A cura di Roberto Guerra
Sono passati tre anni dalla prima volta che abbiamo avuto modo di sentir parlare del progetto Refuge, che altro non rappresentava una sorta di reunion di una delle numerose line-up dei teutonici Rage, per la precisione quella che è rimasta stabile dall’album “Perfect Man”, datato 1988, fino al mitico “The Missing Link”, uscito nel 1993. Nel frattempo questi ultimi rinascevano ancora una volta a nuova vita con l’ennesimo stravolgimento della formazione dopo la separazione del buon Peter “Peavy” Wagner dal chitarrista Victor Smolski e dal batterista André Hilgers, tant’è che qualcuno si domandò come mai Peavy, piuttosto che mantenere attivi due gruppi separati, non avesse direttamente richiamato Manni Schmidt e Chris Efthimiadis in pianta stabile nella band principale. E’ una domanda lecita cui può essere sia semplice che difficile fornire una risposta effettiva, ma in base a quello che abbiamo avuto modo di capire, è evidente che Peavy avesse già deciso di fare esattamente ciò che aveva sempre fatto: aprire un nuovo capitolo della storia dei Rage con nuovi membri che potessero portare un po’ di aria fresca alla sua band e, per quanto opinabile si possa ritenere questa scelta, considerando la qualità degli ultimi due violentissimi album, non ci sentiamo affatto di lamentarci. Tornando ai Refuge, inizialmente i loro concerti si componevano unicamente di tracce provenienti dal suddetto periodo in cui questi tre musicisti calcavano insieme i palchi di tutto il mondo – e chi vi scrive ricorda ancora quando li vide dal vivo nell’estate del 2015 al Bang Your Head e al Barcelona Rock Fest, rimanendo piacevolmente esaltato, data la storica qualità delle canzoni, ma anche con un po’ di amaro in bocca per via della dubbia utilità di questo progetto. Oggi invece le cose cambiano, poiché i Refuge, affiancati dalla ormai inarrestabile Frontiers Records, hanno deciso di dare una svolta alla propria attività immettendo sul mercato un nuovo album dal titolo “Solitary Men”, del quale Metalitalia.com ha prontamente deciso di fornirvi una succosa anteprima, in attesa della recensione che avrete modo di visionare più avanti. Perciò, vi auguriamo buona lettura e confidiamo che le nostre parole possano stuzzicare adeguatamente la curiosità di tutti gli estimatori dell’heavy metal teutonico che da sempre ci fornisce ottimi spunti per esaltarci.
REFUGE
Peter “Peavy” Wagner – voce, basso
Manni Schmidt – chitarre
Chris Efthimiadis – batteria
SOLITARY MEN
Data di uscita: 08/06/2018
Etichetta: Frontiers Records
01. Summer’s Winter (04:29)
Come di consueto in un lavoro di questo genere, dopo una piccola intro in crescendo, un riff micidiale di chitarra che trasuda heavy metal da ogni plettrata ci dà il benvenuto nel primo lavoro ufficiale dei Refuge. Si affiancano una batteria dall’incedere incalzante e Peavy con la sua tipica voce graffiante, seppur in questo caso meno alterata e più orientata a un utilizzo pulito e meno grezzo rispetto a numerose altre occasioni, il che ci riporta ulteriormente indietro al periodo di “Perfect Man” e successivi, con in generale una forte attenzione al comparto melodico e una pesantezza generale sì presente, ma decisamente meno enfatizzata rispetto appunto ai recenti lavori dei Rage. Degno di nota anche il breve assolo dall’inizio eseguito evidentemente in tapping, non particolarmente originale ma indubbiamente azzeccato e dal sapore decisamente old-school, così come il finale del pezzo piuttosto lento e quasi da ballad. Unico appunto che ci sentiamo di fare: uno dei riff in palm muting doveva essere gestito meglio, poiché in quelle fasi si percepisce quasi un leggero senso di scarsa pienezza.
02. The Man In The Ivory Tower (04:57)
Rallentiamo leggermente il tempo con questo brano caratterizzato anch’esso da un main riff piuttosto semplice e da un cantato leggermente più grintoso rispetto alla traccia precedente, con un ritornello che rimane in testa facilmente sin da subito, in cui Peavy si lascia andare a tutta la sua verve interpretativa. Anche il bridge che precede l’assolo è accattivante, con un comparto ritmico roccioso e possente che avanza a passo di marcia fino allo sfoggio di chitarra solista, anche qui non particolarmente lungo e relativamente essenziale. Per certi versi questo brano ci ha riportato alla mente lo stile dell’album “End of All Days”, dove non era già più presente Manni, ma che rispecchia al meglio la sensazione che si prova all’ascolto di questo secondo pezzo.
03. Bleeding From Inside (04:49)
Un livello qualitativo, ovviamente a parere di chi vi scrive, decisamente superiore per questa terza traccia, il cui tagliente riff principale non risulta affatto scontato, ma al contrario trasmette una piacevole sensazione riguardo al fatto che l’estro compositivo dei Nostri è ancora presente, anche per quanto riguarda le cose apparentemente più semplici. Anche qui abbiamo un assolo tutto sommato essenziale e un utilizzo della voce azzeccato e perfettamente in grado di valorizzare l’eccelso comparto ritmico che crea la struttura di uno dei brani più riusciti dell’album; ci auguriamo decisamente che Peavy e soci decidano di inserirlo nella scaletta dell’eventuale futuro tour dedicato.
04. From The Ashes (04:45)
Adesso è tempo di darsi all’headbanging più sfrenato con questa traccia velocissima e dalla potenza non indifferente, ovviamente fermandosi in occasione del ritornello per cantarlo a squarciagola insieme a Peavy. Verso i tre minuti il pezzo rallenta proponendosi invece in maniera temporaneamente più cadenzata e rockeggiante prima di accelerare nuovamente in concomitanza di un assolo sta volta più in evidenza e composto da un numero maggiore di note, il quale precede un’ultima ripetizione del ritornello in cui un ultimo sfoggio vocale ci avvia verso la conclusione con tanta sana adrenalina ancora in corpo. Come per il precedente, anche questo è decisamente un pezzo da proporre in sede live per la gioia dei nostri colli e delle nostre spalle.
05. Living On The Edge (04:51)
Tre rintocchi di campana introducono quello che appare sin da subito come uno dei pezzi più lugubri e martellanti dell’album, che procede lento fino allo scoppio del main riff semplice e quasi di matrice stoner per via dell’accordatura piuttosto bassa della chitarra e del suo particolare incedere, che in questo caso appare sì violento ma anche piuttosto monotono e con poco spazio per delle derive interessanti e melodiche. Tutto questo mentre la batteria pesta anche qui come se ci trovassimo in una marcia militare e con la voce di Peavy a rubare la scena per via della struttura delle lyrics a parer nostro non propriamente azzeccata in questo contesto già di per sé non particolarmente esaltante. Decisamente un mezzo passo falso.
06. We Owe A Life To Death (04:37)
Nettamente migliore della precedente, seppur con un leggero senso di deja-vu, un sesto pezzo decisamente più carico di spunti interessanti e in grado di arricchire una base che comunque parte già con all’interno delle idee ispirate, soprattutto per quanto riguarda la scelta su come collocare e sfruttare i vari elementi; in particolar modo la chitarra di Manni qui viene veramente ben valorizzata grazie non solo alle parti ritmiche, ma soprattutto per via di un utilizzo sapiente della solista anche in concomitanza col cantato, magari inizialmente per fini decorativi, che però alla fine riesce a dare tutto un altro sapore a questo pezzo, il quale fino ad ora appare quello che più di tutti ci ha riportato alla mente gli anni ’80.
07. Mind Over Matter (04:15)
Altro mezzo passo falso, seppur meno evidente rispetto a quello sopracitato: al di là di un buon lavoro di chitarra, questo pezzo sembra sin da subito mancare di mordente, anche per via di un ritornello decisamente scontato in cui Peavy si limita a intonare il titolo della canzone ripetendolo per due volte di fila prima di dare nuovamente spazio alla chitarra e alla batteria. L’assolo invece non è niente male e in parte, soprattutto per chi è chitarrista, risolleva le sorti di una traccia a parer nostro leggermente anonima e tutto sommato abbastanza dimenticabile.
08. Let Me Go (04:49)
Qui invece siamo in presenza della canzone più orecchiabile del pacchetto, soprattutto per quanto riguarda il comparto melodico e la struttura delle parti cantate che, volendo, la rendono quasi adatta alla colonna sonora di un film per ragazzi, seppur con una discreta dose di headbanging. La parte dedicata all’assolo invece ci si presenta con un sapore leggermente ‘motorheadiano’, sia per quanto riguarda lo sfoggio solista in sé, sia per il comparto ritmico ad accompagnare il tutto. Un buon pezzo quindi tutto sommato, divertente e piacevole su cui alla fine non c’è molto da dire, il che vale un po’ per tutto l’album fino ad ora. Con le dovute eccezioni, ovviamente.
09. Hell Freeze Over (04:34)
Eccezioni tipo questa, per l’appunto. Un lick di chitarra solista abbinato a due accordi quasi dissonanti, insieme a una batteria nuovamente col turbo inserito, sono la base di un brano davvero interessante e non così intuitivo come potrebbe sembrare; anzi, all’ascolto potremmo dire di essere rimasti anche relativamente spiazzati per via delle scelte di songwriting applicate in questo contesto: su tutte la terza parte è quella che ci ha lasciati più straniti, soprattutto considerando l’assenza di un vero e proprio assolo, sostituito in questo caso da un bridge melodico un po’ alla Accept e poi da un brevissimo sfoggio di chitarra solista carico e tamarro al punto giusto, prima ovviamente del ritornello finale e alle ultime battute dedicate al lick e agli accordi utilizzati anche all’inizio.
10. Waterfalls (07:32)
Da notare come le nove tracce precedenti siano tutte accomunate da una durata compresa tra i quattro e i cinque minuti; non ci è dato sapere se si tratti di una scelta voluta o di una pura e semplice coincidenza, ma fatto sta che ora siamo giunti all’apparente finale dell’album, rappresentato dalla traccia più lunga di tutto il lavoro. Lo scroscio dell’acqua di una cascata e successivamente Manni che gioca col volume della sua chitarra sono i principali protagonisti del primo minuto del brano, dopo il quale sopraggiunge Peavy con la sua voce per cantare le prime struggenti parole. Verso metà il pezzo si incattivisce, continuando però ad attestarsi su ritmiche non particolarmente veloci e dall’incedere tendenzialmente epico e cadenzato fino a un finale sulla falsa riga dell’inizio, quindi nuovamente con la cascata e con le note di chitarra ad arricchire il rumore dell’acqua prima del silenzio.
11. Another Kind of Madness (Bonus Track) (05:49)
Sorpresa, abbiamo una bonus track! Nuovamente un inizio lugubre e a tratti quasi dissonante caratterizzato da un oscuro arpeggio di chitarra acustica, seguito da un riff semplice e martellante così come da un ritornello forse anche troppo urlato e tutto ciò si ripete nuovamente, ma con il buon Manni ad aggiungere un po’ di varietà grazie alla sua chitarra solista in concomitanza con l’arpeggio iniziale. In generale, un brano alla stregua degli altri, che in questo caso definiremmo discreto ma nulla di più. Detto questo, vi rimandiamo alla recensione che uscirà tra circa un mesetto sulle nostre pagine, nella quale tireremo le somme sulla qualità così come sull’utilità di un lavoro che sicuramente ha saputo esaltarci in alcuni momenti, ma anche tutto sommato annoiarci in un paio d’altri; tuttavia vi invitiamo a non commettere l’errore di sottovalutarne l’uscita, anche perché col tempo le opinioni potrebbero maturare e in fase di recensione potreste trovare degli spunti qualitativi che qui non sono stati evidenziati.