OPETH: il nuovo album “In Cauda Venenum” traccia per traccia!

Pubblicato il 21/08/2019

A cura di Carlo Paleari

Prima della pubblicazione di un nuovo album, gli Opeth avrebbero dovuto prendersi una pausa di riflessione più lunga, almeno nelle intenzioni di Mikael Åkerfeldt, invece il leader della band ha trovato prima del previsto la sua musa ispiratrice, grazie ad un’idea: registrare un album interamente in lingua svedese. Gli Opeth, però, non sono una piccola realtà dell’underground, che può permettersi di rischiare di perdere una parte del suo pubblico a causa dell’uso di una lingua sconosciuta ai più; pertanto “In Cauda Venenum” viene pubblicato in una doppia versione, una in svedese, appunto, e una in inglese. Metalitalia.com ha avuto l’opportunità di ascoltare entrambe le versioni in anteprima, con un occhio di riguardo all’album in svedese, che Åkerfeldt stesso considera quello originale nelle sue intenzioni. Naturalmente approfondiremo il nostro giudizio in sede di recensione ma, nell’attesa, abbiamo provato ad addentrarci tra le dieci composizioni dell’album, raccontandone le atmosfere e le peculiarità. Buona lettura!

Mikael Åkerfeldt – voce, chitarra
Fredrik Åkesson – chitarra
Martín Méndez – basso
Martin Axenrot – batteria
Joacim Svalberg – tastiere

IN CAUDA VENENUM
Data di uscita: 27 Settembre 2019
Etichetta: Nuclear Blast
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01. LIVET’S TRÄDGÅRD / GARDEN OF EARTHLY DELIGHTS (03:29)
L’apertura di “In Cauda Venenum” parte da lontano, con le tastiere a replicare il canto di un coro gregoriano. Una progressione di quattro note che vengono ripetute, andando a stratificarsi: prima l’organo e poi un synth che sembra evocare le atmosfere cupe e martellanti di “Stranger Things”. In sottofondo rumori di passi, motori lontani, il rintoccare di campane e gocce di note che increspano la superficie, creando centri concentrici che, lentamente, si allontanano fino al silenzio.

02. SVEKET PRINS / DIGNITY (06:36)
Il primo vero brano del nuovo album degli Opeth arriva con il secondo pezzo, che si apre con un progressive rock maestoso e corale. Si sentono le armonizzazioni vocali degli Uriah Heep, mentre basso, chitarra e batteria si intrecciano all’onnipresente organo hammond. Tocca quindi alle chitarre acustiche costruire la trama ritmica, prima di lasciare spazio ad una linea melodica di chitarra elettrica, che ricama un assolo dal sapore classico. Al termine di questa introduzione strumentale rimane solo una chitarra acustica arpeggiata, su cui fa capolino la voce di Åkerfeldt: una sorta di falsetto, delicato e filtrato, si appoggia su un tintinnio cristallino di tastiere che, soprattutto nella versione in lingua svedese, riportano l’ascoltatore in territori fiabeschi, figli del folclore delle terre del Nord. A metà brano, invece, torna a farsi sentire il cuore elettrico della band: una voce piena e calda si accompagna prima ad un riff di chitarra trascinante e poi ad un mellotron che ci riporta, invece, agli Opeth più influenzati dalla poetica di Steven Wilson. Colori e suoni diversi che si uniscono secondo i canoni stilistici del prog rock, rifuggendo, ancora una volta, la classica forma-canzone.

03. HJÄRTAT VET VAD HANDEN GÖR / HEART IN HAND (08:28)
Con “Heart In Hand” arriviamo al primo singolo estratto da “In Cauda Venenum”, singolo che il pubblico ha già avuto modo di ascoltare e sul quale quindi ci soffermeremo meno. Otto minuti e mezzo di durata, giocati principalmente su un riff non certo estremo, ma quantomeno robusto ed efficace. La linea vocale è particolare, ma di facile presa, così come le melodie portanti. Sembra vincente la scelta di optare per questo brano come primo singolo: una canzone che riesce al tempo stesso ad essere sufficientemente rappresentativa delle sonorità dell’album, utilizzando un approccio tutto sommato diretto ed immediato. Notevole la coda acustica nella parte finale, un campo di gioco in cui gli Opeth sono ancora capaci di eccellere e che, fortunatamente, viene spesso messo in primo piano nel corso dell’album.

04. DE NÄRMAST SÖRJANDE / NEXT OF KIN (07:08)
Una breve apertura a cappella introduce un altro riff corposo ma al tempo stesso languido. Il tempo si fa più lento e cadenzato; diventa protagonista la voce di Åkerfeldt, che in questo lavoro appare più maturo nel disegnare linee vocali dinamiche e cangianti. Il brano si evolve, quindi, attraverso atmosfere dal sapore orientale, che lasciano spazio ancora una volta ad un pregevole break acustico. I musicisti continuano a disegnare arabeschi, lasciando emergere di volta in volta le chitarre elettriche, l’organo hammond, fino a delle partiture di archi. Questi ultimi, che diventano via via preponderanti nell’evoluzione del brano, vanno progressivamente a mutare l’atmosfera generale, rileggendola in una chiave maestosa. Una sorta di inquadratura che parte da un particolare, un dettaglio, per poi ascendere, staccandosi da terra fino ad abbracciare un intero panorama.

05. MINNETS YTA / LOVELORN CRIME (06:34)
Le prime note del quinto brano dell’album si affacciano in punta di piedi, appena sussurrate: un semplice pianoforte accompagna la voce di Mikael, prima di venire affiancato da basso, batteria e chitarra. La struttura del brano è quella della ballad: atmosfere malinconiche, che parlano di sentimenti spezzati, di mancanza e rimpianti, un po’ come accadeva in diversi episodi di “Damnation” (la splendida “Hope Leaves”, ad esempio). Pochi orpelli, questa volta, nessun tentativo di creare astrusi incastri progressive: solo un tappeto di archi a sfiorare ed ammantare gli strumenti tradizionali ed un lungo, struggente assolo di chitarra che emerge con forza sul finale a strizzare gli animi. Un brano tutto sommato semplice, quasi scontato in certe soluzioni, eppure particolarmente efficace, sintomo di come, talvolta, non sia necessario cercare di stupire per colpire nel segno. Qualcuno inorridirà di fronte all’ennesimo tradimento nei confronti della musica pesante, ma gli Opeth, oggi, sono anche questo.

06. CHARLATAN / CHARLATAN (05:29)
Se per l’episodio precedente abbiamo parlato di semplicità ed emotività, “Charlatan”, invece, riporta la band su territori più classicamente progressive. Ritmiche non lineari e melodie arzigogolate si accavallano in un senso di inquietudine. Si sentono velati richiami agli Opeth di “Ghost Reveries”, sebbene sempre calati nello stile attuale della band, ma in generale l’approccio appare più manieristico, quasi un esercizio di stile da parte di una formazione che sa di poter creare delle partiture complesse e ci tiene a dimostrarlo. L’apertura melodica nella parte centrale riporta la composizione su binari più dritti, prima di avviarsi verso una chiusura sfumata, giocata prima su tappeti di tastiere e poi su un vero e proprio canto gregoriano.

07. INGEN SANNING ÄR ALLAS / UNIVERSAL TRUTH (07:31)
Dopo un brano più spigoloso come “Charlatan”, la musica di “In Cauda Venenum” torna a farsi leggiadra: arpeggi di chitarra accompagnano una voce sottile e malinconica, con gli archi che tornano protagonisti. Gli strumenti che prima vengono accarezzati si aprono poi in squarci elettrici, energici, ma sempre ariosi e aperti. La sezione ritmica si risveglia, diventando sempre più dinamica, mentre le orchestrazioni si fanno più maestose. A metà del brano torna un breve intermezzo acustico, che serve da nuovo punto di partenza nella progressione della canzone. La struttura finora descritta si ripete, tornando prima a sfiorare gli strumenti per poi andare ad aggiungere strati, colori, in un continuo gioco di chiaroscuri. La scrittura mantiene un invidiabile equilibrio per tutta la durata della canzone, segnando uno dei momenti migliori dell’intero album.

08. BANEMANNEN / THE GARROTER (06:44)
Il brano più atipico dell’intero album arriva con “The Garroter”, che si apre con qualche secondo di chitarra acustica, prima di lasciare spazio al pianoforte, al basso e alla batteria. Si tratta di una canzone jazzata, notturna, vagamente sinistra, come una figura che si nasconde nelle ombre della strada, senza mai farsi vedere del tutto. Fedele all’immagine evocata dal titolo, il brano si evolve in maniera obliqua, sinuosa, mai sfacciata, con melodie ipnotiche, che giocano su una manciata di note e una ritmica frusciante. La chitarra elettrica ricama da solista, evitando accuratamente la distorsione, e di tanto in tanto fanno ancora capolino gli archi a doppiare la linea vocale. Un altro ottimo episodio.

09. KONTINUERLIG DRIFT / CONTINUUM (07:23)
Si parte con Martin Axenrot che gioca sul charleston mentre una chitarra acustica inizia a pizzicare una melodia incalzante a cui vanno ad aggiungersi i vari strumenti. Sono passati circa due minuti quando finalmente il brano si apre, lasciando entrare le chitarre elettriche e dando spazio a linee vocali che devono molto agli Alice In Chains. Ancora l’alternanza con delicate chitarre acustiche e poi di nuovo largo all’elettrica con un lancinante assolo con il wah-wah. La parte finale della canzone, invece, è ancora una carezza, con chitarre arpeggiate, un ritmo delicato e qualche leggera orchestrazione che man mano si allontana.

10. ALLTING TAR SLUT / ALL THINGS WILL PASS (08:31)
Lo ammettiamo, durante il primissimo ascolto dell’album, di fronte ad un titolo traducibile con “il veleno è nella coda”, avevamo sperato davvero in una sorpresa finale, forse perfino un ritorno alle origini, giusto per sparigliare le carte, con quell’umorismo tipico di Mikael Åkerfeldt. Invece la chiusura dell’album rimane perfettamente all’interno delle coordinate finora descritte. Prima uno scambio tra gocce di chitarra e pianoforte, poi una maestosa apertura elettrica, che ci introduce ad un altro brano al tempo stesso onirico ed epico. Il continuo alternarsi di momenti arpeggiati ed eleganti ad altri più energici e robusti si conferma la chiave stilistica più usata, sebbene con contrasti molto meno marcati rispetto al passato della band. Nessuna stoccata finale, quindi. Anzi, se proprio dovessimo cercare ‘il veleno’ in questa conclusione, lo troveremmo forse nell’esatto senso opposto, ovvero in un certo sapore amaro per uno dei brani meno esaltanti tra quelli proposti.

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