Pur venendo spesso considerati, almeno inizialmente, un progetto parallelo, i Vision Divine sono riusciti a diventare una delle punte di diamante della scena power metal italiana e mondiale, realizzando una lunga serie di album sempre più influenti e, al contempo, facendo fronte e superando svariati imprevisti e importanti cambi di formazione. Ripercorriamo una carriera ormai ventennale e una discografia sempre più corposa con il disponibilissimo chitarrista Olaf Thörsen.
Dopo avere ospitato gli Stormlord, i Novembre, i Necrodeath e i Cripple Bastards, la nostra rubrica “Le Introspettive” – nella quale i gruppi vengono chiamati ad ordinare i loro album dal meno al più riuscito fra commenti e aneddoti – ritorna con una puntata dedicata ad un altro nome storico del metal tricolore.
7. 9 DEGREES WEST OF THE MOON (Frontiers, 2009)
Questo è sicuramente l’album che mi ha lasciato più rimpianti, per come è stato realizzato e per quanto differente si è rivelato, alla fine, rispetto a quello che avevo programmato ed immaginato in fase di scrittura.
Timo Tolkki, che era stato nuovamente incaricato di lavorare con noi come produttore, questa volta decise di dare una svolta più da “garage band” al lavoro. Ci “costrinse” a registrare contemporaneamente batteria, basso, chitarra, suonando tutti assieme in tre sale diverse, in modo da riprendere almeno in parte un feeling ‘live’. Lo stesso Fabio Lione, che nel frattempo era rientrato nel gruppo, sostituendo Michele Luppi, dovette cantare tutto l’album in un giorno, con un’attitudine ‘buona la prima’.
Ci furono alcuni attriti già durante le registrazioni, fino a quando Tolkki tornò in Finlandia come programmato, per mixare l’album. In quel momento iniziarono i veri problemi: realizzò un mix che definire insufficiente è poco, arrivando anche ad eliminare la quasi totalità delle chitarre acustiche o clean che avevo registrato (ad esempio, quando suoniamo “Violet Loneliness” dal vivo, suono delle parti di clean che vennero rimosse dal disco). Il risultato mi lasciò completamente insoddisfatto, specialmente per come si erano logorati i rapporti umani tra noi e Timo. Avevo preso la decisione di remixarlo altrove, ma non ci fu possibile, perché scoprimmo che Timo aveva eliminato tutti i file dall’hard disk dello studio e tutt’oggi non ho più niente di quelle registrazioni. L’unica soluzione sarebbe stata di ri-registrare tutto, ma sia per motivi di budget che di tempistiche (ormai l’uscita era già stata programmata), Frontiers decise che non era una strada percorribile e ci dovemmo arrendere.
Non lo ritengo un album brutto, vorrei essere chiaro, ma mi rimane veramente l’amaro in bocca perché so come avrebbe potuto e dovuto suonare e chiaramente non corrisponde a quello che è presente su CD.
Aneddoti:
– In questo caso, tutto l’album è un aneddoto e ho già raccontato tutto.
6. SEND ME AN ANGEL (Atrheia, 2002)
Un disco dal sapore agrodolce. Se da un lato contiene alcuni brani preferiti dal nostro pubblico (non ultimo “Send Me an Angel”, il brano piu richiesto della nostra storia), purtroppo all’epoca entrammo in studio portandoci dietro molti dei miei problemi, che stavo affrontando con Labyrinth.
Era il periodo in cui stavo per prendere la decisione di lasciare la mia band originale e i Vision Divine, che avevano in formazione anche Mattia Stancioiu alla batteria e Andrea de Paoli alle tastiere, non potevano rimanere fuori da questa tempesta. Il risultato fu che le registrazioni, eseguite sempre negli stessi studi del primo album, non andarono completamente lisce come in passato e capitò spesso di trovarci con dei tempi morti, perché alcuni musicisti non si presentarono in sala nei tempi prestabiliti (nessun litigio, ma era semplicemente un momento delicato per tutti). Ricordo ancora quando mi sono dovuto mettere alle tastiere per completare la cover di Take on Me, perché ormai stavamo andando troppo lunghi.
Aneddoti:
– In studio passarono diversi amici/colleghi, tra cui Kiko Loureiro, con cui stavo realizzando un progetto (mai uscito, non so perché) per un album, che avrebbe dovuto coinvolgere anche Dave Lombardo e Mike Patton, di techno-thrash ‘latino’… una cosa folle! Kiko, durante la pre-produzione, registrò una traccia sul brano “Pain”, che purtroppo poi andò persa durante le registrazioni finali (ricordo che non registravamo in digitale, ma su nastro analogico).
– Un altro chitarrista-amico, che passò dallo studio, fu Stefano Brandoni, all’epoca chitarrista di Renga e Grignani, che, ascoltando il brano “The Taste of a Goodbye”, mi chiese di poter registrare qualcosa, perché il brano gli piaceva tantissimo e alla fine lo potete ascoltare suonare su tutto il pezzo, una delle due chitarre.
5. THE PERFECT MACHINE (Scarlet, 2005)
Dopo il successo di “Stream of Consciousness” avevamo molta pressione, che arrivava un po’ da tutte le parti: la Scarlet Records ovviamente si aspettava un lavoro altrettanto valido, i fan avrebbero voluto che continuassimo sulla stessa linea del precedente lavoro, i giornali stessi, in fondo, si aspettavano di vedere cosa avremmo realizzato.
Decidemmo di cambiare leggermente formula, a partire dal concept lirico, per la prima volta più ‘fantascientifico’.
Questo album è tutt’oggi uno dei miei preferiti e venne molto apprezzato un po’ da tutti. È sicuramente stato uno dei periodi più produttivi della band, avevamo idee su idee e sinceramente eravamo molto soddisfatti di come le cose stavano andando. Sapevamo di aver realizzato un altro ottimo lavoro, ne eravamo certi fin dal primo ascolto, a mix finito, in studio.
Aneddoti:
– Eravamo molto soddisfatti dell’album e di come stava venendo in studio, ma ci furono dei problemi non indifferenti che mi costrinsero a dovermi impegnare in prima persona anche in studio, per far sì che potessimo arrivare alla fine. In particolare, questo fu il primo album in cui avremmo dovuto avere Timo Tolkki come produttore. In effetti, venne in Italia ed iniziò a registrare le batterie, che in effetti riuscì a completare. Purtroppo, però, si sentì male al termine delle sessioni e fu costretto a rientrare in Finlandia, per motivi di salute. Questo ‘mi costrinse’ a mettermi nel ruolo di produttore e a continuare le registrazioni da solo, con l’aiuto di Luigi Stefanini dei New Sin, che mi diede un aiuto incommensurabile, per cui lo ringrazierò in eterno.
– Sempre a causa dei problemi di cui sopra, Michele non riuscì ad inviarci tutte le sue tracce di voce, chiedendo di posticipare il mixaggio dell’album. Dato che la cosa era irrealizzabile, a causa di altre prenotazioni attive, ogni mattina mi alzavo alle 4 e da Loria (Treviso) partivo verso Reggiolo, dove Michele aveva il suo studio. Prendevo le tracce che era riuscito a completare, tornavo in studio a Treviso e cominciavamo a mixare quello che avevamo. La cosa andò avanti cosi, ogni singolo giorno, fino alla fine del mixaggio! Un vero delirio, ancora oggi non so come io possa essere riuscito a farlo!
4. VISION DIVINE (Atrheia, 1999)
Il nostro primo album, nato in una maniera alquanto strana: inizialmente ‘progettato’ per essere un album quasi interamente strumentale e poi, al momento di aggiungere un paio di brani cantati e con l’arrivo-ritorno di Fabio, la decisione finale di riadattare tutto affinché diventasse un vero e proprio album completo, realizzato da una vera e propria band.
L’album andò benissimo (molto meglio anche di quello che la gente oggi ricorda o comunque immagina), anche se tutt’oggi, ripensandoci, mi rimane quell’amaro in bocca al solo pensare a tutte le singole interviste, in cui dovevamo specificare che NON eravamo un progetto occasionale, ma una vera e propria band. All’epoca, giovani e ingenui, non avevamo ancora capito come funzionava il cosiddetto business, che in particolare tendeva ovviamente a spingere sulle nostre band ‘originali’ (Rhapsody e Labyrinth) e a minimizzare Vision Divine, appunto, come se fosse stato un progetto estemporaneo.
Registrammo tutto in uno studio specializzato in produzioni dance, su nastro analogico (eh già…).
Aneddoti:
– Mentre Fabio registrava “The Miracle”, passò a trovarci in studio Morby, che venne immediatamente messo dietro al microfono per cantare i cori (gli acuti che si sentono sui ritornelli sono suoi).
– Avendo finito le registrazioni prima del dovuto, ci divertimmo a completare “The Final Countdown”, che però non avrebbe dovuto essere inserita nell’album (la facemmo veramente ‘di corsa’, giusto per utilizzare il giorno già prenotato). Beh, ovviamente è lì in scaletta, che ci guarda da vent’anni.
3. STREAM OF CONSCIOUSNESS (Scarlet, 2004)
Questo è sicuramente l’album più importante della nostra carriera, per dei motivi che credo tutti quelli che ci seguono abbiano seguito. Fu fin da subito un album molto travagliato, innanzitutto perché dopo la mia uscita dai Labyrinth, chiesi agli altri due membri coinvolti in entrambi i gruppi di prendere una decisione e di scegliere una delle due band, in piena libertà. Il motivo era che volevo definitivamente eliminare ogni traccia di band ‘progetto’ e avevo bisogno che questo iniziasse proprio presentando una formazione ufficiale e dedicata a questa band. A seguito delle mie richieste, Mattia e Andrea decisero comprensibilmente di continuare solo con Labyrinth e questo mi permise di far entrare Matteo Amoroso, proveniente dagli Athena, e soprattutto Oleg Smirnoff, che risultò poi fondamentale per far virare il nostro sound verso quelle sonorità che ancora oggi, in qualche modo, ci appartengono.
Quello che non potevo immaginare era quello che sarebbe successo poco dopo…
La storia è semplice: dopo aver realizzato il primo demo di quattro brani, grazie al quale riuscimmo ad ottenere un contratto con Metal Blade e Scarlet Records per l’Italia, iniziammo a programmare le registrazioni vere e proprie e a prenotare lo studio. Un giorno mi ritrovo con un’offerta fatta alla band da parte di Joey di Maio e la sua Magic Circle, interessata a prendere il gruppo nel loro roster e a diventare quindi il nostro management. In principio le premesse sembravano molto interessanti, finché non venne il momento di leggere il contratto vero e proprio, che risultò pieno di clausole per me inaccettabili. In particolare, anche dopo un paio di telefonate che feci a DeMaio, proprio per capire meglio quei punti che non mi convincevano, mi venne confermato che i Vision Divine avrebbero dovuto fermarsi per qualche anno, in modo da lasciare campo ai Rhapsody (che ovviamente condividevano lo stesso cantante, Fabio), i quali avevano già firmato e programmato le prossime mosse con l’agenzia.
Ovviamente per me era impensabile, il dovermi fermare per cosi tanto tempo, specialmente dopo aver appena lasciato Labyrinth ed essendo completamente concentrato sui Vision Divine. In breve, rifiutai la proposta e Fabio, che nel frattempo aveva però già firmato come Rhapsody, fu costretto dalle stesse clausole presenti nella mia offerta ad abbandonare il gruppo, perché non avrebbe mai potuto registrare alcunché.
Ci trovammo così a dover trovare anche un nuovo cantante, con lo studio già prenotato ed alcuni brani che ancora dovevano essere terminati. All’epoca internet non era così come lo conosciamo oggi, ma per fortuna ricevevo decine di demo da ogni parte del mondo, da parte di gruppi e cantanti o musicisti che semplicemente si proponevano per eventuali progetti futuri.
In particolare, mi ricordavo di un cantante Italiano che mi aveva mandato un bellissimo demo di hard rock/AOR… il problema era ritrovare quel CD nello scatolone che tenevo ancora nel mio studio! Fortunatamente, riuscii a trovare quel demo, che al suo interno aveva anche tutti i contatti del caso, quindi telefonai a Michele e ci incontrammo per parlare della possibilità di averlo nel gruppo. La cosa si completò molto velocemente, perché eravamo entrambi molto entusiasti delle possibilità che si aprivano in ottica di sound e completammo i brani rimanenti in un modo molto efficace e veloce, riuscendo ad entrare in studio come programmato.
Alla fine, da essere un gruppo che tutti consideravano definitivamente morto, riuscimmo a tirare fuori un album che mi permetto di considerare ‘capolavoro’, il quale ci aprì tantissime strade e ci permise non solo di rimanere nel giro, ma di fare anche un enorme passo avanti.
Aneddoti:
– prima di scegliere Michele, avevo due cantanti disponibili a cantare l’album. Uno era Mario Linhares, purtroppo scomparso pochi anni fa, della band brasiliana Dark Avenger, l’altro era il compianto Andrè Matos, che era uscito da poco più di un anno dagli Angra e che però era molto concentrato sulla sua band solista. Avrebbe cantato l’album senza problemi, ma non avrebbe potuto garantire la sua presenza per gli eventuali live, cosa che mi fece desistere, a malincuore.
– Durante le registrazioni, chiesi a Michele di cantarmi, sul finale di “La Vita Fugge”, un acuto che richiamasse il finale di “The Way”, degli Stryper. Lui, inizialmente, non era molto convinto della cosa e non sembrò particolarmente propenso a realizzare quanto gli avevo chiesto. Fu cosi che un giorno, in studio, io e Oleg ci mettemmo a montare un paio di suoi acuti e realizzammo una specie di “Frankestein”, costruendo l’acuto cosi come l’avevamo pensato. Mandammo un mp3 a Michele, che a quel punto si convinse della cosa e lo realizzò.
– Originalmente il disco avrebbe dovuto essere un unico brano di circa un’ora e le strutture dei brani non sarebbero state così definite, come poi le si possono ascoltare adesso nel lavoro finito. Le melodie, i riff principali, avrebbero dovuto ripetersi più volte durante la durata dell’album e non sarebbe stato così semplice riuscire ad estrapolare un singolo pezzo dalla sua globalità. Le nostre etichette non si dimostrarono particolarmente entusiaste dell’idea e mi convinsero a mantenere la stesura canonica dei brani singoli, cosa che comunque ancora un po’ rimpiango.
2. DESTINATION SET TO NOWHERE (EarMusic, 2012)
Dopo l’esperienza avuta con “9 Degrees West of the Moon” e grazie alla tecnologia che ormai ci aveva dato la possibilità di avere un nostro studio personale, decidemmo di occuparci personalmente della produzione, delegando solo la questione di mix e mastering a Simone Mularoni nei suoi Domination Studio. La scelta si rivelò vincente, perché riuscimmo a lavorare all’album nel modo migliore, dedicandoci a tutte le parti nel modo dovuto, prendendoci anche delle pause, quando necessario. Fu un modo molto piacevole e rilassante di lavorare, che abbiamo poi replicato anche per l’ultimo album, uscito a fine 2019, che credo sia diventato il nostro modo standard di lavorare.
È stato uno dei nostri migliori album, soprattutto a livello di critica, e ancora oggi suoniamo molti dei suoi brani ai nostri concerti. Siamo veramente molto soddisfatti di come è venuto ed è l’album in cui abbiamo modificato ulteriormente il nostro sound e il nostro modo di comporre, specialmente se paragonato ai nostri primissimi lavori.
Aneddoti:
– Avendo registrato tutto nel nostro studio a Pisa, non sentivamo più alcuna pressione riguardo agli orari e alle tempistiche di consegna, trovandoci paradossalmente ad arrivare perfino troppo lunghi, rispetto alle scadenze. Ci siamo dovuti imporre nuove regole e nuove metodologie di lavoro, per evitare di passare mesi a cazzeggiare.
– Durante una delle serate cazzeggio, tra una pizza ed una birra, mentre stavo seduto sul divano e chiacchieravo con Fabio e Alessio, avevo l’acustica in mano e senza rendermene conto iniziai a strimpellare due accordi, a caso. Fabio smise di chiacchierare ed iniziò a sorridere, chiedendomi di ripetere quello che stavo suonando, lui si mise al microfono e Alessio al piano… quella notte scrivemmo la title track dell’album, “Destination Set to Nowhere”, e l’intro del disco, “S’Io Fossi Foco”. Oggi quel brano è uno dei miei preferiti in assoluto.
– Quando telefonai a Simone, per chiedergli se avrebbe voluto mixare e masterizzare il nostro nuovo album, lui mi rispose così: “Per me sarebbe un onore, ma devo dirti la verità: sono un po’ preoccupato, perché non ci siamo mai conosciuti così bene e, da quel che si sente in giro, non vorrei avere problemi con te, di tipo caratteriale”. La cosa mi fece scoppiare a ridere ed oggi Simone è uno dei miei migliori amici in ambito musicale. Mai credere a quello che ti riportano gli altri!
1. THE 25TH HOUR (Scarlet, 2007)
Questo album avrebbe chiuso la trilogia che avevo aperto con “Stream of Consciousness”. Una trilogia che affrontava il tema della morte da tre differenti punti di vista: con “Stream…” affrontavo il tema del ‘dopo la morte’, cosa c’è dopo e cosa ci succede, con “The Perfect…” affrontavo il tema dell’immortalità, immaginando cosa potrebbe succedere se un giorno potessimo riuscire a cancellare la morte stessa. Con “The 25th…” infine, affrontavo il tema della reincarnazione e decisi di collegare la storia a “Stream…” con lo stesso protagonista, ancora rinchiuso in manicomio dopo quarant’anni.
Questo, probabilmente, è il mio album preferito, tra quelli che appartengono al nostro passato.
Musicalmente, riassume quanto avevamo già presentato con i due album precedenti e vira ulteriormente verso qualche sonorità progressive, per quanto non ci siamo mai considerati una band propriamente tale. È un album scritto esclusivamente tra me e Michele, a causa della decisione di Oleg di abbandonare definitivamente il mondo della musica per scelte personali e private (tornerà ufficialmente a suonare solo moltissimi anni dopo, entrando nei Labyrinth) e vede l’ingresso in formazione di Alessandro Bissa alla batteria, Cristiano Bertocchi al basso (al posto del Tower) e Alessio Lucatti alle tastiere. Ricostruimmo la band quasi da zero, per l’ennesima volta, ma il risultato non risentì minimamente di questo vero e proprio terremoto, perché – come avevo già spiegato – venivamo da un periodo molto fortunato e prolifico, che ci aveva dato modo di programmare attentamente tutto con un buon anticipo.
Aneddoti:
– Timo Tolkki tornò in veste di produttore e questa volta completò tutto il lavoro senza particolari problemi, ai New Sin di Loria ( TV).
– Al momento di registrare la cover che avevamo scelto originariamente, Timo decise che “Still of the Night” dei Whitesnake non era il brano giusto per questo tipo di album e per il nostro tipo di band e lo cambiò, scegliendo “Another Day”, dei Dream Theater. Nessuno di noi conosceva il brano (intendo al punto di poterlo registrare), tranne Alessandro Bissa, che invece l’aveva già imparato per motivi di studio. Proprio la sua risposta “Sì, lo so” convinse Timo a cambiare cover e mi trovai costretto a dover imparare tutte le parti in studio: ascoltavo il pezzo originale, tiravo giù una parte e la registravo subito dopo.
WHEN ALL THE HEROES ARE DEAD (Scarlet, 2019)
Questo lo lascio per ultimo perché, ovviamente, è il nostro ultimo album ed è uscito da pochissimo. Non potrei dare un giudizio sufficientemente neutrale a riguardo, ma posso dire che è stato per l’ennesima volta un album importantissimo per noi, perché abbiamo dovuto rinnovarci ancora una volta, trovando un cantante che sostituisse Fabio, dopo che decise improvvisamente di lasciare il gruppo e dedicarsi ai suoi progetti. Abbiamo fatto una ricerca molto estesa, arrivando ad ascoltare qualcosa come cento cantanti, di cui la maggior parte si erano proposti spontaneamente.
È un album che, pur mantenendo il sound delle nostre ultime cose, torna un po’ alle nostre radici…diciamo che abbiamo deciso di essere un po’ meno prog e un po’ più power, cosa che non facevamo da moltissimi anni. È stato molto rilassante lavorare ai brani e non ci sono state tensioni di alcun tipo. Ivan si è rivelato un cantante di altissimo livello e sono contento per lui, per tutto il duro lavoro che ha dimostrato di dedicare a questa uscita. Attualmente siamo molto soddisfatti di come stanno andando le cose e stiamo già programmando il prossimo futuro.