A cura di Giovanni Mascherpa
Approdano al sesto album, i polacchi Riverside, gruppo progressive ben noto tra i cultori del genere, che hanno riconosciuto e acclamato in passato il valore di opere rare all’interno del panorama prog contemporaneo come “Second Life Syndrome” e il penultimo “Shrine Of New Generation Slaves”. A soli due anni da quest’ultimo, gli uomini di Mariusz Duda, unico compositore sia per la musica che per i testi, cambiano nuovamente volto, fedeli a sè stessi e all’indole irrequieta che li ha portati negli anni a non affezionarsi troppo a quanto già composto, ma a mutare pelle ad ogni disco, mantenendo sempre una forte identità di fondo. Oramai esperti e sicuri delle proprie possibilità, i musicisti di Varsavia hanno optato per un cambiamento molto forte, figlio dell’esigenza di Duda di allontanarsi dalle tonnellate di oscurità esplorate e diffuse negli album precedenti. Ecco così nascere un disco morbido, soft, come “Love, Fear And The Time Machine”, incentrato dal punto di vista lirico sui processi decisionali del singolo individuo; come se si fosse all’interno di una macchina del tempo, ed esistesse la possibilità di scoprire cosa ci riserva il futuro, ognuno prova a immaginare le conseguenze dei propri atti, a valutare le diverse ipotesi e infine approdare a una fatidica scelta. Chiaroscuri e contrapposizioni di suoni sono un cardine della proposta dei Riverside e i conflitti decisionali, la spinta al cambiamento contro il timore della novità, la libertà di tracciare il proprio destino e il timore di commettere errori irreparabili ben si fondono alla musica altamente composita del quartetto. Una band, quella polacca, che, per quanto sia stata sempre inserita nel filone progressive metal/rock moderno, vive in una sua nicchia consolidata, abbastanza lontano dalle correnti prog oggi in auge: né usi a fastosi tecnicismi ed esibizionismi, né avanguardistici, né morbosamente innamorati degli Anni ’70, i Riverside, nelle intenzioni dei suoi stessi componenti, prendono sì spunto dai Seventies e dagli Eighties, ma poi rielaborano il tutto sotto un’ottica gelosamente personale. A margine della data milanese dell’ultimo tour, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare in anteprima il disco in uscita il 4 settembre per InsideOut, tramite il possente impianto audio del palco del Lo-Fi, quindi in condizioni ottimali per assaporare tutte le pieghe dell’opera. Le prime impressioni ricavate le trovate qua sotto: facendo un discorso generale sul materiale udito, azzardiamo che ancora una volta i Nostri non deluderanno i fan di lunga data e andranno probabilmente ad allargare il proprio bacino d’utenza tramite un lotto di pezzi scorrevoli, melodicamente finissimi, leggeri senza essere mai lontanamente smielati o ruffiani. Grande musica, insomma, lontana anni luce dall’omologazione.
RIVERSIDE – “Love, Fear And The Time Machine”
Etichetta: InsideOut
Data di uscita: 4 settembre 2015
www.riversideband.pl
01 – Lost (Why I Should Be Frightened By A Hat?) (05:51)
Il processo di ammorbidimento e rilassamento è immediatamente evidente nell’opener, presentata al pubblico nelle recenti date estive, dove fungeva addirittura da primo brano in scaletta. Un delicato intro di tastiere accompagna l’iniziale soliloquio di Duda, che scandisce accorato le strofe accompagnato da un pulsare di basso appena accennato e leggere pizzicate di chitarra. Anche quando entrano in gioco le prime distorsioni, queste sono smussate, gentili: aleggia un sentore malinconico fortissimo,sostenuto incessantemente dalla vocalità serena del frontman. Ottimo il tappeto di sintetizzatori di Łapaj, sottofondo dal sapore a volte Seventies, in altri casi smaccatamente ottantiano. Arrangiamenti pregevoli arricchiscono una canzone snella e dal grande impatto emotivo. Si inizia col piede giusto.
02 – Under The Pillow (06:47)
I toni melliflui sembrano trovare una naturale prosecuzione con la seconda traccia in scaletta. Un arpeggio simultaneo di basso e chitarra apre le porte al poetare del leader, secondo uno schema che andrà a ricorrere in molti altri punti del disco. La prima parte del pezzo prosegue con tutta calma, il punto centrale rimane la voce e gli altri strumenti la accompagnano cercando di non fare troppo rumore, ma fornendo appigli fondamentali per esaltarne i significati e la portata emotiva. Poco oltre un terzo del minutaggio, un misurato ispessimento della distorsione chitarristica e del volume dei sintetizzatori smuove la traccia, che assume connotati più vivaci e ha nel riuscito chorus il suo apice di energia e inventiva. Splendida l’unione di lunghe note chitarristiche e synth verso la fine, quando i due strumenti diventano praticamente una cosa sola. Un altro pezzo delicato, difficile da collocare rispetto alle diverse scuole del progressive già note, curato in ogni piccolo dettaglio e interazione strumentale.
03 –#Addicted (04:52)
Eccoci a quello che potrebbe diventare il pezzo di ‘aggancio’ per il pubblico meno avvezzo alla proposta dei polacchi. Un giro di basso iper-catchy, un ritmo di batteria molto semplice e liquide note di tastiera supportano Duda in linee vocali di immediata assimilazione, una presa in giro sottile, ironica, delle relazioni interpersonali ai tempi dell’hashtag per qualsiasi evenienza. L’incedere ritmico è brioso, le tastiere salgono e scendono di volume accompagnando coretti ariosi quasi di sapore pop. “Hashtag Me And Go, I Am Addicted To Your Love” recita il testo, e possiamo affermare che questa frase difficilmente vi uscirà dalla testa nei prossimi mesi. Anche in questo caso, notiamo una vastità di idee negli arrangiamenti davvero rara, che dimostra quanto si possa essere creativi anche suonando musica relativamente semplice come quella di “#Addicted”.
04 – Caterpillar And The Barbed Wire (06:56)
Non pensiate che la parola ‘caterpillar’ nel titolo porti a un indurimento delle sonorità; semmai, questa traccia dilata ulteriormente le atmosfere, con un ampio uso della chitarra acustica accanto al solito basso affusolato e a tastiere da intuire più che da ascoltare. L’insieme è apparentemente scarno, a circa metà canzone Duda rimane solo, per un toccante contrappunto ‘a cappella’, preambolo a una ripartenza lineare, dove si riprende il precedente giro dettato dalla sei corde acustica. Un sommesso crescendo verso il termine fa di nuovo divertire il buon Łapaj: una controllata pioggia di sintetizzatori irrompe sulla scena di fianco a una distorsione di chitarra poco invadente e a un basso leggermente più tumultuoso. Episodio questo non immediatissimo, ma che pensiamo possa regalare alla pari dei precedenti forti emozioni a fan vecchi e nuovi dei Riverside.
05 – Saturate Me (07:08)
Per i primi due minuti i Riverside vestono quasi i panni del gruppo prog ‘classico’: stacchi e controtempi, incastri ritmici di difficile costruzione, pause, riffing sconnesso, tastiere zuzzurellone, dal tocco un po’ folle. Uno sfogo fisico neanche tanto esasperato, a dire il vero, ma che spicca nella calma generale e, in modo neanche tanto nascosto, omaggia nei giri di basso il buon Geddy Lee dei Rush. Nessun segnale in ogni caso di metal propriamente detto, genere al quale i Nostri non si sono mai sentiti legatissimi, e la riprova la abbiamo quando il brano entra nel vivo e si adagia su un mood sognante. Le tastiere battono sentieri elettronici, l’ovattato suono dei tamburi si permea di un pizzico di durezza, in contrasto con una voce mai così languida. Al centro, un crescendo salvifico, dai deliziosi intrecci vocali, traghetta verso un altro spezzone di ascendenza progressive più familiare. Poi arriva Duda a sospirare ciclicamente la stessa strofa, abbassando la voce impercettibilmente fino al termine. Arrivati a metà disco, non siamo ancora riusciti a trovare qualcosa che non ci convinca di questo “Love, Fear And The Time Machine”.
06 – Afloat (03:11)
“Afloat” si stacca nettamente nella costruzione dal resto della tracklist, mentre rimane saldamente ancorata ad essa nel clima emotivo. Trattasi di un intermezzo crepuscolare composto da un giro di basso abbastanza elementare, tastiere liturgiche e una chitarra toccata quel tanto che basta per spruzzare tristezza ovunque: lo sguardo sul passato diventa insistente, sofferto, la voce di Duda, pervasa da una nostalgia opprimente in tutto il disco, si crogiola in una poetica raffinata e di grande intensità comunicativa. Rimaniamo colpiti dalla capacità del gruppo di toccare le corde più profonde dell’animo umano con poche note, dote dei veri fuoriclasse.
07 – Discard Your Fear (07:00)
Uno dei punti più alti dell’album. Song dalle molteplici sfaccettature, “Discard Your Fear”, forse la più completa fra i dieci inediti proposti dalla band di Varsavia. Un drone risale la corrente e si impasta a una combinazione di batteria elettronica, lasciando presto spazio all’ennesimo giro di basso ammaliante di Duda. La voce batte in apertura i territori del falsetto, spostandosi presto su linee calde, confortevoli. La chitarra ricama su pochi accordi, lievissima, la scena è tutta per la voce; tastiere e batteria compiono un lavoro abilissimo e tentacolare, pur restando sottotraccia. Si alternano momenti intricati e altri molto scorrevoli, con alcuni vocalizzi molto teatrali e fuori dai normali registri del vocalist. Il ritornello, dal significativo incipit “Discard/your fear/ of the unknown”, è emozione pura: nella seconda parte un leggero ispessimento della chitarra lascia presagire un incupimento delle atmosfere, che arriva solo in parte, prima di un finale dolcissimo, di nuovo in preda alla voce cristallina del mastermind.
08 – Towards The Blue Horizon (08:09)
Canzone idealmente divisibile in quattro tronconi. Il primo, grosso modo i tre minuti in apertura, sono quanto di più mansueto il gruppo possa proporre: una struggente ballata per chitarra acustica e pianoforte, condotta magistralmente dalla passionale vocalità di Duda. Segue un intermezzo strumentale ricco di arrangiamenti digitali, tempi dispari e una strisciante tentazione ad entrare di getto nelle tenebre. È uno degli spezzoni più affini al metal dell’intero disco, ributtato in ambienti vellutati dalla nuova scomparsa della chitarra distorta, utilizzata con parsimonia per l’intera release, a favore di una ripresa del motivo iniziale, forse con toni ancora più delicati. Infine, ecco una nuova iniezione di chitarre aggressive e tastiere dal sapore orchestrale, per un contrappunto conclusivo che ci ha ricordato vagamente i migliori Pain Of Salvation.
09 – Time Travellers (06:41)
Chitarra acustica e voce dettano i tempi anche in questa occasione. Non intervengono grosse variazioni per tutto il corso del pezzo, che in questo caso avrebbe forse potuto avere un minutaggio leggermente inferiore. Il valore del ricordo, il desiderio inappagato di ritornare indietro nel tempo e rivivere certe emozioni diventano palpabili, insopprimibili nell’animo di un artista che con questo disco ha voluto addentrarsi in profondità nella propria sensibilità, e somministrare ai fan dei Riverside tutto il ricavato di questo processo maieutico. Pur non annoverando “Time Travellers” tra gli highlight del disco, il suo valore emozionale non è in discussione.
10 –Found (The Unexpected Flaw Of Searching) (04:03)
Nessuna impennata all’orizzonte per la chiusura definitiva del cerchio. Quasi metà del brano prosegue su coordinate acustiche: un primo minuto di sola chitarra e voce, quest’ultima poco più di un sussurro, prima che intervengano anche gli altri strumenti a smuovere appena le acque. Traccia molto lineare, che lavora per induzione nella mente di chi ascolta, predisponendo a uno stato d’animo pacificato, in armonia col mondo. Quello che si è perso ora lo si è ritrovato e si può tornare a sorridere. È quello che si augura Mariusz Duda, arrivare al termine dell’album rasserenati da quanto si è ascoltato. Obiettivo che ci pare sia stato centrato dai Riverside.