A cura di Giovanni Mascherpa
Undicesimo album in studio per i Pain Of Salvation. E non si può dire siano finite le sorprese, che Daniel Gildenlöw si sia adagiato e abbia preferito dedicarsi a una prevedibile rivisitazione di quanto già offerto in passato. Ormai i progster svedesi sono una band ‘classica’, ‘storica’, ogni loro uscita si permea di un’attesa spasmodica da parte di fan di lunghissima data, al tempo stesso speranzosi e preoccupati per quello che potrebbe accadere in un nuovo disco. Non propriamente legati a una strenua difesa della tradizione, né tenuti in scacco da logiche di puro intrattenimento, oppure schiavi del dover mantenere una certa linea compositiva il più possibile digeribile, i Pain Of Salvation prima di questo “Panther” arrivavano da uno degli album più fortunati della loro carriera. “In The Passing Light Of Day” (frutto delle riflessioni del mastermind sulla grave malattia che l’aveva tenuto mesi in ospedale nel 2014) si era permesso nel 2017 di ravvivare una fiamma metal andata infiochendosi nei due capitoli di “Road Salt”. Non solo il suono si era complessivamente indurito, quello che aveva meravigliato era la creatività ancora fresca e imprevedibile di questi musicisti, che andavano a rimettere mano ad alcuni temi ricorrenti delle loro uscite migliori, aggiungendone di nuovi e rimescolando il tutto con una capacità di sintesi fenomenale. Un idillio rotto dalla turbolenta uscita dalla linea-up di Ragnar Zolberg, vero e unico contraltare all’ingombrante figura del leader màximo Gildenlöw, centro focale della formazione. Una perdita forte, visto il contributo dato dal talentuoso chitarrista proprio su “In The Passing Light Of Day”, colmato numericamente dal ritorno di Johan Hallgren, storico chitarrista del gruppo, presente dall’epoca di “One Hour By The Concrete Lake” fino al 2011. Arriviamo a “Panther”, dunque, per scoprire che i Pain Of Salvation si sono reinventati un’altra volta. Il nuovo album prende subitamente una piega cupa, introversa, poco diretta, che ai primi ascolti è arduo decifrare in pieno. I contagiosi attacchi di “In The Passing Light Of Day”, i suoi refrain travolgenti, l’accecante luminosità di molti suoi passaggi lasciano il posto a un’atmosfera più algida, brumosa. Non siamo di fronte a un’incarnazione totalmente inedita della band, ma il taglio del sound, l’utilizzo di alcuni strumenti – le tastiere in primis – il tono delle linee vocali e il mood generale richiedono un certo sforzo per essere compresi al meglio. C’è del mistero in “Panther”, opera fra le più ritrose a scoprirsi del catalogo degli svedesi: ve ne sveliamo qui i suoi contenuti, certi che anche questa volta non siamo dinnanzi a un prodotto superficiale o di maniera, quanto a un’opera d’arte che potrà far discutere, sconcertare, ammaliare, deludere, entusiasmare. Certamente, non portata a finire in fretta nell’oblio.
Daniel Gildenlöw – voce, chitarra
Johan Hallgren – chitarra, voce
Léo Margarit – batteria, voce
Daniel Karlsson – tastiere, chitarra, voce
Gustaf Hielm – basso, voce
PANTHER
Data di uscita: 28 agosto 2020
Casa discografica: InsideOut
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01.ACCELERATOR (05:31)
Riff stoppati, tastiere futuriste, atmosfera algida e robotica: così inizia “Panther”, nelle fosche trame del primo singolo “Accelerator”. Siamo lontani dal calore umano di “In The Passing Light Of Day”, o forse è la stessa toccante fragilità vista da un’altra prospettiva? Il brano va poi leggermente ad aprirsi, nonostante Daniel prosegua in un cantato sofferto, su tonalità basse. Le tastiere rimangono su suoni freddi e distanti (echi di un “Rage For Order”, quasi trentacinque anni più tardi), i ritmi lenti e nervosi. Si tratta di un brano tormentato, le chitarre sono massicce e dure come nel disco precedente, il refrain non stempera la percezione di ascoltare un brano criptico, che rinvia ciclicamente la definitiva esplosione e scioglimento. Gli spezzettamenti ritmici e la fosca elettronica sono gli elementi che più caratterizzano, in fondo, un’opener minacciosa e nient’affatto immediata.
02. UNFUTURE (06:46)
Ancora elettronica, tanta elettronica, in un attacco che non va affatto a diradare la tetraggine, una scurezza che dall’artwork va a filtrare nella musica e nelle liriche. Una bella effettistica e armonie amare e, di nuovo, orientate a un taglio sci-fi, tengono le fila di una canzone heavy e plumbea, che col passare del tempo accresce la sua pesantezza, forte di un riff portante carico e ottenebrante. Un’acustica mortuaria, scheletrica, accompagna la voce di Daniel quando scandisce strofe intrise di un pessimismo da film post-apocalittico. Ci sono piccoli squarci di energia e ribellione, ma sono presto risucchiati da una lentezza annichilente e un’ossessività al limite del doom. Si nota un certo gusto per la ciclicità in quest’avvio dell’album, in antitesi alle fitte diramazioni di “In The Passing Light Of Day”.
03. RESTLESS BOY (03:34)
Voci filtrate narcotizzanti conducono nel cuore della terza traccia, che per la sua prima metà abbondante appare come un componimento sonnacchioso, riflessivo, di congiunzione verso qualcosa di più corposo. Un lieve strappo dopo circa due minuti alza la pressione, la quiete si rompe e sono altri effetti vocali, colpi secchi e intermittenti della batteria, chitarre elettriche frastagliate a intorbidare il discorso. Si fanno preludio a qualcosa che, di fatto, non arriva, perché quando il climax di tensione ascende, il pezzo si ferma, lasciando col fiato sospeso.
04. WAIT (07:04)
Il pianoforte e i vocalizzi caldi rimandano a un quadro più classico e rassicurante, la stessa cosa si può dire per le cristalline note della chitarra acustica, che accompagnano in primi minuti molto toccanti, qualcosa che i fan della band hanno imparato da tempo a conoscere. Daniel si rimette i panni del cantore di speranza, del rassicurante menestrello che tende la mano e trascina in un mondo sereno e diradato di sofferenze. La band tutta si muove sciolta e piacevole, in trame di rock acustico che potrebbero anche provenire dagli anni di “The Perfect Element I” e “Remedy Lane”. Il chorus è rassicurante, positivo, come qualsiasi elemento del contesto, almeno per buoni due terzi abbondanti della durata. Verso il finale alcune nubi paiono addensarsi, ritorna l’elettronica sullo sfondo, quasi una minaccia, ma la tempesta, almeno in questo caso, non arriva.
05. KEEN TO A FAULT (06:01)
Tastiere e chitarra acustica si rincorrono per oltre un minuto, piroettando fra prog classico e arie digitali, fino all’irrompere dei sussurri del singer. Un soliloquio, una pensierosa, torrenziale riflessione è quella offerta da Gildenlöw nelle linee vocali. L’intreccio di acustiche e tastiere è sorretto da una batteria a tasso di potenza molto contenuto. Compaiono lieve impennate all’altezza del refrain, ma l’atmosfera soffusa non viene destabilizzata. Il finale prende una piega ancora più distensiva, la voce sfuma, ripetendo poche parole come in un sogno al suo epilogo, fino alla chiusura della traccia.
06. FUR (01:34)
Intermezzo dal sapore folk, condotto dalla chitarra acustica e un altro strumento a corda che, in assenza di informazioni certe in merito, ammettiamo di non riuscire perfettamente a individuare (qualche assonanza con il mandolino, ma parrebbe essere altro…). Pur essendo un semplice interludio, è efficace nel creare separazione fra il pezzo precedente e quanto accadrà dopo. Uno spartiacque emozionale, affrontato con la consueta sensibilità e attenzione ai piccoli dettagli
07. PANTHER (04:11)
La titletrack è camaleontica, si annuncia in un modo e poi diventa tutt’altro, presentando infine una struttura di vuoti e pieni che, come in altri casi in tracklist, quando si interrompe pare lasciare dei punti di sospensione nell’aria, un senso di voluta incompiutezza. Le prime battute sono infatti all’insegna di sonorità elettroniche di forte presa e di un cantato aggressivo, che ripesca un’efficace metrica crossover, una di quelle cose che a Daniel piace tirare fuori di tanto in tanto. L’elettronica e le seconde voci infervorano un avvio poderoso, rotto da un breve passaggio di pianoforte, dopo il quale la piega della canzone cambia drasticamente. La carica drammatica aumenta, le voci si fanno esili e meravigliosamente fragili, la musica si intristisce e si acquatta, fino alla brusca uscita di scena.
08. SPECIES (05:18)
Ottimo crooner, quando ci si mette di impegno, Gildenlöw dà prova delle sue qualità di narratore, in un contesto che pare affacciarsi a quello di rock/folk americano, non una novità nel catalogo dei Pain Of Salvation, perfino durante “In The Passing Light Of Day”. L’intensità va moderatamente crescendo fino all’entrata delle chitarre elettriche e della batteria, che non vanno comunque ad alterare la crepuscolarità delle ambientazioni. La rabbia e la potenza aumentano prima impercettibilmente, quindi si palesano in tutto il loro vigore, strattonate da una voce fattasi più collerica e appassionata. Qualche ripetizione di troppo nella coda, forse, pur se nel complesso nemmeno “Species” demerita.
09. ICON (13:30)
Vogliamo togliere ai Pain Of Salvation la possibilità di concludere con una composizione epica e colossale, un monumentale sunto delle pulsioni emozionali contenute nel disco? Certo che no. “Icon”, se si conosce per bene il catalogo del gruppo, non dovrebbe sorprendere. Apertura ‘alta’, molto carica e vibrante, seguita da un diradarsi netto dell’armamentario metal, per dare spolvero all’intimismo più commovente. Le tastiere passano in rassegna sia suoni naturali, sia molto sintetici, nel dare commento sonoro agli struggimenti del singer, perfettamente a suo agio nel ricamare vocalizzi carezzevoli, di estremo candore. Poco oltre la metà la tensione risale, appare qualche lieve intorbidamento, smentito da un prolungato assolo omaggiante l’anima Seventies della formazione. Rientriamo completamente nell’alveo del rock intimista che aveva fatto le fortune di “Remedy Lane”, le tastiere riprendono le redini del gioco, accompagnandoci verso un epilogo invece più scuro. Ci si riconnette allora alle trame plumbee dei primi brani, facendo crepitare le chitarre in trame dense e minacciose, quelle che pongono termine a “Panther”.