Ogni nuova uscita dei Leprous si ammanta inevitabilmente di un clima di palpitante attesa: cosa si inventeranno questa volta? Quale nuova alchimia sapranno proporre? Proseguiranno nell’astrazione, oppure torneranno verso una formula più concreta e lineare?
Ed è proprio in risposta a quest’ultima domanda che rileviamo l’ennesima svolta nella carriera dei norvegesi.
Finora, dovendo analizzare la loro discografia, si rilevano sostanzialmente due fasi: quella dall’esordio fino a “The Congregation”, all’insegna di un progressive metal bombastico, carico nella distorsione e nei ritmi, scenografico e altisonante; quella inaugurata da “Malina”, con l’asciugamento degli elementi prog, l’avvicinamento a una specie di dark pop sofisticato ad alto tasso di sinfonia, una formula fattasi sempre più astratta e meno metal coi dischi successivi.
Spintisi quindi molto in là nella decostruzione del proprio suono con “Aphelion”, uscita di grande successo e capace di annettere ulteriori fette di pubblico al gruppo, i Leprous hanno deciso di tornare un poco coi piedi per terra.
Tutte quelle componenti peculiari del disco poc’anzi citato vengono drasticamente ridotte, se non eliminate: a sorprendere rispetto al recente passato, è l’assenza del contributo di violino e violoncello – è interrotta almeno per il momento la collaborazione col talentuoso strumentista canadese Raph Weinroth-Browne – che aveva dato un’impronta molto forte al trittico di album appena precedente.
Ritornano invece ad avere corposità e persino vera pesantezza le chitarre (almeno per metà tracklist), plumbee e severe quando chiamate a trascinare i brani. Anche l’interpretazione vocale del leader indiscusso Einar Solberg si fa meno accentratrice e più misurata, in maggior connessione al lavoro degli strumenti e più ‘dentro’ di essi, invece che a distinguersi come epicentro del racconto in note.
E’ l’elettronica, al contrario, l’attributo più notevole e persistente di “Melodies Of Atonement” e uno dei principali motivi della sua maggior linearità e scorrevolezza, in antitesi a quella difficoltà ad aprirsi, il celarsi, che spesso “Aphelion” proponeva.
I Leprous hanno abituato benissimo, quanto a capacità di superarsi ed esporsi a letture differenti del proprio suono: perché è vero che basta una manciata di note per capire chi siano gli autori di questo “Melodies Of Atonement”, che qui vi raccontiamo traccia per traccia, come è altrettanto vero che, pur con qualche richiamo a quanto già prodotto, il disco rivela idee fresche ed affascinanti, tutte da scoprire e assimilare con calma.
LEPROUS
Einar Solberg – voce, tastiere
Tor Oddmund Suhrke – chitarre
Robin Ognedal – chitarre
Simen Børven – basso
Baard Kolstad – batteria
MELODIES OF ATONEMENT
Data di uscita: 30/08/2024
Etichetta: Inside Out
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01. Silently Walking Alone (04:05)
Secondo singolo, reso disponibile verso fine giugno, rappresenta un’opener più immediata di quelle degli ultimi tre album. Se queste ultime erano l’una per l’altra tracce piuttosto dilatate e intimiste, in contrapposizione ai toni altisonanti sentiti fino a “The Congregation”, “Silently Walking Alone” ha struttura e piglio decisamente più da singolo.
Senza rinunciare alla cura meticolosa per gli arrangiamenti e a soluzioni che sappiano di familiarità ma risultino avvolte di una patina innovativa, il pezzo parte freddo e misterioso, sorretto dall’elettronica, per poi aprirsi a un ritornello potente e immediato.
Lenta, lineare e fremente di energia, “Silently Waliking Alone” cresce di intensità nella seconda parte, mostrando comunque un’architettura semplice e una riuscita alternanza tra sezioni più nervose e altre liberatorie.
02. Atonement (04:49)
Primo singolo, pensato dalla band come un gemello del brano di apertura: anche in questo caso non si concedono né bizzarrie, né emulsioni sonore inizialmente poco decifrabili.
Pur a modo loro e senza ammiccamenti, è chiaro che i Leprous vogliano un approccio più ‘morbido’ ai contenuti di “Melodies Of Atonement”, per concedersi eventualmente esperimenti solo più avanti nella tracklist.
Il pulsare dei beat fa da subdola introduzione, tracciando una linea tremula sulla quale si innestano i sussurri di Solberg. Il ritornello è accorato e potente, con le chitarre a risuonare corpose e massicce, arricchite da interventi di sintetizzatori pungenti, enfatici e meno magniloquenti di quanto udito negli album più recenti. Nelle parti più tranquille si apprezzano delicati interventi delle seconde voci, per una canzone che ha effettivamente molte analogie con quanto sentito in apertura, ma mantiene un tono più fumoso e cerebrale.
3. My Specter (03:55)
Composizione molto minimale per quasi l’intera durata, basata prevalentemente su pochi ricami di sintetizzatori e flebili linee vocali. Gli stacchi chitarristici, ben dosati, iniettano energia ma non stravolgono l’atmosfera generale, che rimane rarefatta e un po’ dormiente.
Ci si riavvicina alle idee messe in mostra in “Aphelion”, seppure con maggiore compattezza e senza troppe divagazioni. Solberg ritorna a mostrare qualche tonalità più aggressiva, quando le chitarre fanno la loro comparsa – qualcosa che tornerà diverse volte nel corso del disco.
4. I Hear The Sirens (04:31)
L’introduzione ci traghetta in un mood non lontano da quello di “My Specter”. Nella prima metà, Einar si produce nei vocalizzi cantilenanti divenuti il suo marchio di fabbrica nell’ultimo paio d’album, per un soliloquio accompagnato da deboli tocchi di batteria e qualche seconda voce. Dopo un paio di minuti circa, il pezzo sale d’intensità, crescono il fervore strumentale e la potenza vocale, con qualche incursione su tonalità alte e insistite.
Il finale è di nuovo molto flebile, riprendendo le armonie sentite in apertura.
5. Like A Sunken Ship (04:04)
Le sfumature sornione ricompaiono nei primi secondi della traccia, che in breve vede comparire piccole deviazioni nel trip-hop e in beat molto misurati ma coinvolgenti.
L’entrata in scena delle chitarre è particolarmente fragorosa: si risentono momenti persino violenti, durante l’ascolto della canzone. Il clima si fa incendiario a un certo punto, compaiono voce rabbiose, un muro chitarristico improvvisamente arcigno e marmoreo. Si ha qui un ulteriore annerimento di chitarre già settate su tonalità abbastanza plumbee e con maggior distorsione che negli ultimi lavori.
Questo crescendo di rabbia ha per contrappunto dei surreali “lalalala” delle voci di supporto, fino a una conclusione misteriosa e sospesa.
6. Limbo (05:56)
Ha tratti del pop sofisticato che è andato a fare le fortune di “Pitfalls”, questa “Limbo”: il pattern della batteria fa battere il piede, i beat disegnano con naturalezza ambientazioni fascinose ma ammiccanti e la voce si comporta in modo più ‘regolare’ e facile da seguire rispetto al solito. Le chitarre si limitano ad accompagnare invece che aggredire, stando qualche passo indietro in termine di distorsione e pesantezza rispetto al grosso del disco.
L’ultimo terzo di canzone si fa più fitto di dettagli, tra ritmiche più sostanziose di particolari e un moderato crescendo di concitazione.
07. Faceless (06:25)
La settima traccia dell’album si presenta come una specie di ballata romantica, col pianoforte a scandirne l’incedere. Il cantato si fa tenuemente ossessivo, ripetendo insistentemente alcune parole, con tono sommesso, per i primi due minuti.
Nel mezzo, “Faceless” muta pelle, diviene dura e quadrata, intervallando queste parentesi con altri momenti molto pacati. Si avverte un feeling jazzato, mentre il cantante riprende a ripetere le parole pronunciate inizialmente, prima con il medesimo tono, quindi sempre più forte. Un martellamento in punta di fioretto, nel finale reso ancora più stentoreo dall’intervento di altre voci.
È uno dei brani che probabilmente diventerà più distintivo dell’intero “Melodies Of Atonement”.
08. Starlight (06:09)
Toni bassi, un’indolente calma, sintetizzatori armoniosi ed educati aprono docilmente anche questo brano, preludio a un finale di tracklist che va a lasciare in un angolo le tonalità più metalliche. Anche stavolta l’intensità va a salire dopo circa un paio di minuti, assestandosi però in questa occasione su un andamento più controllato, più greve e dolorante.
Si percepiscono tormenti placati a stento, nei registri vocali, con una passionalità che sfocia finalmente in strofe fiere e altisonanti dopo circa quattro minuti, prima di placarsi per una coda strumentale abbastanza minimale.
09. Self-Satisfied Lullaby (06:21)
Lo svolgimento sonoro tiene in buona misura fede al titolo, perché la nona traccia ha effettivamente qualcosa di ‘cullante’ da offrire. Qualche voglia synth-pop affiora nell’elettronica utilizzata, il mood generale ondeggia nell’onirico e gli elementi prettamente rock quasi non compaiono; sostituendo all’elettronica violoncello e violino staremmo parlando di un episodio di “Aphelion”, tanto è sottile e fragile questa espressione musicale.
Per risentire un minimo di movimento e ritmo incalzante dobbiamo praticamente arrivare all’ultimo minuto, quando si riprende in chiave più elettrica il precedente andamento.
10. Unfree My Soul (05:21)
Stadio finale del processo di ‘smaterializzazione’ compiuto dal gruppo nella seconda metà del disco. Lo sviluppo è lento e dolente, con la batteria che ripete una cadenza quasi marziale per oltre metà della durata e le chitarre adagiate su un quieto arpeggiare. È la voce di Solberg a fare da epicentro, insistendo su tonalità alte e fini.
Il brano si accende dopo circa tre minuti e mezzo, con una ripresa in chiave elettrica e trascinante del tema sonoro ricamato in precedenza. Una chiusura in moderato crescendo, velata di tristezza ma affrontata con accorato trasporto, un po’ prevedibile e non particolarmente stupefacente, ma in ogni caso gradevole e ben studiata.