A cura di Federico Orano
Quando si dibatte sulle band che hanno fatto la storia del metal tricolore, il nome Labyrinth deve per forza saltare fuori. Il gruppo fondato ormai nel lontano 1994, arriva proprio quest’anno alla soglia dei trent’anni di attività: tre decadi che brillano sulla classe di questi musicisti che tra tanti alti e qualche basso, sono da sempre sinonimo di qualità.
Non certo uno di quei gruppi concentrati su guadagni e mode, spinti da etichette discografiche a stampare un disco ogni dodici mesi, ma anzi, la classica band che ha da sempre messo al primo posto il desiderio di scrivere buona musica per sé e per i fan (e ciò ha anche un po’ pesato sul successo commerciale dei Nostri). E se qualcuno si è perso qualche pezzo ed identifica ancora i Labyrinth unicamente con quel capolavoro che li rese celebri nel 1998 a nome “Return To Heaven Denied”, be’, dovrebbe scoprire anche le produzioni più recenti: l’ultima in ordine cronologico risponde al nome di “Welcome To The Absurd Circus”, disco che è riuscito a colpire grazie alla sua grande carica.
Sbarcati da qualche tempo sotto la guida dell’etichetta partenopea Frontiers, in occasione del ritorno live dopo diverso tempo, per uno show al Druso di Bergamo, siamo stati invitati per un pre-ascolto del nuovo album in uscita il prossimo gennaio ed intitolato “In The Vanishing Echoes Of Goodbye”.
Subito dopo il soundcheck infatti, il cantante Roberto Tiranti si è preso in carico la presentazione di questo nuovo lavoro, ancora una volta registrato ai Domination Studio di Simone Mularoni.
Stavolta però, come si evince anche discutendo dopo l’ascolto con il chitarrista Olaf Thorsen e con il talentuoso batterista Matt Peruzzi, la registrazione ha voluto essere più naturale, distaccandosi quindi dal classico sound pomposo che è di moda ultimamente e dagli arrangiamenti più moderni che caratterizzano invece il sound dei cugini Vision Divine, di recente protagonisti con il nuovo “Blood And Angels’ Tears”.
Un disco composto, come detto da Andrea Cantarelli mentre si scambiavano due pareri dopo lo show, senza porsi limiti: arrivati a questo punto della carriera, questi musicisti hanno realizzato, ancor più che in passato, di voler scrivere musica seguendo il proprio istinto e i propri gusti personali, senza troppi calcoli e limitazioni.
E le nuove tracce che abbiamo avuto l’onore di ascoltare in anteprima – senza un impianto audio adeguato, a dire la verità – hanno inserti thrash molto marcati, con alcuni momenti davvero aggressivi ed atmosfere a tratti cupe, come non si è mai sentito nel passato del gruppo italiano. Non manca qualche coro più possente ed epico, con tastiere utilizzate più in fase di arrangiamenti che soliste ed un approccio chitarristico da parte di Olaf più classico, sempre tecnico ma meno concentrato sulla velocità di esecuzione. Tutto ciò però segue il classico ‘trademark Labyrinth’ con melodie imponenti, brani costruiti come sempre sul lavoro delle due chitarre suonate dal duo Cantarelli-Thorsen e la solita prova straordinaria di Roberto dietro al microfono.
Premesso che, al momento, l’etichetta non ha ancora rivelato la data di pubblicazione precisa, nè tantomeno l’artwork e altre informazioni più dettagliate riguardanti il disco, ecco a voi qui di seguito le nostre sensazioni, brano per brano, dopo un solo ma attento ascolto di questo prossimo disco in studio intitolato, “In The Vanishing Echoes Of Goodbye”.
LABYRINTH
Olaf Thörsen – Chitarre
Andrea Cantarelli – Chitarre
Roberto Tiranti – Vice
Nik Mazzucconi – Basso
Oleg Smirnoff – Tastiere
Matt Peruzzi – Batteria
IN THE VANISHING ECHOES OF GOODBYE
Data di uscita: Gennaio 2025
Etichetta: Frontiers Records
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1. Welcome Twilight
Il disco si apre sulle tastiere imponenti di Oleg, sulle quali si adagiato ben presto le chitarre del duo Cantarelli-Thorsen che poi esplodono alzando i decibel, mentre quando entra Roberto lo fa con una grinta eccezionale.
Ciò che sorprende è l’utilizzo di alcuni cori epici, che mai la band aveva mostrato prima, insieme a cambi di tempo scroscianti che conducono ad un gran refrain. I classici istinti progressivi non si fanno mancano nella fase strumentale, e l’assolo di Smirnoff è tumultuoso prima dei soliti intrecci di chitarre, per ritrovare di nuovo i cori ed il ritornello, prima di un finale più oscuro e ritmato.
2. Accept The Changes
Un vorticoso incedere, spinto dal drumming pulsante di Peruzzi, si trasforma presto in un brano tiratissimo, con Tiranti ancora prontissimo a colpire con energia fin dal suo ingresso e al quale fanno da contraltare nel bridge alcune melodie vocali soavi, classiche dei Nostri.
Durante il ritornello si torna a pestare forte con il basso di Mazzuconi a dare corposità al sound, mentre riffoni da headbanging esplodono con decisione; successivamente, compare il classico stacchetto con l’arpeggio di chitarra che fa da preludio ad una ripartenza terremotate.
Roberto ancora sugli scudi infrange qualche specchio durante l’ultimo acuto, circondato però da atmosfere anche qui piuttosto tenebrose.
3. Out Of Place
Finalmente si può tirare un sospiro di sollievo con le sonorità cadenzate di questo brano: armoniche ed arpeggi di chitarra, melodie vocali romantiche e speranzose accompagnano una power ballad – che segue un po’ la via della nota “The Night of Dreams” da “Return To Heaven Denied” – capace di esplodere con vigore durante un ritornello abbastanza classico per la band.
Roberto ancora protagonista con un’interpretazione magistrale; nella fase centrale, un’inaspettata accelerazione dai connotati thrash risveglia quei pochi che si stavano assopendo. L’assolo di Cantarelli è intenso e va ascoltato ad occhi chiusi, ma poco dopo parte Olaf alzando i decibel e riaprendo la via al ritornello conclusivo.
4. At The Rainbow’s End
Un riff potentissimo, che potrebbe ricordare la famosa “Thunder” – tumultuoso pezzo di “Return To Heaven Denied” – si scaglia con veemenza sui ritmi powereggianti di questa composizione.
Un approccio quasi teatrale di Tiranti al microfono accompagna per mano il pezzo fino al ritornello, dove la sua voce è avvolta da cori angelici che donano una sorta di aurea celestiale, sostenuta comunque dalla doppia cassa di Matt che non fa mancare la propria irruenza.
Nella fase centrale, le tastiere di Oleg danzano su sonorità in stile dance anni ’80, mentre le chitarre viaggiano vertiginose. Un pezzo da novanta, che possiede un forte impatto ma capace di mischiare molte sonorità e che necessiterà probabilmente di diversi ascolti prima di essere apprezzato e compreso pienamente.
5. The Right Side Of This World
La voce angelica di Roberto apre un brano che scopre subito le sue carte, più melodico e dagli istinti AOR ma comunque tumultuoso, grazie alla carica trasmessa dalla batteria vigorosa del solito Peruzzi e dalle chitarre corpose, mentre tappeti di tastiere sono sempre presenti e usati con efficacia. Un brano che ci ha ricordato “The Sailors Of Time” (pezzo contenuto in “Return to Heaven Denied Pt. II – A Midnight Autumn’s Dream”) e che non ci stupirebbe venisse scelto tra i singoli da proporre ai fan in anteprima, durante la fase promozionale del disco.
6. The Healing
Ritmi controllati accompagnano un brano cristallino come “The Healing”: anch’esso potrebbe essere catalogato come power ballad, seppur l’energia è subito palpabile.
Il basso dona una dose di vigore durante la strofa, così che poi le chitarre elettriche possano farsi sentire entrando in campo con decisione durante il refrain.
Nella fase centrale Peruzzi e Tiranti salgono in cattedra, il primo con giri di batteria e cambi di tempo degni di nota, il secondo con la sua solita ed infinita classe.
In generale le influenze progressive si fanno sentire, più che negli altri brani ed in particolare per quanto riguarda la sessione ritmica.
7. Heading For Nowhere
Si torna a pestare con ritmi prog/thrash che invadono l’ascolto con determinazione su una partenza che trova tastiere dal sound moderno, il basso che rimbalza con decisione e chitarre aggressive alla Annihilator.
I ritmi rallentano un attimo durante la strofa salvo poi, senza preavviso, esplodere su il ritornello altamente ricco di energia. Riff stoppati inducono ad un intenso headbanging, gli assoli di chitarra esplodono con fermezza intervallati da un breve intermezzo di tastiera. Un pezzo furioso!
8. Mass Distraction
La canzone parte robusta con riff possenti, salvo rallentare quando fa il suo ingresso Roberto. Melodie vocali taglienti portano ad un ritornello più arioso e spensierato, le chitarre entrano in pista con decisione subito dopo tirando senza remore e andando a braccetto con le note di basso ancora una volta incisive.
Un brano forse un po’ troppo canonico che, al primo ascolto, fatica a lasciare il segno all’interno della tracklist nonostante un ritornello invitante. La sensazione è quella di avere tra le mani uno dei brani più canticchiabili e di facile ascolto all’interno del disco.
9. The Son I Never Had
La vera ballata del disco arriva a questo punto con un brano introspettivo e personale scritto da Tiranti. Un pezzo patinato, dai tratti malinconici, che non disdegna qualche schitarrata possente che arriva puntuale subito dopo la strofa.
Sono le armonie di chitarra a farla da padrone, e poi un ritornello che già al primo ascolto da la sensazione di qualcosa che ben presto entrerà con prepotenza nel cuore e nella mente di chi lo ascolterà. Da applausi anche gli assoli intensi di chitarra che si dilungato un po’ per preparare il terreno fertile prima della conclusione, dove il bel refrain viene ripetuto con sentimento.
10. Inhuman Race
Riff possenti e terremotati si fanno strada passo dopo passo, e le tastiere di Oleg invocano cambi di ritmo, sonorità oscure ed una parte strumentale che si dilunga per un paio di minuti. Che partenza!
Tiranti si lancia su linee vocali taglienti toccando note altissime: il sound corposo continua senza sosta ed il cantante genovese non si risparmia un secondo lanciando acuti terremotanti. La band dà il meglio di sè unendo sonorità prog, thrash, power ed heavy con la solita classe, attorniando il tutto con melodie tutte da cantare.
Il pianoforte trova spazio nella fase centrale durante uno stacco piacevole assieme alle voci celestiali cantate da Roberto.
Dopo le sfuriate strumentali, il finale torna sui binari più classici, per una canzone che si aggira attorno ai sette-otto minuti di durata e che sorprende fin da subito.
Non nascondiamo che “Inhuman Race” ci è sembrato fin da subito un brano esaltante e vincente, forse il più interessante dell’intero ascolto.