Dopo ben sei anni di relativo silenzio, gli Stormlord questo mese tornano con “Far”, un nuovo album dalle notevoli sfaccettature, alfiere della ormai nota e consolidata miscela di epic e death-black metal cara alla formazione capitolina. In una carriera lunga ormai quasi tre decadi, gli Stormlord sono passati attraverso vari cambi di line-up e di approccio stilistico, restando però sempre fedeli ad un sound che prevede un continuo dialogo fra violenza e maestosità. Per celebrare la pubblicazione della suddetta nuova prova in studio – che verrà presentata dal vivo all’imminente Metalitalia.com Festival del 1 giugno – ripercorriamo la discografia della band con l’aiuto dello storico bassista Francesco Bucci.
Dopo avere ospitato i Novembre, i Necrodeath e i Cripple Bastards, la nostra rubrica “Le Introspettive” – nella quale i gruppi vengono chiamati ad ordinare i loro album dal meno al più riuscito fra commenti e aneddoti – ritorna con una puntata dedicata ad un altro nome storico del metal tricolore.
5. SUPREME ART OF WAR (Last Episode, 1998)
– Ho sentimenti contrastanti nei confronti del nostro album di debutto, ma credo che questa sia una condizione comune ad ogni band.
Da una parte ne vado molto orgoglioso perché, oltre segnare il nostro battesimo del fuoco sulla lunga distanza (il progetto Stormlord, infatti, esiste dal 1991 ed, al momento della pubblicazione del debutto, già aveva alle spalle due demo, due mini CD e parecchia attività live), sancisce il mio ingresso ufficiale nella line-up, sia come musicista che come compositore. La mole di ricordi legata a questa release, pertanto, ha un peso enorme e mi rende difficile scindere il lato emotivo da quello professionale.
Da un altro punto di vista – e non poteva essere altrimenti, vista la nostra inesperienza ai tempi – vari aspetti del disco appaiono oggi poco curati e fortemente immaturi, in primis l’aspetto grafico e la produzione. Quest’ultima, in particolare, penalizza l’ottima performance di Cristiano che, a mio avviso, ha saputo imporsi sin dall’inizio come uno dei cantanti estremi più versatili della scena.
Nonostante ciò, “Supreme Art Of War” ha saputo imporsi con il tempo come un vero e proprio disco di culto e, tuttora, mi capita di vederlo citato come ispirazione quando, in articoli della stampa di settore o in interviste di nuove leve, l’argomento vira su un certo tipo di black metal epico.
Si tratta di un lavoro molto spontaneo, composto in due tranche separate senza farsi troppi problemi e evitando di porre alcun tipo di veto: impazzivamo per il black metal più grezzo, ci piaceva il thrash ed il death, nascevamo con l’heavy metal classico, inoltre le colonne sonore di Basil Poledouris e le atmosfere medievali ci facevano sognare, quindi perché non provare a fondere il tutto per creare quella musica che noi stessi avremmo voluto ascoltare? I mezzi e le possibilità erano scarsi, ma il cuore era grande e la volontà di non sprecare la chance fornita dalla Last Episode (etichetta tedesca che aveva messo sotto contratto una band italiana, situazione molto rara ai tempi) era granitica.
Credo che questa voglia di spaccare il mondo e questa ‘gioiosa anarchia’ siano ancora ben evidenti fra i solchi di “Supreme Art of War”.
4. AT THE GATES OF UTOPIA (Scarlet Records, 2001)
– Preceduto dall’EP “The Curse of Medusa”, che sostanzialmente ne anticipa le sonorità, il nostro secondo disco risponde alla domanda più difficile: ed ora?
Con “Supreme Art of War” avevamo creato di getto una via particolare al metal estremo, un po’ andando a tentoni, un po’ seguendo esclusivamente il cuore. Al momento di tornare in studio, però, sapevamo di dover procedere in maniera più ordinata, mettendo al servizio del nostro sound l’esperienza acquisita in conseguenza della promozione del disco e dei successivi tour europei.
Forti della collaborazione con Giuseppe Orlando, che da questo momento sarebbe diventato il nostro fonico studio e live e con cui fra poco festeggeremo venti anni di collaborazione, abbiamo affrontato la produzione del disco in maniera più analitica, curando maggiormente le parti strumentali e gli arrangiamenti e dedicando più attenzione alla forma-canzone.
L’album in questione ha saputo ritagliarsi una buona nicchia di ammiratori fra il nostro pubblico, sia in virtù di una approccio più tecnico, dove il nostro amore per il thrash ed il death metal risultava evidente, sia grazie ad una serie di canzoni, come “I Am Legend” (il nostro primo videoclip), “The Curse Of Medusa” e “Xanadu”, che sarebbero diventate una presenza fissa delle nostre setlist live per gli anni a venire.
Anche alcuni episodi meno conosciuti, come “A Sight Inwards” o “The Secrets Of The Earth”, ricoprono una certa importanza per la nostra evoluzione in quanto, spingendoci ad uscire dalla confort zone, sono serviti in seguito come modelli ed ispirazione per brani più complessi quali “Wurdalak”, “Neon Karma” o “Those Upon The Pyre”.
Per me questo disco rappresenta l’inizio di un percorso che ancora non è arrivato al termine, nel quale l’istintualità degli esordi inizia ad essere mediata da una presa di coscienza della propria personalità (e non è un caso la massiccia presenza di riferimenti legati alla tradizione classica, come la mitologia e la storia legata all’antica Roma ed alla Grecia, che da questo momento in poi caratterizzeranno la nostra immagine e gran parte dei nostri testi).
3. HESPERIA (Trollzorn, 2013)
– “Hesperia” è molte cose: un progetto ambizioso, il nostro definitivo tributo allo stile che amiamo chiamare extreme epic metal ed alla cultura classica, nonché lo specchio di un periodo non particolarmente semplice per la band.
All’indomani del nostro disco più celebrato, “Mare Nostrum”, ci siamo ritrovati senza contratto (la precedente etichetta era stata assorbita da una major e, di lì a poco, smembrata) e con dei grossi problemi di line-up da risolvere al più presto. Queste preoccupazioni, unite alla pressione di dover dare seguito ad un disco che noi stessi ritenevamo essere il picco più alto che la band potesse raggiungere, gravarono in maniera sensibile sul futuro degli Stormlord. Ne uscimmo, dopo qualche tempo e con una formazione rimaneggiata che tuttora resiste, nell’unica maniera possibile: puntando alle stelle ed impegnandoci nella composizione di un concept album basato sui primi sei libri dell’Eneide di Virgilio.
Le difficoltà uniscono, quindi perché non aumentarle esponenzialmente per ritrovare l’anima della band, piegata da anni di incertezza contrattuale ed andirivieni di musicisti (tutti validissimi, sia dal punto di vista musicale che personale, ad onor del vero)?
Così facemmo. Cambiammo aria siglando un contratto con la tedesca Trollzorn, che ci garantì una maggiore esposizione in terra tedesca e qualche data nei festival estivi, ed impiegammo una quantità di tempo spropositata nel curare ogni dettaglio per quello che si sarebbe rivelato essere il nostro progetto più complesso e strutturato.
Nessun esperimento fu lasciato da parte: brani dal flavour elettronico cantati in italiano, testi in latino declamati in screaming secondo la metrica originale, conchiglie e sabbia del Tirreno utilizzate come maracas per accompagnare la batteria di David Folchitto, questo oltre ad ogni tipo di strumento etnico, dal launeddas sarda all’oud arabo ed alla mandola medievale.
Col senno di poi ho notato che questa espansione delle nostre sonorità verso lidi che potrei definire (non in senso stretto) ‘progressivi’ lasciò un po’ indietro la parte più aggressiva del nostro sound; questo è forse il maggior difetto che imputo ad un disco che, per molti altri versi, continuo ad amare moltissimo.
“Hesperia” per me rimarrà sempre un capitolo a parte della nostra discografia, forse il meno immediato ma anche il più vissuto da un punto di vista prettamente ‘artistico’. Ad oggi, ritengo che canzoni come la titletrack e la conclusiva “Those Upon The Pyre” rappresentino due fra i migliori brani della nostra intera discografia.
2. THE GORGON CULT (Scarlet Records, 2004)
– Per lungo tempo ho sottovalutato questo disco poiché, come tutte le cose venute alla luce in maniera abbastanza spontanea, tendevo a darlo per scontato.
Certo, ci sono alcuni dei brani più celebrati della nostra carriera, ci ha portato in giro per mezzo mondo ed, ogni volta che mi è capitato di parlare con un sostenitore degli Stormlord, “The Gorgon Cult” è stato inevitabilmente citato come uno dei nostri album più riusciti. Nonostante ciò, l’ho sempre sentito troppo ‘familiare’, troppo ‘nostro’ per poter dare un giudizio di merito.
E’ solo in tempi recenti che, grazie al continuo confronto con il pubblico che viene garantito dai social, ho iniziato a capire quanto “The Gorgon Cult” venga realmente apprezzato e, soprattutto, quale sia il suo reale valore.
E’ un disco più oscuro rispetto ai due capitoli precedenti, con una produzione che ancora oggi risulta praticamente perfetta ed una tracklist che si dipana per una quarantina di minuti senza annoiare, mostrando una band finalmente conscia delle proprie possibilità e pronta ad evolversi, pur senza tradire il proprio stile.
Se con il secondo disco abbiamo portato agli estremi il lato più epico e melodico della formazione, con “The Gorgon Cult” si torna ad abbracciare il primo amore: quel metal estremo che, negli anni ’90, ci ha folgorato sulla via di Damasco spingendoci a prendere in mano gli strumenti per dire la nostra in quell’affollato panorama musicale che, ai tempi, sembrava ardere di una creatività destinata a non spegnersi mai.
Con il coinvolgimento di Gianpaolo Caprino alla chitarra, arruolato poco dopo la pubblicazione di “At The Gates Of Utopia” e già ampiamente rodato al momento di entrare in studio, le possibilità espressive del nostro songwriting andarono ampliandosi, includendo anche sfumature gothic e dark ad accompagnare le consuete atmosfere magniloquenti.
Sono nati così alcuni dei brani che, ancora adesso, rappresentano l’essenza stessa di Stormlord per un buon numero di ascoltatori: penso all’opener “Dance of Hecate”, ancora gettonatissima in sede live, al midtempo di “Wurdulak”, contraddistinto dalla caratteristica introduzione tratta da un film di Mario Bava, oppure dal nostro secondo – e censuratissimo – videoclip “Under The Boards”, che grazie ad una veste grafica particolarmente estrema portò una buona frangia di appassionati del cinema horror ad interessarsi alla band.
Spero che la recente ristampa, pubblicata da Scarlet Records in una versione arricchita da due bonus track (trattamento riservato anche ad “At The Gates of Utopia”), faccia riscoprire ad una nuova generazione episodi rimasti un po’ in ombra come “Medusa’s Coil” e la conclusiva “Nightbreed”, il cui testo peraltro porta la firma del mio amico Damna degli Elvenking.
1. MARE NOSTRUM (Locomotive Rec., 2008)
– “Mare Nostrum” è l’archetipo di ogni disco Stormlord e la titletrack è il nostro manifesto.
Ogni brano presente nell’album riflette un lato della band che, dopo essere stato affinato negli anni, viene catturato fra questi solchi in maniera cristallina e pulsante.
Se la già citata opener è forse la migliore introduzione che io possa fornire ad un ascoltatore desideroso di scoprire il moniker Stormlord, la più moderna “Neon Karma”, la terremotante “Emet” o la solenne traccia conclusiva, che porta il nome della band, non sono da meno e compongono un mosaico dove il nostro extreme epic metal viene, per la prima volta, mostrato nella sua piena maturità.
Il lavoro, come altri nella nostra storia, è stato concepito in un momento di grande difficoltà dovuto alla infruttuosa ricerca di un tastierista di ruolo che potesse rimpiazzare Simone, volato negli U.S.A. per iscriversi al prestigioso Berklee College Of Music (sì, proprio quello dei Dream Theater), dove oggi lavora in qualità di insegnante. Dopo anni di ricerche vane, non tanto per i musicisti coinvolti quanto per una generale indecisione della band, trovammo la forza di fare quadrato e di registrare il disco con la posizione di tastierista ancora vacante.
Il comportamento di Gianpaolo, in particolare, fu esemplare e rappresentò la scintilla che portò alla creazione del disco nel momento in cui lui si fece avanti per curare tutti gli arrangiamenti di tastiere, oltre alle sue partiture di chitarra. Fu come sentir suonare la carica: la nostra creatività esplose e le bozze dei pezzi, che giacevano da mesi incompleti, si trasformarono velocemente nelle migliori canzoni composte fino a quel momento. Che si trattasse di scrivere un brano di black metal suonato solo con le chitarre acustiche, come nel caso di “The Castaway”, o di declamare dei versi di Dante in growl, e qui mi riferisco ad “…And The Wind Shall Scream My Name”, nulla sembrava spaventarci.
Come il karma insegna, l’energia positiva si autoalimenta ed in breve non solo riuscimmo a firmare per una nuova etichetta che appariva assai promettente, ma venimmo in contatto per la prima volta con un promettente illustratore, l’ungherese Gyula Havancsák, che da quel momento in poi ha firmato tutte le nostre cover (oltre a quelle di mezza scena metal), interpretando come nessun’altro lo spirito che anima Stormlord.
Fuori concorso: FAR (Scarlet Records, 2019)
– Il nuovo disco è sempre il migliore per ogni musicista, sarebbe grave se non fosse così. Non vorrei mai dare alle stampe un lavoro che, nel periodo immediatamente successivo alla pubblicazione, non ritenessi rappresentare la summa delle caratteristiche migliori del nostro sound.
Quando, come nel nostro caso, la musica rappresenta esclusivamente un veicolo di passione e poco o nulla incide dal punto di vista economico, il significato stesso dell’esistenza del gruppo assume senso solo nel momento in cui si produce qualcosa capace di soddisfarci completamente.
Non ci sono obblighi contrattuali, c’è solo la voglia di comporre un altro bel disco: “Far” non fa eccezione. Dopo le atmosfere complesse e rarefatte di “Hesperia”, è stato per noi naturale elaborare un sound più diretto, dove gli arrangiamenti stratificati del precedente capitolo potessero incontrare la velocità esecutiva e l’impatto di dischi come “Mare Nostrum” e “The Gorgon Cult”.
La solidità della line-up, con Andrea Angelini e Riccardo Studer oramai ben ambientati, ci ha permesso di lavorare in autonomia, registrando e sviluppando i pezzi direttamente nei Time Collapse Recording Studio di Riccardo, per poi completare l’opera nei “soliti” OuterSound studio di Giuseppe Orlando, senza essere eccessivamente vessati da impedimenti temporali ed economici.
Al resto ha pensato Scarlet Records, con cui abbiamo nuovamente firmato dopo dieci anni di assenza e, lasciatemelo dire, mai come in questo caso è stato come tornare a casa. Insomma, c’è tutto Stormlord qui dentro: dalle sfuriate orchestrali dell’opener “Leviathan”, scelta come primo singolo, alle atmosfere sognanti di “Cimmeria”, passando per la melodia della titletrack, per l’assalto all’arma bianca di “Mediterranea” o “Vacuna” o per gli ariosi arrangiamenti della conclusiva “Levante”, ogni nota serve a presentarci nel 2019 con una veste rinnovata che, però, non dimentica il proprio passato.
C’è l’orgoglio di aver cercato di perseguire una via italiana, o sarebbe meglio dire, mediterranea, al metal estremo, portando le nostre leggende, le nostre tradizioni ed i nostri racconti in un ambiente che, troppo spesso, ha come unico riferimento stilistico i paesi del Nord Europa. Se ci siamo riusciti o meno non è compito nostro giudicarlo. L’importante è che, dopo quasi trent’anni di carriera, siamo ancora qui a descrivere il nuovo album con l’entusiasmo di una band agli esordi.