A cura di Marco Gallarati
I Maya hanno chiaramente sbagliato. Almeno per quanto riguarda coloro i quali credono che la profezia dell’estinto popolo si concentri sul significato dell’Apocalisse. Cosa ne sapevano loro della fine del mondo, quando i Meshuggah dovevano ancora aspettare generazioni ed eoni per venire a terminarci? I Meshuggah SONO l’Apocalisse. E i Meshuggah sono tornati. Finalmente. Manca qualche giorno all’uscita del loro nuovo “Koloss” ed è giusto dedicare ad esso un attento track-by-track. Assoluti pionieri di un certo modo di concepire il metallo estremo; freddi esecutori di partiture assordanti; ispiratori a tutto tondo per un’infinita miriade di band attuali e a venire. Come altro definire, Tomas Haake e compagni, se non una delle band più influenti degli ultimi quindici anni? L’ottimo “ObZen” fluttua ancora nelle nostre orecchie, nonostante siano passati ormai quasi quattro anni dalla sua pubblicazione; le performance robotiche on stage – ricordate il Gods del 2008 a Bologna? – sono sempre ben impresse sulla retina; la voglia di riascoltare loro nuova musica è quasi spasmodica. L’anticipo, reso pubblico qualche tempo fa, del pezzo “Break Those Bones Whose Sinews Gave It Motion” non ha fatto gridare al miracolo, è vero, e forse ha fatto presagire ai più un nuovo incupimento dei Meshuggah verso le sonorità monolitiche di “Nothing” e “Catch 33”. Ebbene, rallegratevi: ciò è sbagliato. “Koloss” si (di)spiega per ora in un solo modo: vi assale il cervello e lo morde con squaleschi denti d’acciaio. Non c’è via di scampo, neanche dopo soltanto due-ascolti-due. E ve lo dicevamo prima: i Meshuggah sono tornati, l’Apocalisse è arrivata. I Maya hanno chiaramente sbagliato.
MESHUGGAH
Jens Kidman – voce
Fredrik Thordendal – chitarra, tastiere
Marten Hagstrom – chitarra
Dick Lovgren – basso
Tomas Haake – batteria
KOLOSS
Data d’uscita: 23 marzo 2012
Etichetta: Nuclear Blast Records
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01. I AM COLOSSUS (4.43)
I am Life or Death / I decide your Fate.
Sembra di partire subito a razzo, ma è un fuoco di paglia: l’opener di “Koloss”, “I Am Colossus”, è in realtà strutturata su una ritmica pachidermica e possente, che si inalbera e attorciglia su se stessa all’altezza di quasi-chorus che movimentano un po’ il brano. La voce di Jens Kidman, come del resto accadrà durante tutta la tracklist, pare assumere connotati più espressivi rispetto al passato, più profonda. Stranissimo l’assolo di Thordendal, lunghe singole note tenute per diversi secondi, molto alieno. Non un inizio deflagrante, ma episodio che sale con gli ascolti.
Il rumore di un colosso di granito che muovendosi sbriciola città.
02. THE DEMON’S NAME IS SURVEILLANCE (4.39)
“The Demon’s Name Is Surveillance”, dal titolo che ci proietta in un presente ossessionato dal controllo, esplode a tuono nelle vostre orecchie, tramite un riffing assassino e ossessivo, dall’immane potenza. La claustrofobia insita nel suono della band si dipana in lungo e in largo durante questo brano, tenendovi assurdamente legati alla vostra camicia di forza. Le ritmiche, verso centro canzone, diventano psicotiche, simili ad un treno che, restando su binari dritti come spilli, ondeggia attraverso devastanti tornado. Chi supponeva che “Koloss” fosse un album lento, qui verrà completamente annichilito.
Il rumore di mille occhi che vi osservano frenetici.
03. DO NOT LOOK DOWN (4.43)
Attenzione, le prossime parole sono da leggere con le pinze: con “Do Not Look Down” si balla alla grande! Fredrik Thordendal meets Tom Morello, ebbene sì. Il groove portante è l’esatta via di mezzo tra le sincopi dei Meshuggah ed il flavour funky-sperimentale dei Rage Against The Machine. Eresia, dite? Ma alla fine neanche più di tanto, visto che vi ritroverete a muovere piedini e sederino in men che non si dica. Esclusa la reminiscenza – a tratti – con il suono RATM, la terza traccia di “Koloss” è un brano piuttosto standard per gli svedesi, che ci riporta un po’ ai tempi del “Nothing” più movimentato.
Il rumore di blatte danzanti sull’orlo di un abisso.
04. BEHIND THE SUN (6.14)
Con “Behind The Sun” arriviamo, per chi scrive, al primo capolavoro del platter: ci sono pochissimi arpeggi in “Koloss” e uno di questi apre tale brano, anticipando un groove epico e sognante, che si alterna con strofe classiche per i Meshuggah. All’improvviso, però, il pezzo si scurisce ed intensifica, scaraventandoci in una forgia demoniaca, massacrati da un riffing sinistro e penetrante e da un Haake incisivo in maniera totale. Cyber, epic e black allo stesso tempo, che pezzo! Lasciatevi poi travolgere dal breaking riff infame che arriva a 3/4 di canzone e ne riparlerete con gli amici.
Il rumore del buco nero che attende famelico dietro il Sole.
05. THE HURT THAT FINDS YOU FIRST (5.33)
Si accelera di nuovo con “The Hurt That Finds You First”: quattro colpi di rullante a marcetta e via un tupa-tupa micidiale, che raramente negli ultimi dischi della band abbiamo sentito così old-school swedish death. Ossessiva e accerchiante almeno tanto quanto “The Demon’s Name Is Surveillance”, la canzone in questione è cocciuta e urgente come poche nella carriera dei Meshuggah, quasi da renderli irriconoscibili non fosse per il tipico growl urlato di Kidman. Il pezzo rallenta man mano che prosegue e si fa ipnotico, andando a sfociare in un assolo slabbrato che precede un finale con sfumata ritmica.
Il rumore di un corpo che nervosamente collassa dilaniato.
06. MARROW (5.35)
Con “Marrow” ci tuffiamo all’interno dell’entità Meshuggah, fino ad esplorarne il più recondito midollo. Il riff di partenza è sbilenchissimo e il controtempo che lo segue non può far altro che far scapocciare tendini e giunture. Il brano è in puro stile Meshuggah, giocato tutto sugli anticipi e le dissonanze di rito. E’ un pezzo molto vario e dinamico, alla faccia dei detrattori che accusano la band di essere noiosa e statica. L’assolo, in questa occasione, è rapido e tecnico, anch’esso come tradizione vuole. Una canzone che, in breve, potreste fare ascoltare all’amico di fiducia che non conosce ancora il combo di Umea. Complesso ma fruibile.
Il rumore di un polso d’acciaio che vi afferra e spreme la colonna vertebrale.
07. BREAK THOSE BONES WHOSE SINEWS GAVE IT MOTION (6.55)
La canzone che molti di voi già conosceranno e avranno ampiamente criticato. “Break Those Bones Whose Sinews Gave It Motion” è certamente fra i brani meno convincenti di “Koloss” e averla resa disponibile come anteprima del lavoro è una mossa azzardata dei Meshuggah. I quali, da parte loro, non facciamo fatica a credere se ne stiano bellamente fregando dei giudizi della gente. Episodio lento e monolitico, quasi monocorde, che ha bisogno di ripetuti ascolti per essere apprezzato in pieno. L’atmosfera soffocante, comunque, c’è tutta. A noi piace.
Il rumore di presse industriali che schiantano scheletri.
08. SWARM (5.26)
Chitarrina in arrivo da cavità ignote. Segue tambureggiare psichicamente provante. Segue groove quadrato con riffing ficcante e serrato. “Swarm” si insinua subdola fra i vostri padiglioni auricolari, costringendo la dura madre a comprimere pericolosamente l’aracnoide e la pia madre. Un attacco in piena regola alle vostre meningi, perpetrato ancora una volta dalla fobia degli spazi chiusi che la musica dei Meshuggah inevitabilmente alimenta. Il brano preferito di chi scrive é uno dei migliori mai concepiti dai Cyber-Gods.
Il rumore di uno sciame di locuste vomitato sull’Uomo.
09. DEMIURGE (6.12)
Anche “Demiurge” parte in sordina, con effetti e sonorità ovattate, per poi però esplodere rapidamente in un groove fluido e monolitico, tipico dei Meshuggah di “Koloss”. Le chitarre di Thordendal e Hagstrom solcano spessori densi come magma, accompagnando Lovgren e Haake su ritmiche che siamo sicuri dal vivo non faranno prigionieri. Quest’ultimo pezzo cantato ricalca la maestosità dell’opener e del singolo, preferendo il monolite alle accelerate, ma si rivela cangiante quanto basta per non definirsi per nulla immobile. L’apoteosi dell’Apocalisse, insomma.
Il rumore della materia che sfrigola e implode, sparendo.
10. THE LAST VIGIL (4.32)
Ricordate “Acrid Placidity”, presente su “Destroy Erase Improve”? Ecco, con “The Last Vigil” ritorniamo su quelle coordinate, strumentali, placide e rilassanti. Un defatigante cosmico, dopo aver espiato i dolori del mondo e aver provato il più ancestrale dei timori. Arpeggi e assoli riverberanti che si fondono e abbracciano, in chiusura di un album che appare già stellare dopo una manciata di fruizioni. Si arriva in fondo stremati ma appagati e, tutto sommato, già pronti a ricominciare.
Il rumore dell’ibernazione dell’ultimo Essere Umano.