A cura di Simone Vavalà
C’è bisogno di scrivere qualcosa per introdurre i Metallica? O, ancor meglio: serve veramente farvi ‘perdere tempo’ rispetto all’attesa che un nuovo disco della più grande band metal della storia provoca, nel bene e nel male?
Ecco, limitiamoci a quest’ultima espressione per elaborare queste righe: nel bene e nel male, che apparteniate ai difensori dei primi tre dischi, o quattro o cinque, che siate dei fan sfegatati che adorano ogni loro nota anche successiva, persino se siete di quelli che “piuttosto che ascoltare il nuovo disco di Hetfield & co. vado al concerto dei Maneskin”, beh, è innegabile che “72 Seasons” sia l’uscita dell’anno, almeno in termini di rilevanza discografica, e che farà parlare, discutere, lanciare fatwa su chi la pensa diversamente.
“72 stagioni. I primi diciotto anni della nostra vita che formano il nostro vero o falso io. Il concetto del ‘chi siamo’ che ci è stato detto dai nostri genitori. Una possibile etichettatura del tipo di personalità che siamo. Credo che la parte più interessante di tutto questo sia lo studio continuo di queste convinzioni di base e di come esse influenzino la nostra percezione del mondo di oggi. Gran parte della nostra esperienza adulta è una rievocazione o una reazione a queste esperienze infantili. Prigionieri dell’infanzia o liberi da quei legami che ci portiamo”.
Abbiamo riportato qui sopra la presentazione scelta dalla band per introdurre il disco, una serie di concetti e tematiche che ricorrono nei testi, tra rabbia, maturazione, disillusione, riscatto… Tutta una serie di umane sensazioni che i Metallica hanno sempre provato a esprimere nei loro brani, mostrando una dimensione lirica molto personale e profonda.
Dopo la puntata di Metalitalia Podcast dedicata al disco, proviamo quindi ad attirarci noi i primi strali, ma speriamo anche nella vostra curiosità, riportandovi anche per iscritto le impressioni avute al pre-ascolto svolto presso gli uffici di Universal Music Italia (che ringraziamo per averci invitato a questa succulenta anteprima).
METALLICA
James Hetfield – voce, chitarra
Lars Ulrich – batteria
Kirk Hammett – chitarra
Robert Trujillo– basso, backing vocals
72 SEASONS
Data di uscita: 14/04/2023
Etichetta: Blackened Recordings / Universal
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01. 72 Seasons (7:39)
L’abbiamo già sentita, apprezzando parecchio il riffone thrash dal sound quasi slayeriano, e poi quei due nuovi riff che subito si intrecciano con un’enorme firma Hetfield stampata sopra. La voce entra quasi epica in questa cavalcata che non manca di elementi catchy. Il primo assolo trova spazio subito dopo il ritornello, c’è poi spazio per un gustoso riff circolare che spezza più o meno in due il brano prima del secondo assolo, dotato forse di meno gusto; classico Hammett, pure troppo, così come risulta in parte ridondante la parte con le chitarre armonizzate che fa da preludio all’ultima strofa. Un brano nostalgico, forse solo un po’ troppo lungo, ma azzeccato.
02. Shadows Follow (6:12)
L’apice del disco, a caldo, assieme a un altro paio di brani. Parte bellicosa con batteria quasi militare e un riff stoppato, Lars sugli scudi, entra poi un riff più arioso dall’headbanging obbligatorio, una bella linea vocale abrasiva, con un interessante ritornello disarmonico, rallentato, che entra in testa. Ma attenzione, perché su questa direttrice si imporrà un po’ la gestione delle linee vocali nel seguito, con diversi – ahinoi – punti morti.
Il bridge centrale ricorda certe soluzioni di “Master of Puppets”, c’è poi un assolo scontato di Kirk prima del finale che sembra un urlo di rifiuto verso i demoni della vita. Bentornati sul podio!
03. Screaming Suicide (5:30)
Altro brano già noto, dove cercano nuove soluzioni sulla strada del loro eterno amore per la NWOBHM, con linee vocali che uniscono qualcosa delle loro origini (in particolare echi di “Jump In The Fire”), di Mercyful Fate e tanto, tanto dei Diamond Head. Sul finale il brano regala una bella progressione in terzine, con il basso in grande spolvero e James che prova soluzioni più cupe.
04. Sleepwalk My Life Away (6:56)
Un sorprendente avvio con riff di basso e chitarra blueseggiante, a seguire un po’ “Enter Sandman”, poi una sequenza di bridge e ritornello curiosi, più che furiosi. Il ritmo resta costante per tutto il brano: un midtempo abbastanza ipnotico nei punti in cui James spezza la cadenza dettata dalle battute, che rafforza il sottotesto di alienazione delle liriche. L’assolo ascendente offre, almeno in parte, un tocco di novità a un brano non del tutto noioso, ma un po’ statico rispetto alla curiosità iniziale. Finale che conferma, con i suoi rallentamenti sghembi, l’atmosfera globale.
05. You Must Burn! (7:03)
Altro midtempo che pare offrire sonorità più telluriche, scopiazzando parecchio dal Black Album (“Through The Never”, ma soprattutto “The God That Failed”). Ci si chiede in fretta perché abbiano piazzato due pezzi lenti di fila, affossando francamente il godimento. Certo, questo risulta un pezzo Metallica al 100%, ma al tempo stesso molto banale anche nella ricerca del passaggio catchy, che non decolla mai. Nella seconda parte replica il percorso quasi onirico di rallentamento, con un fill di chitarra interessante ripetuto tre volte, forse anche troppe. Ci sarebbe la prima apparizione di Trujillo come seconda voce, ma francamente non abbiamo capito la rilevanza (si limita ad armonizzare vagamente molto dietro Hetfield), a fronte, forse, del momento più debole del lotto.
06. Lux Æterna (3:22)
Primo singolo estratto, decisamente convincente anche sulla distanza: un brano adrenalinico, puro heavy metal che funziona anche nell’autocitazionismo, oltre ai soliti Diamond Head e Motörhead. Non c’è molto da aggiungere a una traccia che avrete sicuramente già digerito, se non sottolineare l’apprezzamento per il dono della sintesi. Non mancano pezzi lunghi e insieme immortali nella loro discografia, ma da un po’ di anni a questa parte il godimento cresce quando i Metallica si assestano sui 3/4 minuti di durata.
07. Crown of Barbed Wire (5:49)
Ancora largo a un Lars sempre essenziale, ma più vario, mentre sotto i suoi pattern le chitarre crescono poco alla volta, più avvolgenti che aggressive. Il ritornello è per l’ennesima volta lento; e se per certi versi si può trovare una correlazione con gli stati d’animo descritti – tra pugni stretti e occhi iniettati di sangue a contenere una rabbia repressa – appare nel complesso senza ispirazione. E, anche se non parliamo del brano peggiore presente, ricompare il problema di trovare linee vocali adatte a riff da una parte molto aggressivi (ma forse ormai appartenenti al passato), dall’altra deboli in corrispondenza dei ritornelli.
08. Chasing Light (6:45)
L’urlo iniziale “There’s no light” fa sperare in un attacco parossistico e retrò che arriva poco dopo con una bella sequenza di riff variegati, che francamente aspettavamo da dieci minuti, anche se poi la cadenza torna più lenta ed anonima nel bridge. Il ritornello si staglia invece catchy, per riprendere anche il testo; siamo in territorio hard rock di classe, con qualche spruzzata dalle parti dei Thin Lizzy. Qui il dinamismo nel complesso c’è: graffiante, particolare, con anche un reprise adrenalinico prima del ritornello finale. Certo, arrivati a questo punto ripensiamo alle recenti parole di Kirk su quanto si sia annoiato di suonare i suoi assoli non proprio variopinti e stupefacenti, e anche su questo disco sono pochi i momenti in cui ci stupisce.
09. If Darkness Had a Son (6:36)
Ci aveva già deluso come singolo e la presenza dell’avverbio dovrebbe suggerirvi che non migliora nemmeno risentita con approccio clinico. Poteva funzionare il duetto tra le chitarre quasi à la Rammstein e la batteria, cosi come la parte con l’alienante ripetizione iniziale di “Temptation”… una tentazione che resta parecchio disillusa. Non c’è dinamica se non sul ritornello, peraltro su soluzioni già sentite. Sei minuti decisamente superflui.
10. Too Far Gone? (4:34)
Pezzo old-school, un bel riffone, James aspro il giusto, durata contenuta: tutto quasi perfetto, con nota di piacere per il fill arioso dopo il secondo ritornello e il bel finale secco, anche come messaggio. Come nota di costume, sembra quasi di compiere un percorso circolare nella strada che da loro ha portato ai Volbeat, e torneremo tra poco su questo tema.
11. Room of Mirrors (5:34)
Un altro avvio peculiare, che unisce la cavalcata, echi quasi horror e un bel crescendo (di nuovo l’ombra lunga di King Diamond?), un approccio vocale accattivante: qui i Metallica mostrano come gli basti il mestiere impiegato al meglio e un po’ di acceleratore, quindi forse ci si dispiace il doppio dopo la lunga sequenza di brani senza tocchi di rilievo. Anche l’assolo si segnala per gusto e classe, con dei tocchi orientaleggianti godibili. Rialza bene il livello, insomma.
12. Inamorata (11:10)
Le premesse, tra titolo sgrammaticato e durata, erano preoccupanti, ma già in avvio ci troviamo nelle orecchie un minuto talmente interlocutorio, su sonorità sghembe e quasi indipendenti, da essere incuriositi. Qui la sensazione è che il feedback di ritorno da band che potremmo definire loro eredi, ipotizzato prima per i Volbeat, passi dalle parti degli Avenged Sevenfold per certe soluzioni, ma con meno barocchismi e con una progressiva trasformazione che esplode sul primo ritornello, allorché tutto si fa più intenso. Forse non coinvolgente… almeno all’apparenza; perché arriva poi il momento in cui i Metallica si ricordano di essere arrivati ben prima dei loro epigoni ed ecco due minuti assolutamente inediti (nella loro discografia) virati a una strana psichedelia jazz, tra batteria spazzolata, basso suadente e voce calda. Nel prosieguo resta un pezzo vivace e interessante, capace di smentire il minutaggio ‘a rischio’.