A cura di Luca Pessina
Nel 1995 i Paradise Lost pubblicavano quello che è da allora considerato il loro lavoro più amato e venduto, “Draconian Times”. A vent’anni esatti di distanza, il gruppo inglese (con batterista svedese) è in procinto di rilasciare l’ennesimo full-length della sua storia. Non sono molte le band che possono vantare una carriera tanto longeva; ancora meno sono quelle in grado di affermare di essere ancora rilevanti dopo cosí tanti anni di attività. Pur con chiari alti e bassi in termini di popolaritá, dal 1988, anno della loro fondazione, gli inventori del gothic metal sono quasi sempre riusciti a muovere le acque e a spiccare tra la massa, a volte anche con scelte a dir poco controverse. L’imminente “The Plague Within”, loro album numero 14, probabilmente non farà eccezione: da quando il gruppo ha rivelato di voler recuperare alcune formule del proprio passato remoto – tra cui le growling vocals! – per la composizione del nuovo materiale, il circuito metal ha espresso un interesse nei confronti dei Nostri che non si rilevava da tempo. Vi è addirittura chi sta parlando di “ritorno al metal” per il quintetto, come se i recenti “Tragic Idol” o “Faith Divides Us…” fossero album electro pop sulla scia del discusso “Host”! Registrato presso i sempre più noti Orgone Studios di Londra con il produttore Jaime Gomez Arellano (Ghost, Grave Miasma, Primordial), “The Plague Within” promette sí di incuriosire e soddisfare alcuni dei fan particolarmente legati agli esordi della band, ma in realtà vi è molto di più nei suoi solchi. Coloro che si aspettano un cosiddetto ritorno alle origini o un nuovo “Lost Paradise” potrebbero insomma rimanere delusi tanto quanto coloro in cerca, nello specifico, di un altro “Icon”, oppure di un “In Requiem” pt 2, tanto per citare altri capitoli della discografia particolarmente fortunati. In ogni caso, Metalitalia.com ha avuto modo di ascoltare il disco in anteprima in occasione di una listening session organizzata a Berlino dalla Century Media Records. Con noi, in un fumoso bar del noto quartiere di Kreuzberg, vi erano diversi giornalisti a rappresentare alcune delle principali testate europee, oltre naturalmente alle “menti” della band – Greg Mackintosh e Nick Holmes – le quali, a sessione conclusa, si sono prestate a delle interviste per soddisfare tutte le nostre prime curiosità (quella rilasciata ai nostri microfoni verrà pubblicata nelle prossime settimane). Per il momento, vi presentiamo il resoconto di questo primo ascolto assieme ai commenti ai brani dello storico frontman del quintetto.
PARADISE LOST – “The Plague Within”
Etichetta: Century Media Records
Data di pubblicazione italiana: 01 giugno 2015
http://paradiselost.co.uk/
NO HOPE IN SIGHT (04:50)
Nick Holmes: “È facile immaginare questa canzone come un pezzo totalmente negativo, ma non lo è necessariamente. Dipende soltanto da quanto si è a proprio agio con sè stessi: tre membri della band sono genitori e la maggior parte dei nostri figli sono ormai adulti; e con l’arrivo di ogni nuova generazione ci avviciniamo alla fine. È una prospettiva potenzialmente triste e mi fa domandare se i miei nonni avessero pensieri simili, ma, paradossalmente, più invecchio, più vedo i miei bambini crescere e meno ho paura della morte. In certi giorni pieni di brutte notizie, di incomprensioni e di tutta la morte orrenda e senza senso che c’è nel mondo, mi viene quasi da desiderarla”.
Il primo “singolo” di “Plague Within”, presentato al mondo alcuni giorni fa tramite un lyric video, è uno dei pezzi più diretti e orecchiabili dell’album. Ad un evocativo attacco di chitarra segue l’introduzione del growl di Nick Holmes, subito responsabile di uno dei chorus più riconoscibili tra questo lotto di brani. La strofa è pulita e rilassata, volta a creare suspence per il pre-chorus e il conseguente nuovo arrivo del ritornello. Bello il virtuoso stacco centrale, lievemente più sostenuto e con un Greg Mackintosh sugli scudi. Nell’insieme, una metal song compatta e contagiosa, con richiami agli anni Novanta così come agli ultimi album: ideale per lanciare il disco e presentarne subito gli ingredienti salienti.
TERMINAL (04:27)
Nick Holmes: “Una della canzoni più ritmate dell’album, con una linea vocale vicina al death metal, ma senza mai diventare propriamente tale. La parola ‘Terminal’ ha diversi significati, ma per me simboleggia la morte del nostro pianeta. La strofa ‘I can hope, as violence and torture grows’ riflette come la costante esposizione alla tortura e alle violenze in nome della religione stiano rendendo insensibili noi e i nostri bambini. La nostra cosiddetta età moderna si sta lentamente tramutando in un nuovo medioevo. Un terminal è anche la connessione tra due dispositivi, una metafora per l’amore e l’armonia nel mondo, le quali non esisteranno mai finchè vi è la religione”.
Traccia più sostenuta e “spoglia”, ruotante attorno ad una praticamente incessante base di doppia cassa, su cui Mackintosh colloca un riffing arcigno. Le brucianti linee vocali di Holmes incupiscono un pezzo che altrimenti non suonerebbe poi così distante da alcune composizioni recenti – vedi la title track di “In Requiem”, “The Rise of Denial” o “In This We Dwell”. Si inizia forse a capire il “piano” del gruppo: proporre dei brani aggressivi e corposi, evitando però toni troppo esasperati. La struttura del pezzo, d’altronde, è chiara e concisa, mentre riff e melodie sono facilmente memorizzabili, come da tradizione Paradise Lost.
AN ETERNITY OF LIES (05:56)
Nick Holmes: “Da cinico riluttante e, al tempo stesso, stoico ateo, trovo il concetto di reincarnazione ridicolo tanto quanto fantasmi e goblin, quindi credo che questo sia un brano di carattere fantasy a livello lirico, dato che parla di rinascere solo per scoprire che la vita non è affatto migliorata rispetto a prima. Tra tutte le canzoni dell’album, questa è stata quella che ha impiegato più tempo per essere ultimata: in origine avevamo 15 versioni differenti di questo pezzo. L’altra metà di Greg – quella migliore, ovvero Heather – canta sul ritornello e il risultato è probabilmente uno dei brani più malinconici del disco”.
Struggente gothic metal song che introduce i primi interventi di archi e tastiere, oltre a dei raffinati intrecci chitarristici. Qui il gruppo rallenta, ma riesce comunque a confezionare un brano sfaccettato. Il merito è in primis di Holmes, che alterna praticamente tutti i suoi registri vocali, ma risulta azzeccato anche l’apporto della voce femminile all’altezza del chorus. La parte centrale offre un rapido uptempo condito da un tipico assolo di Mackintosh, ma presto si ritorna al mood malinconico dell’inizio. Dopo due tracce intense, una strizzata d’occhio ai fan più romantici.
PUNISHMENT THROUGH TIME (05:12)
Nick Holmes: “Questo è stato il primo pezzo che abbiamo composto quando abbiamo iniziato a lavorare all’album. Come al solito, quando diamo al via alla composizione di nuovo materiale, cerchiamo di fare tabula rasa e di partire da zero. Dopo quattordici album può essere difficile sapere da dove iniziare ma, anche se ormai è un ricordo lontano, una delle migliori opzioni è pensare alla musica che ci piaceva da ragazzi. Penso che questo brano sia il risultato di tale scelta. Se pensi che questa canzone ricordi qualche altra band, hai probabilmente ragione e la cosa è forse voluta. Con un’atmosfera molto ottantiana, penso che questa sia una canzone unica sul disco. Vi è anche una forte similitudine con il nostro album ‘Shades Of God’! A livello lirico, il brano parla di come la vita possa apparire diversa a seconda della generazione, ma in generale sia in realtà sempre uguale. Anche se diversi nell’aspetto, i problemi sono gli stessi di sempre”.
Si torna al metallo più verace con “Punishment Through Time”. A livello di idee, il pezzo è molto lineare: Mackintosh recupera parte del riffing e dello spirito di una “Pity The Sadness” e lo mescola con formule sperimentate in tracce heavy più recenti, alla “Theories From Another World” o “The Enemy”. Siamo davanti ad uno degli episodi più groovy e diretti di “The Plague Within”: qui Holmes non ricorre al growl, rimanendo invece su semplici registri rochi sia sulla strofa che nell’accattivante ritornello, ma il brano non perde affatto di tiro e incisività, anzi. Dal vivo funzionerà benissimo.
BENEATH BROKEN EARTH (06:08)
Nick Holmes: “Per quanto riguarda la composizione, essere impulsivi non sempre funziona e può essere rischioso; tuttavia, quando pensavamo di aver completato il songwriting, abbiamo deciso di scrivere un brano 100% doom nel bel mezzo delle registrazioni delle parti di batteria presso gli Orgone Studios, per sommo dispiacere di Adrian! Dei paragoni con ‘Rotting Misery’ verranno scomodati immediatamente, ma, anche se sono simili, credo che questa canzone abbia un’atmosfera moderna. E per me è anche un brano migliore! Il testo parla di tutte le vie che conducono alla morte: indipendentemente dallo stile di vita e dalla fede che uno ha, vi è solo una fine. Il ‘sovrano’ è la morte”.
I Paradise Lost spezzano la tracklist con la loro prima, vera death-doom metal song degli ultimi 20/25 anni. Con “Beneath Broken Earth” la band torna di prepotenza ai suoi lontanissimi esordi. Ritmiche solenni, una melodia da lacrime e un growl imperioso costruiscono un brano monolitico che con tutta probabilità farà venire i brividi a molti fan della prima ora (e spiazzerà completamente gli amanti dei dischi più ariosi). Per sei epicissimi minuti torniamo ad identificare i Paradise Lost con un album come “Lost Paradise” e, al tempo stesso, la nostra mente va agli amici My Dying Bride e Anathema e ad opere che hanno segnato un’epoca come “As the Flower Withers”, “Serenades” o “Pentecost III”.
SACRIFICE THE FLAME (04:40)
Nick Holmes: “Un pezzo un po’ più controllato, che parla di come la purezza venga misurata su bugie e inganni. Ho sempre pensato che la metafora degli esseri umani visti come candele o stelle nel cielo fosse vagamente puerile, ma con il tempo ho imparato a trovarla un’idea bella e romantica. In una stanza piena di gente e candele è sempre affascinante immaginare quali si estingueranno per prime”.
Degli archi introducono e guidano un triste midtempo nel quale Holmes alterna una strofa pulita e rilassata ad un chorus ricco di malvagità e disperazione. L’alternanza tra pieni e vuoti, clean e growl, qui si affida ad uno svolgimento piuttosto lineare, interrotto solo da un break centrale più vicino al death-doom e da un contro-break interamente orchestrale. Dopo la durezza di “Beneath Broken Earth”, la band concede respiro, ma l’anima nera dei “nuovi” Paradise Lost è sempre in agguato. Brano che cresce tantissimo con gli ascolti!
VICTIM OF THE PAST (04:27)
Nick Holmes: “Abbiamo presentato questo brano al nostro concerto presso il Teatro Romano di Plovdiv in Bulgaria, molto prima che venisse effettivamente registrato. Si è trattato di un’esperienza abbastanza surreale per noi, visto che era dal periodo dei demo negli anni Ottanta che non ci capitava di suonare live un pezzo che doveva ancora essere inciso. Siete vittime del passato? Penso che questa sia la domanda che il titolo pone. Credo che noi tutti siamo vittime di ciò che è avvenuto prima di noi, visto che non vedremo mai il futuro. Sono piuttosto sicuro che, bella o brutta, ogni decisione che prendiamo sia dettata da qualcosa che abbiamo vissuto direttamente o indirettamente in passato”.
Un altro pezzo dalla pronunciata componente orchestrale. Su “The Plague Within” i Paradise Lost sembrano avere una certa predilezione per questi midtempo dai toni epici, ideali per incamerare sia strofe eteree che parti più torve e severe. Nonostante Mackintosh in sottofondo lavori di cesello con le sue tipiche melodie, di nuovo lo sviluppo della canzone appare snello ed essenziale: la strofa è pulita e malinconica, mentre il chorus è su registri death metal.
FLESH FROM BONE (04:18)
Nick Holmes: “Una delle canzoni più aggressive dell’album. Proprio come ‘Beneath Broken Earth’, questo pezzo è stato concepito tardi, sull’onda di un momento di ispirazione death metal. I testi death metal sono spesso molto drammatici e violenti: dopo circa vent’anni trascorsi a scrivere parole in un modo un po’ più ragionato, è stato divertente tornare a scrivere qualcosa di più aggressivo. Del resto, le parole devono calzare con la musica”.
L’incipit sinfonico e i tenebrosi cori di accompagnamento fanno inizialmente pensare ad un pezzo sulla falsariga dei due precedenti, magari con un’atmosfera un filo più apocalittica. Tuttavia, dopo un minuto la traccia si trasforma radicalmente: Adrian Erlandsson sale in cattedra e tutto ad un tratto ci ritroviamo nel pieno del brano più serrato della storia dei Paradise Lost. Forse alcuni scomoderanno paragoni con Vallenfyre o Bloodbath, i progetti death metal che ad oggi vedono coinvolti i Nostri, ma in realtà il riffing di Mackintosh qui pare avere più di qualcosa in comune con formule black metal. Tremendo – in senso buono – il ritornello, nel quale il perfido growl di Holmes è avvolto dai cori sentiti all’inizio. Episodio sorprendente.
CRY OUT (04:29)
Nick Holmes: “Probabilmente il brano più vivace e rockeggiante del disco: un episodio assai diverso da quello precedente! Il testo parla della reazione umana alle situazioni scomode, e del senso di colpa. Nello specifico, affronto il tema di come a volte si provi a cercare una via di uscita da situazioni senza speranza, per poi fallire miseramente”.
“The Plague Within” è un album che vive di sbalzi improvvisi e di alternanze e “Cry Out” ne è la dimostrazione definitiva. Dopo un brano al limite del black-death metal, i Paradise Lost sfoderano una canzone che nel vivace e baldanzoso riff portante arriva a ricordare Cathedral e Orange Goblin, mentre nella parte centrale esprime tendenze classic metal dal tiro arrembante. Qui Holmes fa praticamente di tutto: growl nella strofa, pulito Hetfieldiano nel ficcante chorus e persino il suo timbro più gothic-dark nel mezzo. Traccia subito riconoscibile e altamente orecchiabile, che potrebbe diventare una bella hit in sede live.
RETURN TO THE SUN (05:43)
Nick Holmes: “A livello lirico, per questo brano avevo immaginato un grande concept ispirato dal titolo: l’umanità che fallisce e che prova a ripartire da un raggio di sole… il tornare alla realtà e il cercare di ripartire da zero. Certe relazioni sarebbero le stesse o avverrebbero del tutto se il tempo si riavvolgesse? Chissà. Con lo sviluppo della musica il testo tuttavia ha preso una piega diversa: ora parla del pensare di conoscere bene una persona, ma di come al tempo stesso si sia anche sicuri di non conoscerla affatto”.
L’album si chiude con un’altra composizione dal taglio epico, che in cinque minuti abbondanti riesce a racchiudere buona parte delle formule espresse sin qui dalla band. L’attacco è il più solenne del disco, tanto da indurci a pensare che il pezzo avrebbe potuto funzionare perfettamente pure nel ruolo di opener. Tra cori roboanti e linee orchestrali magniloquenti, i fan dei Septicflesh potrebbero trovare più di uno spunto d’interesse in “Return To The Sun”. Non dimentichiamoci però che si tratta pur sempre di un brano dei Paradise Lost: Holmes marchia a fuoco il pezzo con la gamma completa dei suoi registri, disegnando il bridge e il chorus migliori del lavoro, mentre il resto del gruppo produce trame che, come da tradizione, raggiungono un ottimo compromesso tra spessore e immediatezza. Non il brano più heavy di “The Plague Within”, ma sicuramente quello più trionfale.