridiventano un trio (Åkerfeldt, Lindgren, Nordin) proprio nel momento di raccogliere i frutti di tali avvicendamenti di line-up e dei mesi trascorsi a comporre musica personale. Frutti ma anche fiori, diremmo…ad esempio, una bella orchidea!

Al lume di candela
E finalmente giunge l’atteso contratto discografico! E’ l’inglese Candlelight Records, per prima, a cogliere la bravura e l’originalità del quartetto nel frattempo trasferitosi nella capitale Stoccolma. “Orchid” è il primo album ufficiale della band, una solida pietra miliare del prog-death scandinavo, superbo alternarsi di parti acustiche e progressive, derivanti principalmente dal folk svedese e molto comuni all’epoca in diverse band della scena, e di sfuriate melodiche di puro swedish death metal, molto vario e complesso però, soprattutto a causa della peculiarità principe che distingue le canzoni degli Opeth, ovvero l’epica ed atipica lunghezza. Inoltre, fin da subito, il doppio cantato growl/pulito di Mikael Åkerfeldt è un ulteriore colpo di genio/tocco di classe che proietta il gruppo tra i nomi emergenti e dal futuro assicurato dell’underground estremo. Ad occuparsi delle parti di basso è tornato in pianta stabile Johan De Farfalla, a metà strada tra sessionman e membro ufficiale della formazione. E proprio la stessa formazione registra il seguente e secondo “Morningrise”, pubblicato dopo solo un anno di attesa: l’album non cambia di molto le carte in tavola, anzi potrebbe essere identificato come la seconda parte di “Orchid”: la band non ha neanche bisogno di maturare, in quanto il suo suono, a parte la produzione ancora deliziosamente underground, è completo ed originale al 100%, le composizioni ispiratissime e la tecnica dei quattro messa perfettamente al servizio della singola canzone. Davvero difficile stabilire quale sia il più riuscito nel mettere a confronto i primi due full di Mikael e compagni. In seguito all’uscita di “Morningrise”, gli Opeth effettuano il loro primo tour europeo, di spalla ai Cradle Of Filth, per una serie di 26 date, fra le quali quella di Roma è ancor oggi una delle più apprezzate in assoluto da Mikael e Peter. Ma ancora drastici cambiamenti di line-up, al rientro dal tour, attendono i nostri: siamo ad inizio 1997 e Mikael dà il benservito definitivo a De Farfalla, poco integratosi a livello personale con il resto dei ragazzi; nello stesso periodo, anche Nordin, il fraterno amico del cantante, opera una scelta di vita spiazzante…emigra in Brasile! Gli Opeth, per breve tempo, sembrano non esistere più; ma, quando Mikael si rende conto della bontà del nuovo materiale che sta nascendo dalla sua creatività, lui e Peter cominciano a cercare nuovi elementi per il gruppo. Dopo qualche audizione, viene reclutato alla batteria Martin Lopez, un uruguaiano trapiantato in Svezia grande fan della band. In seguito, il suo amico ed omonimo, Martin Mendez, prenderà il posto vacante di bassista. “My Arms, Your Hearse”, terzo volume opethiano, viene registrato negli emergenti Fredman Studios di Göteborg ed è un lavoro molto apprezzato dalla band, nel quale gli Opeth incominciano a sperimentare nuovi accorgimenti, allontanandosi parzialmente dalle soluzioni acustiche folk e intessendo le possenti trame death con intervalli pienamente derivati dal prog-rock dei Seventies, seppur rielaborato alla maniera loro. Con questo album, termina la collaborazione tra la band e la Candlelight, commiato dovuto, oltre che all’adempienza degli obblighi contrattuali, anche dall’abbandono di Lee Barrett, fondatore e proprietario della label britannica. I quattro svedesi si accasano quindi alla gloriosa Peaceville Records (My Dying Bride, Anathema), all’epoca sub-label della più quotata Music For Nations, orgogliosi di entrare a far parte di un’etichetta certamente prestigiosa. Nel 1999 esce il cosiddetto “album rosso”, lo stupendo “Still Life”, ulteriore progresso del gruppo verso un suono sempre più elaborato e accattivante, contenente alcune fra le melodie più malinconiche ed emozionanti mai scritte dagli Opeth. Il 2000 è ancora un anno di cambiamenti per il four-piece, in quanto la Music For Nations stessa rileva il gruppo dalla Peaceville, la band riesce a suonare qualche concerto (cosa che non sempre è avvenuta con regolarità, purtroppo) e Mikael partorisce quello che probabilmente è il disco maggiormente imputato di aver fatto conoscere gli Opeth al grande pubblico metallaro…”Blackwater Park”!

Parchi, porcospini & acoustic mode
“Blackwater Park”, se si esclude uno dei booklet più evocativi e belli della storia, non ha, al suo interno, elementi tali da rendere semplice la spiegazione del suo successo mondiale: non molto distante da “Still Life”, fors’anche più complesso, difficile e psichedelico, sembra solamente l’ennesimo, superlativo, nuovo disco della band. Invece, vuoi grazie alla promozione della MFN, vuoi per l’importanza che il nome Opeth ha ormai nella scena metal, il lavoro viene osannato ovunque e garantisce a Mikael e compagni una prepotente esposizione live. Il vero passo in avanti, per quanto riguarda “Blackwater Park”, lo si ha nella collaborazione con Steven Wilson, mente e leader dei Porcupine Tree, presto divenuto grande amico e fan di Åkerfeldt, ovviamente corrisposto. Wilson produce, partecipa e aiuta gli Opeth nella realizzazione del quinto disco, e forse la sua mano, a lungo andare, si sente e riesce a donare un ennesimo strato di spessore alle composizioni degli svedesi. Svedesi che addirittura compiono il loro primo tour americano, prima in compagnia degli Amorphis, poi assieme ai Nevermore, oltre a suonare in numerosi festival estivi del 2001. Seguono concerti positivi in tutta Europa… finché non tocca occuparsi della stesura di una nuova creatura. Dopo un periodo esaltante, ma anche stressante, Mikael fatica a rientrare in carreggiata e, sebbene il materiale nuovo lo soddisfi, si trova con una notevole mole di sezioni acustiche poco adatte all’indurimento del suono previsto per “Deliverance”. Un altro suo grande amico, Jonas Renkse dei Katatonia (nei quali Mikael ha cantato, prima della totale conversione del gruppo al ‘pulito’), gli suggerisce di pubblicare due album distinti. In fretta e furia, Mikael decide che così sarà, accordandosi con la label per un budget “prendi 1, registri 2” e considerando la doppia release, a livello contrattuale, come unica. I due lavori, “Deliverance” e “Damnation”, vengono preparati entrambi in sole sette settimane, dopo una sola prova con la band al completo (!!!), e con ancora la collaborazione di Wilson, soprattutto nel coinvolgente “Damnation”, album totalmente acustico e decisamente bello. “Deliverance”, al contrario, risalta per l’evidente poca ispirazione e la frettolosità con il quale viene registrato, essendo comunque una classica opera targata Opeth. Il successo del doppio lavoro è però assicurato e, tra alti, bassi e situazioni spiacevoli, la band si imbarca in una serie di estenuanti tour, i quali li portano in giro per tutto il mondo, compresi il Sudamerica e l’Australia. La realtà Opeth ha ormai preso forma e sostanza in ogni suo aspetto! E, dopo le fatiche, gli eroi meritano il giusto riposo…

Verso il Gotha
Il 2004 si rivela un anno quasi interamente pacifico per la band, dedicato alla scrittura dei nuovi brani, sempre ad opera di Mikael principalmente, ma finalmente con la possibilità anche per gli altri componenti di dire la propria, in quanto il tempo a disposizione e il relax per raccogliere le idee sono finalmente dalla parte del combo di Stoccolma. Per Wiberg, il tastierista che ha accompagnato i ragazzi nei tour di supporto a “Damnation”, accetta finalmente di divenire il quinto membro ufficiale degli Opeth, e così il songwriting si arricchisce di nuove sfumature, sempre più prog, sempre più di classe. La Music For Nations, nel frattempo, ha chiuso i battenti ed il neonato quintetto si trova alla ricerca di un contratto discografico con un disco praticamente già pronto: fra le tantissime proposte (trentuno!) giunte dalle varie etichette discografiche, Mikael, Peter, Per e i due Martin scelgono quella della Roadrunner Records, una label solida e di massima sicurezza, oggi devota al trend imperante ma in passato certamente promotrice di album realmente storici. Gli Opeth vengono pure accusati di essersi “venduti” al commercio, appunto per aver firmato per una casa che attualmente punta molto sulla moda del momento, ma gli insulti sono sinceramente fuori luogo, visto e sentito il risultato di “Ghost Reveries”, l’ultima fatica della band, molto meglio strutturata e avvincente di qualche recente release di casa Opeth. E con l’uscita dell’ottavo disco, la formazione svedese è destinata ad aumentare notevolmente la propria base di fan, considerata la distribuzione mondiale che la Roadrunner garantisce al disco. Altri tour, fra cui quello europeo transitato da poco in Italia, sono in programma e la carriera del gruppo sembra proprio andare a gonfissime vele. Così come si prospetta il suo futuro…ancora del tutto sconosciuto.

OPETH – ORCHID

OPETH - Orchid
L’immagine che meglio identifica, a livello visivo, ciò che gli Opeth riuscivano (ed in parte riescono tuttora) a trasmettere attraverso la loro musica, è forse quella che si può ammirare sulla back-cover di “Orchid”, il primo album del gruppo. I quattro musicisti sono infatti fotografati all’ombra di un tramonto rosso-violaceo, figure malinconiche su di un pendio, sagome tristi in contemplazione della Natura. E proprio così risulta essere tutto il lavoro, una perfetta miscela tra gli slanci rossastri di albe e tramonti, brucianti attraverso riff melodici di pregiata fattura, e l’oscurità latente e nebbiosa di boschi e foreste cupe, promulgata da arpeggi commoventi, decadenti e, soprattutto, sognanti. Su tutto ciò, come vento gelido a ghiacciare l’animo, il growl potente – ma ancora acerbo – di Mikael Åkerfeldt, declamatore di cicli vitali e beltà naturali, giovane narratore poetico. “Orchid” è pressoché perfetto, se si tralasciano il minimalismo e le grezze sonorità di una produzione non certo possente, ma comunque precisa, all’uopo e bilanciata per bene: ogni membro della formazione scandinava si ritaglia spunti di encomiabile valore, a cominciare ovviamente da Åkerfeldt che già stupisce per la capacità compositiva, per la fantastica bellezza dei riff del suo personale swedish death e per una prestazione vocale sorprendente; Lindgren è un buon sparring-partner ed il suo compito lo svolge perfettamente, dimostrando anche lui una perizia tecnica indubbia; il drummer Anders Nordin, oltre a profondersi in vigoria sui tamburi, ci regala anche una pregevole esecuzione pianistica di stampo classico, “Silhouette”, sorta di “esperimento fra gli esperimenti” che la band in seguito svilupperà per altre vie; e che dire del freakettone dal cognome improbabile (almeno per uno svedese)? De Farfalla imperversa con il suo basso in molteplici punti del platter, rivelandosi un ottimo solista, per uno strumento che nel futuro – eccetto in “Morningrise” – non troverà certo l’enorme spazio concessogli in “Orchid”, un disco realmente superlativo anche per questi accorgimenti. Esclusa la seconda, breve strumentale acustica “Requiem”, i cinque pezzi rimanenti del lavoro non differiscono molto tra loro, essendo tutti di chiaro stampo Opeth e aggirandosi tutti sui dieci minuti di durata. “In Mist She Was Standing”, “Forest Of October”, “The Twilight Is My Robe”…tutte sono in grado di regalare altissimi momenti di esaltazione, sia quando si trasformano in epiche cavalcate verso cieli notturni stellati, sia quando la dolcezza delle chitarre acustiche sembra disturbare appena il sonno di laghi nascosti. “Under The Weeping Moon” è forse il brano più progressive del lotto, ma certo è poco utile trovare differenze forzate fra i pezzi di “Orchid”, così come inutile è definire “The Apostle In Triumph” l’apoteosi delle capacità musicali dei primi Opeth. Lavoro che travalica Spazio e Tempo, immerso nell’Emozione e nella Magia. La prima pietra (miliare) posta in direzione di quel crepuscolo di gioia e pace musicale che tutti un po’ cerchiamo. Imperdibile.

OPETH – MORNINGRISE

OPETH - Morningrise
Dopo appena 365 giorni dalla release di “Orchid”, gli Opeth si ripresentano in piena forma con il secondo, acclamato “Morningrise”. Registrato agli Unisound Recordings, prodotto dalla band stessa e supervisionato ancora dal tuttofare svedese Dan Swanö, il disco non muta di una virgola la proposta del combo, presentando una nuova serie di capolavori musicali, del tutto simili a quelli presenti nel platter d’esordio, forse solo un pelino qualitativamente migliori. Privati delle tracce strumentali, i cinque brani si evolvono dilatati più che mai in continui cambi d’atmosfera ed approccio, divisi equamente tra fraseggi acustici e passaggi melo-death di stampo primitivo; essendo stati composti nel quinquennio che va dal 1991 al 1996, è logico che essi siano saldamente ancorati all’incarnazione iniziale degli Opeth, quella più underground e diretta: “Advent” e “Nectar” sembrano davvero essere degli estratti di “Orchid”, così come “The Night And The Silent Water” ricalca abbastanza “Under The Weeping Moon”, grazie al suo ammaliante ed oscuro stacco progressivo in crescendo. Non si tratta ovviamente di scarti o materiale riciclato…le canzoni sono valide almeno tanto quanto quelle del debutto, anzi! Mikael e Peter si superano realmente in occasione della monumentale “Black Rose Immortal”, tuttora il brano più lungo (più di venti minuti) mai partorito dal duo, un’infinita suite che esplora vivacemente più di un territorio sonoro ed emozionale. Il mood generale di “Morningrise” è leggermente più cupo e notturno rispetto a quello di “Orchid”: brezze gelide, pallide e nebbiose albe, macchie immerse in poetica oscurità, nubi caliginose solcanti la Luna, silenzi sferzati da lacrime d’Amore morente…queste le immagini che scorrono davanti al terzo occhio, all’ascolto del disco e alla lettura dei testi – già meglio strutturati – di Åkerfeldt. La tecnica del quartetto, anche in questa seconda opera, viene messa ben in evidenza, con una citazione meritoria per Johan De Farfalla ed il suo basso virtuoso, spesso e volentieri protagonista di linee autonome e praticamente soliste. Una lievissima differenza, forse, fra i primi due dischi degli Opeth è rappresentata dalla maggiore cura ed importanza data alle parti acustiche in questo secondo volume, probabilmente più studiate, rivedute e corrette. L’ultima traccia è “To Bid You Farewell”, per chi scrive rientrante fra le prime tre canzoni in assoluto del gruppo in quanto a bellezza, una semi-ballad quasi interamente acustica e cantata completamente in clean style da Mikael, autore di una prova commovente e limpidissima. Con questo album praticamente scevro da difetti, gli Opeth chiudono la primissima parte della loro carriera, registrando l’abbandono del drummer Anders Nordin e l’allontanamento di De Farfalla. I primi, veri tour sono alle spalle…non resta che superare il momento difficile, trovare abili sostituti e ripartire dalle solide basi fin qui poste!

OPETH – MY ARMS, YOUR HEARSE

OPETH - My Arms, Your Hearse
Una pioggia lieve ma continua introduce l’ascoltatore al cospetto di “My Arms, Your Hearse”, il primo lavoro del nuovo corso della band. E, pur essendo assolutamente 100% Opeth, il disco sembra quasi scritto da un’altra formazione: innanzitutto, cambia lo studio di registrazione…e i Fredman Studios di Fredrik Nordstrom sono ciò che, al tempo, offriva di meglio l’Europa in campo metal estremo. La produzione è quindi corposa e spessa, con la fresca batteria di Martin Lopez a dare potenza e tiro ai brani e le chitarre di Mikael e Peter fluide e dense, in grado di passare da momenti di pura violenza a spezzoni vicini alla psichedelia; al basso è subentrato Martin Mendez, ma è lo stesso Åkerfeldt ad occuparsi della messa su nastro delle linee della quattro corde, in quanto la new entry non è ancora preparata quel che serve. Oltre al professionale cambio di recording studio, va detto che “My Arms, Your Hearse” segna l’abbandono, da parte degli Opeth, di quella genuina attitudine folk che aveva contraddistinto i platter antecedenti; cambia notevolmente, in linea di massima, il riffing e, se un termine di paragone può essere usato, la band inserisce alcune soluzioni chitarristiche di matrice Katatonia, meno immediate e più complesse. E basti ascoltare “April Ethereal” per rendersi conto, anche a livello quantitativo, di come la band abbia deciso di variare approccio in merito agli intermezzi acustici: di meno ma più ad effetto. Mikael comincia a sfoderare un growl più lugubre e catacombale, adattissimo al potente suono del disco, così come pure alle tematiche, sicuramente avvincenti ed interessanti. Siamo di fronte, infatti, ad un concept-album abbastanza complesso, la cui (unica) divertente caratteristica è quella di avere l’ultima parola del testo di un brano corrispondente al titolo del pezzo successivo; per il resto, la storia è tanto affascinante quanto inquietante, epopea metafisica di un morto che, prima di venir accolto definitivamente tra le braccia dei reami della Morte, vaga come fantasma nel tentativo di re-instaurare un rapporto con la straziata dolce metà. In un tripudio di visioni, spiriti, susseguirsi di stagioni, sguardi sinistri, stupori e spaventi, “When”, “Demon Of The Fall” e “Karma” si ergono a composizioni migliori del lavoro, senza però considerare la stupenda “Credence”, traccia acustica dall’atmosfera calda ed avvolgente ma triste e struggente come Pierrot (ci permettano i Novembre il piccolo riferimento). Ottima la chiusura strumentale di “Epilogue”, con un prezioso Hammond a fare da sottofondo alla conclusione delle ostilità. Un disco bello, breve (solo cinquantadue minuti, per gli Opeth è un evento!), vario e transitorio. Il sottoscritto lo giudica, forse a torto, l’anello debole della discografia della band, riconoscendo comunque il valore di un album il cui vero punto di forza è l’immaginario mistico-visivo che lo svolgersi del concept fa passare in rassegna. Terminati i doveri sotto casa Candlelight, la band si appresta ad esordire, in breve tempo, su Peaceville…

OPETH – STILL LIFE

OPETH - Still Life
“Still Life”…ancora vita, di nuovo vita. La Peaceville accoglie a braccia aperte gli Opeth ed il loro quarto volume, e come darle torto? Il disco qui trattato è una rara perla di classe, bellezza, furia e dolcezza, ammantata da riflessi purpurei e magenta, grondanti sangue da ogni pennellata sonora che, complice anche il primo, superbo artwork del maestro Travis Smith, fuoriesce dai solchi del dischetto. Finalmente in formazione standard, con anche Mendez pienamente attivo, Åkerfeldt e soci si dividono tra i Fredman Studios e i Maestro Musik, coadiuvati ovviamente da Fredrik Nordstrom per quel che riguarda la scelta dei suoni e la registrazione. La produzione, infatti, si migliora ulteriormente, riscaldandosi e divenendo più secca, con il basso tornato a svolgere un compito perlomeno personale, se non proprio a sé stante. “Still Life” riprende, per certi aspetti, le sonorità dei primi due album opethiani, ma le mischia mirabilmente con l’attitudine più possentemente death metal di “My Arms, Your Hearse”, generando così composizioni più che affascinanti e trasudando classe in maniera abbondante. Il “red album”, secondo chi scrive, è quello in cui le sezioni acustiche danno realmente la polvere alle parti metalliche; inoltre, alcune strofe vocali pulite di Mikael vanno quasi ad assumere le sembianze di ritornelli, orecchiabili e canticchiabili come sono: tutto ciò è benissimo riscontrabile all’ascolto delle prime tre composizioni del platter: l’opener “The Moor”, “Godhead’s Lament” – riuscite davvero a trattenere le lacrime durante lo spezzone acustico centrale, da brividi? – e la buia, strepitosa ballata “Benighted” sono tracce indimenticabili e fanno quasi passare in secondo piano il resto della musica, pur essendo anch’essa di livello superiore. Infatti, “Face Of Melinda”, la più moderna (almeno per qualche riff groovy) “Serenity Painted Death” e “White Cluster” sono altri pezzi verso i quali rimanere a bocca aperta, tale è la loro brillante alchimia. Sotto l’aspetto lirico, Åkerfeldt ci propone un altro concept, possibile seguito di quello presente in “My Arms, Your Hearse”, ma più probabilmente no: il cantante inizia ad usare un inglese particolarmente ricercato e l’utilizzo di termini particolari, elaborati e molto figurativi, se da un lato rende semplice comprendere singole descrizioni di scene, dall’altro il senso generale diventa sempre più nascosto e arduo da interpretare. A cavallo tra tematiche religiose e spirituali, storie mistiche e soprannaturali (un po’ alla Poe…e scusate il giochetto di parole), “Still Life” è un disco intriso di lirismo passionale e malato, sognante ma corroso dalla peste, ripugnante e delizioso…un viaggio in penombre d’odio e rigetto. L’album, giudicato con il senno di poi, risulta un po’ sottovalutato, all’interno della discografia Opeth, poco citato e latente all’ombra del successivo “Blackwater Park”, ma il giudizio che ne si ha è assolutamente positivo, anzi: siamo di fronte forse ad un Capolavoro, fatto, finito e con la C maiuscola! Ma a proposito di “Blackwater Park”…

OPETH – BLACKWATER PARK

OPETH - Blackwater Park
Il Parco dell’Acqua Nera. Blackwater Park. Luogo in cui soffrono e si disperano gli spiriti dei Morti. Sorta di decadente e putrido purgatorio, nascosto ad occhi viventi, pervaso da foschie e brume inquietanti, avvolto in un freddo grigiore marcio e rinsecchito. Travis Smith, l’artista autore del magnifico artwork del quinto disco marcato Opeth, è sempre più richiesto sulla scena metallica (Katatonia, Novembre e mille altri), ma in “Blackwater Park” si supera assai e, solo grazie al suo lavoro, contribuisce a donare all’album un alone misterioso ed intrigante, presto rintracciabile poi anche nelle singole composizioni. Il lavoro in questione è quello che fa fare agli Opeth il salto di qualità, il cosiddetto “botto commerciale”. E, sinceramente scrivendo, non ce ne sarebbero affatto le ragioni. D’accordo, la fruttuosa e cospicua collaborazione della band con Steven Wilson, leader e voce dei Porcupine Tree, il quale interviene sia in sede di produzione, sia contribuendo in parte al songwriting, sia partecipando lui stesso alla voce, alle chitarre e al pianoforte (nella conclusione di “The Leper Affinity” e nella breve strumentale “Patterns In The Ivy”), porta ad un’ulteriore stratificazione del sound e all’adozione di alcuni accorgimenti particolari che regalano aggiuntivo pathos e nuova originalità ad uno stile ormai consolidato e sicuro delle proprie possibilità. In qualche frangente, ad esempio nella ballata “Harvest” oppure all’inizio e alla fine di “Dirge For November”, si iniziano a notare accenni a certe sonorità d’elite che poi straborderanno nell’acustico “Damnation”. “Blackwater Park”, nel suo insieme, è certamente più ambizioso, complesso e difficile di quanto mai fatto finora dalla band…eppure ha un successo fenomenale! Quasi inspiegabile. Chiaro, il disco, dopo parecchi ascolti, esplode in tutta la sua pallida bellezza, ma addentrarsi fra le scarne betulle di questo parco defunto è impresa piuttosto ardua. L’approccio al riffing diventa più psichedelico, Åkerfeldt alterna cantati sempre più estremi, passando da un pulito limpido e dolce ad un growl spaventosamente grave, gli altri musicisti riescono a ritagliarsi spazi individuali con più facilità rispetto al recente passato. La bellezza di “Bleak” e “The Drapery Falls”, il dinamismo prepotente di “The Funeral Portrait” (gli Opeth non disdegnano il moderno, componendo riff anche stranamente groovy), la dilagante inquietudine della title-track…tracce così complesse, ben strutturate e straordinarie non possono essere certo criticate più di tanto, ma nell’insieme ci sembra giusto dire che “Blackwater Park” venga ancor oggi un attimo sopravvalutato: in realtà, è come se la band stesse pian piano adagiandosi sugli allori, oppure inizi a diventar prigioniera della propria musica… Ma di tempo per ragionare su questo ce n’è davvero poco, in quanto arrivano finalmente i grandi tour extra-europei e gli Opeth sono richiesti a destra e a manca. Buon per loro, dunque…i cancelli del Blackwater Park sono spalancati e orde di fan vi si riversano all’interno…

OPETH – DELIVERANCE

OPETH - Deliverance
In seguito al successo di “Blackwater Park” e al conseguente, cospicuo aumento del numero di concerti e tour tenuti dal combo scandinavo, gli Opeth – ma soprattutto Mikael Åkerfeldt – rientrano in patria piuttosto frastornati e non proprio ispirati alla grande. Molte canzoni, o perlomeno spezzoni musicali da unire, sono pronte, ma la band si trova in difficoltà a rielaborare il tutto, giungendo così alla conclusione di dover dare uno strappo alla regola (ed uno al contratto con la Music For Nations), in modo da pubblicare due album separati, uno in classico stile Opeth, l’altro quasi completamente acustico. La prima parte di questo ambizioso progetto vede la luce a fine 2002, intitolata “Deliverance”: gli ingredienti di contorno sono più o meno quelli del disco precedente, ovvero Steven Wilson alla produzione e attivamente collaborante, Travis Smith all’artwork (questa volta aiutato nella ricerca dei soggetti dalla band stessa), i Fredman Studios, abbinati ai Nacksving Studios, per la registrazione; in fase di mixing e mastering, però, ecco arrivare il guru Andy Sneap…ed il suo lavoro su “Deliverance” si sente benissimo, essendo i suoni praticamente perfetti e finalmente completamente puliti, soprattutto per quel che riguarda la batteria. Peccato, nonostante tutto l’imponente spiegamento di forze, che l’album non sia certo memorabile: la fretta e l’approssimazione con il quale è stato concepito si percepisce fin dall’opener “Wreath”, un brano noioso e prolisso, probabilmente una delle peggiori cose mai scritte dal gruppo. Assieme alla strumentale (del tutto inutile e banale) “For Absent Friends”, “Wreath” è l’apice negativo di un lavoro comunque non deprecabile – si parla sempre di songwriting superiore a prescindere, in fin dei conti – ma che davvero splende molto di meno di quanto composto in passato dai ragazzi. L’oscuro visionario grafico si riflette anche nei testi di Mikael, mai così cupi, violenti e drammatici, ed anche nella scelta delle parti vocali, nelle quali il pulito perde nettamente punti nei confronti del growl da catacomba più consono alla violenza dei brani. “Deliverance”, l’ottima “A Fair Judgement”, “Master’s Apprentices” e “By The Pain I See In Others” fanno recuperare al platter qualche grado di apprezzamento, anche grazie all’utilizzo sorprendente di un riffing devoto al più classico death metal, oppure vagamente ispirato ad un sound più cadenzato e ritmico, difficile da scorgere, in modo così prepotente, negli episodi precedenti. Nulla è perduto, comunque, in quanto “Deliverance” venderà bene e sarà apprezzato soprattutto dalla schiera di nuovi, recenti fan. E nel frattempo, si fa spasmodica l’attesa per la seconda parte del “doppio disco” degli Opeth, l’attesissimo “Damnation”…

OPETH – DAMNATION

OPETH - Damnation
Raffinatezza. Classe. Queste sono le due qualità principali con le quali si può riassumere il contenuto di “Damnation”, il disco tutto-acustico degli Opeth. Definito, dalla stessa band, un esperimento da tempo pensato – o forse sognato – l’album non è solo una raccolta di canzoni atte a mostrare il quartetto svedese nella sua versione priva di elettricità, bensì rappresenta un ulteriore gradino di sviluppo a cui gli Opeth giungono dopo un percorso di crescita compositiva costante e sempre rivolta al futuro. In questo lavoro, la passione di Mikael per i classici del prog-rock settantiano, unita alla vena creativa dell’amicone Steven Wilson, la fa da padrona: con i Pink Floyd quali padri putativi principali, le otto tracce si susseguono una più bella dell’altra, sempre avvolte da un alone di tristezza e tranquillità davvero intenso. “Damnation” è un connubio di pacatezza, torpore e tediosità, il tutto però mai sfociante nella pericolosa noia, bensì conducente ad un oceano di emozioni nebbiose, filtrate attraverso la luce di un pallido Sole di inizio primavera. L’uso diffuso del mellotron e del piano, ad uso ed abuso di Wilson, dona ovviamente quel tocco Seventies tanto cercato dagli Opeth e, mai come in questo platter, trovato con così tanta perspicacia. L’album, anche a livello di artwork, è praticamente il negativo di “Deliverance”, tanto oscuro con lampi grigi quest’ultimo, quanto abbagliante di cupo candore il qui presente “Damnation”, lavoro che ricolma di solitudine e riflessiva introspezione le lyrics di Mikael, addolcitesi rispetto al parto precedente. Alcune composizioni sono da brivido e non sfigurerebbero affatto se passate a raffica su qualche radio più commerciale: “In My Time Of Need”, “Death Whispered A Lullaby”, “Hope Leaves”, conservando tutta la magia classicamente opethiana, dimostrano come la band sia arrivata ad una maturità compositiva assolutamente fuori dai canoni metal, per andare ad abbracciare in pieno il prog-rock degli anni d’oro. Assoli ricchi di pathos, linee di basso chiare e distinte, una batteria precisa e puntuale, arpeggi ricercati e coinvolgenti, l’appoggio del mellotron sempre utile e distintivo: poche sbavature presenta “Damnation”, se non quella di non essere di certo immediato, bensì di piuttosto difficile assimilazione, soprattutto per il metallaro medio, un po’ meno per il fedele fan del gruppo. La meravigliosa “Weakness” dà il colpo di grazia finale alle speranze di gioia ed allegria, presentando un suono tristissimo e rassegnato e preannunciando l’imminente Fine. Splendido affresco dalle grigie sfumature, disco da ascoltare nelle serate di solitudine e pensieri, quando le amarezze della Vita vengono tutte a galla. Esperimento pienamente positivo, dunque, ed altro pesante blocco di marmo puntellato verso l’ascesa all’Olimpo del metal.

OPETH – GHOST REVERIES

OPETH - Ghost Reveries
“Ghost Reveries”, ottava fatica degli Opeth, è il primo disco, dai tempi di “My Arms, Your Hearse”, che Mikael Åkerfeldt e la band al completo riescono a comporre con un minimo di studio alle spalle, tempo a disposizione per ri-arrangiare al meglio i brani e raccogliere le migliori idee, tranquillità operativa per incanalare l’ispirazione su traiettorie realmente qualitative e non solo meramente quantitative. Il gruppo, con “Deliverance” e “Damnation”, ha ormai raggiunto un altissimo status all’interno della scena metallica mondiale, eppure, pur sempre confermando il songwriting superiore alla media, il rischio di cullarsi fra le proprie braccia è parecchio alto. La Music For Nations ha cessato di esistere, quindi i quattro svedesi, ai quali va ad aggiungersi in pianta stabile il bravissimo tastierista Per Wiberg, sono senza casa discografica: certo non si tratta di un problema, anzi…gli Opeth possono pure permettersi di scegliere a piacimento quale etichetta privilegiare, soprattutto perché consci di aver un album pronto davvero con i controfiocchi! La Roadrunner è la label prescelta, nel cui roster i nostri sembrano quasi stonati, praticamente unica band a proporre un tipo di musica diversa dal nu-metal o dal metal-core iper-trendy. Evidentemente, nessuna pressione è stata fatta su Mikael e soci, altrimenti difficilmente essi avrebbero optato per una casa pretenziosa ed arrogante. Fatto sta, comunque, che gli Opeth sfornano un lavoro magicamente superlativo: Steven Wilson questa volta non interviene, Travis Smith è confermato all’artwork, mentre gli studi di registrazione sono i Fascination Street di Orebro; ma quello che meraviglia oltre ogni più rosea previsione è la bellezza genuina, nuova e freschissima dei brani contenuti in “Ghost Reveries”, per chi scrive l’unico, vero successore di Capolavori quali “Morningrise” e “Still Life”. Il disco è innanzitutto molto vario, in quanto, prendendo parecchi spunti da “Damnation”, la band scrive pezzi atipici e del tutto originali, quali “Atonement”, “Hours Of Wealth” e “Isolation Years”, episodi semi-acustici da pelle d’oca, vuoi per le ottime melodie proposte, vuoi per la splendida voce pulita di Åkerfeldt. E questa continua alternanza – non più solo all’interno della canzone, ma anche proprio fra un brano e l’altro – rende più efficaci e redditizie anche le classiche soluzioni opethiane, presenti ad esempio in “Ghost Of Perdition”, “The Baying Of The Hounds” e nell’epica “Reverie/Harlequin Forest”. Discorsi a parte li meritano la strana “Beneath The Mire”, nella quale il nuovo arrivato Wiberg regala nuove, sgargianti sfumature al suono della band, utilizzando la sua capacità sui tasti (che siano di un pianoforte, di un organo o di un mellotron) in modo sempre vario e perfetto, e la memorabile “The Grand Conjuration”, pezzo scelto come singolo per promuoverlo attraverso la nuova label: ed è incredibile come gli Opeth abbiano scritto, mantenendo intatte le caratteristiche e le atmosfere a loro congeniali, una composizione del tutto accessibile e rientrante pienamente nell’ottica moderna dell’etichetta. “Ghost Reveries” è certamente, per ora, il disco definitivo degli Opeth, il platter nel quale ogni sfumatura dei lavori passati è contenuta, ampliata e perfezionata. Termine provvisorio di una carriera fra le più fulgide della storia dell’heavy metal, che si spera possa proseguire ancora per tanti anni e per tanti dischi. Il cammino degli Opeth è sempre stato in lenta mutazione ed ogni passo successivo ha portato piccole novità rispetto al precedente. Migliorarsi, scavalcando l’apice di questo lavoro, sarà ostico e difficile, ma siamo certi che Mikael, Peter e gli altri pard ci tenteranno, sempre e comunque.

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