Sei mesi al TOP!

Pubblicato il 01/07/2005

DARK TRANQUILLITY – CHARACTER

DARK TRANQUILLITY - Character
“Character”, “Carattere”: un titolo del genere sarebbe sufficiente da solo a far comprendere a dovere tutti i contenuti lirici e musicali dell’attesissimo ritorno dei Dark Tranquillity. Dopo un album tutto sommato easy listening e per certi aspetti ordinario (ma comunque acclamatissimo!) come “Damage Done” qualcuno li aveva già dati per finiti e questo deve aver fatto un tantino incazzare Mikael Stanne e compagni, i quali, giunti all’appuntamento con il seguito, non solo hanno fatto di tutto per scrivere delle canzoni ancora più ispirate ma hanno tirato fuori tutta la loro tecnica e creatività, arrivando a comporre dei pezzi complessi e sfaccettati come non se ne sentivano da tempo, aggressivi ma incredibilmente melodici, semplicemente il loro miglior materiale degli ultimi anni, almeno dai tempi di “Projector”. Lontani come sempre da ogni logica e da qualsiasi trend, i Dark Tranquillity questa volta hanno messo insieme una manciata di brani di un’intensità emotiva e stilistica che ha pochi paragoni. Rispetto all’immediatezza di “Damage Done” qui si è davvero su un altro pianeta, non c’è fortunatamente spazio per composizioni semplici e allegrotte che dicono tutto dopo un paio di fruizioni, non esiste una nuova “The Treason Wall”! Le nuove canzoni sono comunque melodiche e trascinanti ma contengono più riff, più cambi di tempo, più break, godono di arrangiamenti di una cura allucinante e ad ogni ascolto regalano qualcosa di nuovo. A livello di strutture si è tornati in pratica al periodo “The Gallery”/”The Mind’s I” ma è doveroso precisare che “Character” non è affatto un semplice album in linea con il vecchio sound della band. E’ vero infatti che le chitarre sono tornate a duellare, che Stanne ha adottato di nuovo lo screaming di un tempo e che l’opener “The New Build”, composizione addirittura sorretta da blast beat, a livello di ferocia è seconda solamente alla vecchissima “Of Chaos And Eternal Night”… ma un pezzo duro, stralunato e semi industrial come “The Endless Feed” ha precedenti nella storia del gruppo? E che dire delle orchestrazioni di “Lost To Apathy” o della rudezza della parte centrale di “Mind Matters”? C’è tanto di vecchio nel nuovo album dei Dark Tranquillity ma anche tante piccole cose nuove. Martin Brandstrom, ad esempio, con le sue tastiere e i suoi campionamenti è praticamente ovunque, ha a disposizione molto più spazio che in “Damage Done” e lo sfrutta al meglio: utilizza diversi suoni nuovi ed è sempre puntuale nell’incupire ulteriormente certi passaggi o nel dare enfasi a determinate melodie. Non esitiamo a definirlo la vera marcia in più di questo platter. Dal canto suo però anche la coppia Sundin/Henriksson esalta, esprimendosi su registri più che mai violenti e rabbiosi e non pensandoci un attimo a sfoderare dei riff-schiacciasassi spesso sconfinanti nel puro thrash metal (parti della succitata “The New Build”, “Through Smudged Lenses”). “Senses Tied” purtroppo appare un po’ spenta ma è l’unica nota stonata di questo vario, attuale e ispiratissimo disco, che tra i suoi cavalli di battaglia può annoverare anche la tristissima “Am I 1?” e la conclusiva “My Negation”, canzone lunga, lenta e dalle tinte quasi epiche che potrebbe far venire alla mente anche vecchi capolavori come “A Bolt Of Blazing Gold” o “…Of Melancholy Burning”! Non sarà un lavoro fondamentale – “The Gallery” infatti, per chi scrive, rimane ancora l’apice compositivo e l’album simbolo del sestetto di Gothenburg – ma “Character” globalmente straccia sia “Haven” che “Damage Done”, si posiziona ad anni luce di distanza da qualsiasi altro prodotto melodic death metal pubblicato almeno nell’ultimo lustro e proietta i Dark Tranquillity definitivamente ai vertici della scena svedese, europea e mondiale, posto che spetta loro di diritto essendo una delle metal band più influenti dell’ultima decade. La classe di questi ragazzi a tratti rasenta l’incredibile e per non perdere tutte le sfumature di questa loro nuova opera vi consigliamo caldamente di avere la pazienza di ascoltarla ripetutamente e con attenzione anche in cuffia. Procuratevela e consumatela… e, quando lo farete, ricordatevi dove avete letto certe cose!

/SPEEDKILL/HATE – ACTS OF INSANITY

/SPEEDKILL/HATE - Acts Of Insanity
Vi dice qualcosa il nome di Dave Linsk? No? Ci pensa il sottoscritto a rinfrescarvi la memoria: Dave è l’attuale chitarrista degli Overkill che, evidentemente non abbastanza appagato dal lavoro svolto nella sua band madre, ha deciso un paio d’anni fa di dare vita a questo progetto a nome “Speed-Kill-Hate”, nel quale riversare song originariamente scritte per la band newyorkese ma lasciate a quanto pare da parte nelle ultime fatiche di D.D. Verni e soci. Il progetto Speed-Kill-Hate si avvale inoltre della collaborazione dell’altro Overkill Tim Mallare (alla batteria) e del vocalist Mario Frasca, che ben si adatta a modellare urli rabbiosi sopra la musica feroce della band. Cosa c’è da aspettarsi, direte voi, da una band formata da una costola degli Overkill e giunta solo al debutto, visto che anche l’ultimo disco dei newyorkesi, quel tanto criticato “Killbox 13”, rappresentava sicuramente un passo indietro nel livello qualitativo del songwriting del gruppo? La risposta è semplice quanto sorprendente: un lavoro cui molti non tarderanno a dare addirittura l’appellativo di ‘capolavoro’. Il fatto che queste canzoni siano state composte da Dave per gli Overkill ma siano state rifiutate dalla band, dunque, possiamo ipotizzare non risponda a criteri di qualità (altrimenti il caro D.D. si sarebbe veramente lasciato sfuggire qualcosa che ormai non riusciva più a suonare da troppo tempo!!!), ma solamente di sound: se, infatti, è rintracciabile una certa influenza della band madre, visto che il thrash la fa da padrone in “Acts Of Insanity”, l’affresco sonoro del gruppo comprende anche, in certa misura, influenze del death europeo (in particolare al sottoscritto vengono in mente i polacchi Vader), dal metalcore (evidenti soprattutto nei primi pezzi del disco) all’influenza di Pantera e delle band che hanno seguito tale stile dopo di loro (e qui è difficile non citare le influenze subite dal pur recentissimo ma acclamatissimo “Tempo Of The Damned” targato Exodus). La caratteristica che colpisce subito del disco, un po’ inaspettatamente, è il livello qualitativo contenuto dei primi pezzi, che comunque presentano una ventina di minuti di ispirazione più che buona (specie in pezzi come “Walls Of Hate” e “Slay The Enemy”), anche se forse impediscono al disco di raggiungere il vero e proprio livello di masterpiece assoluto (cosa invece riuscita agli Exodus con uno stile abbastanza simile nella sopra citata ultima fatica); livello qualitativo, dicevamo, che, se contenuto inizialmente, DEFLAGRA letteralmente in tutto il suo potenziale distruttivo (sia in quanto a bellezza dei pezzi che a livello sonoro), unitamente a farsi portatore di un sound maggiormente influenzato dal thrash made in 80s, a partire dalla quinta “Won’t See Fear”, dopo la quale è pressoché impossibile non citare tutte le restanti song del disco, che raggiunge forse il suo apice – cosa difficile da dire, visto che questi pezzi sarebbero quasi degni di una pietra miliare della storia del metal! – con la successiva “Face The Pain”, durante la quale ogni ascoltatore di fede metallica senza inibizioni non si potrà trattenere dallo scatenarsi in una danza dalla violenza convulsiva, muovendo la sua testa al tempo delle sfuriate operate da Tim Mallare sul suo drum-kit.Ragazzi, questo è il suono del thrash del 2005, un suono che si è evoluto ed è distante quasi anni-luce dalla cattiveria primigena ed imprecisa di Metallica, Megadeth, Exodus, Anthrax: davanti ai nostri occhi e nei nostri padiglioni auricolari ora abbiamo delle perfette macchine da distruzione, precise, accurate, taglienti, geneticamente modificate rispetto a vent’anni fa – la tecnologia avanza, e “Acts Of Insanity” risulta in un certo qual modo comunque più freddo e meno sincero dei vari “Bonded By Blood”, “Killing Is My Business” e “Kill ‘em All” – ma che sapranno stendervi al suolo e lasciarvi senza energie ora esattamente come avveniva a metà anni Ottanta. Prendere o lasciare: il sottoscritto, che è un tradizionalista nonché detrattore delle sonorità di nuovo stampo, assicura che la prima opzione, riguardo a questo disco, è la migliore.

PARADISE LOST – PARADISE LOST

PARADISE LOST - Paradise Lost
I Paradise Lost sono tornati. Gregor Mackintosh è finalmente riuscito a comporre di nuovo un lotto di brani eccellente, delle composizioni di nuovo all’altezza della fama del suo fondamentale gruppo. Prove tutto sommato più che discrete ma mai particolarmente esaltanti come “Host”, “Believe In Nothing” e “Symbol Of Life” vengono letteralmente spazzate via da questo nuovo “Paradise Lost”, pluri annunciato ritorno alle origini che però, a conti fatti, non risulta affatto tale. Pur essendo infatti innegabile che le chitarre siano tornate ad avere un ruolo dominante nel sound della band e che certe melodie ed atmosfere siano chiaramente ispirati a quanto fatto su “Draconian Times” e persino “Icon” – dischi che dovrebbero assolutamente far parte della collezione di ogni vero amante della musica heavy metal – il nuovo omonimo album dei Paradise Lost si configura come un lavoro dotato di un’identità propria, ispirato ai succitati capolavori e, per certi aspetti, anche al notevole “One Second” ma tuttavia moderno e attuale. I Paradise Lost infatti non rinnegano per nulla quanto fatto sia con “Believe In Nothing” che con “Symbol Of Life”, oggi sono tornati a tutti gli effetti ad essere una metal band ma all’occorrenza sanno ancora essere ampiamente immediati e orecchiabili, sfoderando sovente accanto a dei riff realmente heavy una buona dose di elettronica e ritornelli catchy come non mai. C’è grande varietà in questo disco ma la qualità delle singole composizioni è davvero altissima, forse superiore anche a quella del sopra citato “One Second” (sino ad oggi l’ultimo platter recente della band che poteva sul serio essere definito ‘da avere’). Questo mix di vecchio e nuovo può davvero considerarsi riuscitissimo ed è fantastico constatare che nella tracklist non sia presente una sola caduta di tono: “Don’t Belong” è un’opener perfetta – oscura e imponente – che flirta addirittura con la storica “Embers Fire”, con “Accept The Pain”, “Sun Fading”, “Laws Of Cause” o “Grey” si rivivono le sensazioni provate al primo ascolto di una “Hallowed Land” o di una “True Belief” tanto il guitar work della coppia Mackintosh/Aedy è struggente, mentre “RedShift” e il primo singolo “Forever After” – caratterizzate da melodie di primissimo livello – sono così memorizzabili da essere senz’altro in grado di mettere a ferro e fuoco qualsiasi dance floor del globo. Nick Holmes è poi costantemente sopra le righe, abilissimo nel dosare una voce che sa essere melodica e riflessiva ma anche roca ed energica come ai vecchi tempi; artefice inoltre di testi come sempre veramente interessanti e sentiti. Una menzione infine la merita anche il tetrissimo artwork, a cura dell’ex bassista/vocalist dei mitici Septic Flesh Spiros Antoniou (in arte Seth): un’opera, la sua, a dir poco magistrale, un motivo in più per rimanere affascinati da questo “Paradise Lost”, un disco superlativo e che verrà ricordato a lungo, un disco che rappresenta l’inizio di un nuovo corso per una band che ha ancora molto da dire e che, nonostante le recenti avversità (l’abbandono dell’ottimo batterista Lee Morris), ha dimostrato di possedere la forza e la voglia di andare avanti, tornando a raggiungere livelli di magnificenza tali da far quasi gridare al miracolo.

PORCUPINE TREE – DEADWING

PORCUPINE TREE - Deadwing
Ed eccolo, infine, il gioiello. Dopo la decisavirata stilistica di “Stupid Dream” – che segnò nel ’99 il passaggiodalla psichedelia dei primi cinque lavori ad una profonda esplorazionedei territori della forma canzone – e dopo i clamori del riuscitissimo”In Absentia”, Wilson, Barbieri, Edwin e Harrison (con lacollaborazione e la benedizione di Sua Maestà Elliot Scheiner) tengonoa ribadirlo: nessun compromesso. Siate pronti – sempre – a sentirlicambiare direzione, di uscita in uscita, e non vi deluderanno. Mai,probabilmente. Con “Deadwing”, oggi, i Porcupine Tree raggiungono ungrado di appeal musicale dal potenziale altissimo, oltre che ad unacomplessità espressiva che infine approda a lidi mai prima d’ora cosìrocciosi. Basato su un concept tratto da un racconto-sceneggiatura cheWilson spera di far diventare, in un futuro imprecisato, un vero eproprio film, “Deadwing” si presenta come un album da ascoltare,leggere, guardare e scavare fino in fondo, ogni volta tutto d’un fiato.Crediamo infatti che, una volta iniziato l’ascolto, in pochiriusciranno ad interromperlo prima della fine: in apertura, “Deadwing”vomita fuori in dieci minuti, senza un chorus definito, tuttal’ambizione, la non-convenzionalità e gli intenti del disco, ovverostupire e raccontare, farvi scorrere la storia di David davanti agliocchi in un’ora di musica che conserva tutti i tratti distintivi dicasa Porcupine Tree, ma che pure non è mai stata tanto in-your-face.Ciò che è stato iniziato con “In Absentia” vede qui il suo compimento:l’intrecciarsi di armonie nei cori (tra i quali si nasconde anche lavoce di Mikael Akerfeldt) tanto cari alla band si alternano o sifondono con l’esplosione di grassi riff come quello della dirompente”Shallow”, singolo in uscita, in cui lo stesso Wilson dice di essersirichiamato alle “vibrazioni” dei Led Zeppelin portandosi però dietroanche i frutti della lunga collaborazione con gli amici Opeth,partorendo così il proprio modo di intendere la canzone rock. Subitodopo arriva il momento più delicato e lineare, in stileRadiohead/Coldplay, quella “Lazarus” che rappresenta la parte più caldae nostalgica dei Porcupine Tree del 2005, là dove poco più avanti”Halo” tornerà a riprendere le ostilità con un groove basso-batteriacontagioso e serpeggiante, vocals distorte e ripetitive e la chitarradi Adrian Belew (King Crimson, David Bowie) che accompagnano la vocenarrante in un viaggio attraverso una mistica follia di saporeindustrial à la Nine Inch Nails. “Arriving Somewhere – But NotHere” è il momento centrale e cruciale dell’album, che lentamente sisviluppa a partire da un’atmosfera velata di tastiere fino ad ‘aprirsi’in tredici minuti che toccano tutte le possibilità espressivesperimentate dalla band durante la sua carriera, dal progressive rockal metal e al pop, senz’altro l’episodio più ambizioso in termini dicomplessità strutturale e orizzontale, che si conclude svanendonell’aria lasciando posto alla gocciolante, dilatata “MellotronScratch” e alle sue fluttuanti armonie vocali tripartite, che sisovrappongono le une alle altre fino allo ‘shut down’ finale che chiudeil brano con vero e proprio scatto d’interruttore. Da qui il respiro sitrattiene fino all’inizio di “Open Car”, breve pezzo dai riff callosi emassicci dall’andatura sincopata in cui il viaggio di David prosegue in direzione di”The Start Of Something Beautiful”, il brano in più classico stilePorcupine Tree, che mostra ancora una volta la solita particolarepredilezione per i tempi articolati e il groove, e che si accoppianella fase conclusiva con la magnifica “Glass Arm Shattering”, finaledeflagrazione di melodia – quella onirica ed epica melodia di pinkfloydianamemoria che tanta parte hanelle radici della personalità stessa della band. L’avevamo detto, delresto: “Deadwing” èun gioiello, dalla storia inquietante e affascinante come un sogno che precede l’alba. E senza la piùpiccola sbavatura. Fulgido, tagliente, bellissimo. Da cui lasciarsiferire e conquistare. Di più non sapremmo dire, se non: un capolavoro.

“And I’m looking at a blank page now… / Should I fill it up with words somehow?”.

BRUCE DICKINSON – TYRANNY OF SOULS

BRUCE DICKINSON - Tyranny Of Souls
Sono trascorsi ben sette anni dall’ultimo esaltante disco di Bruce Dickinson in veste solista (con il prezioso apporto del chitarrista Adrian Smith), quel “The Chemical Wedding” che riscosse successo ovunque, mentre i suoi ex compagni Iron Maiden insieme allo sfortunato singer Blaze Bayley stavano vivendo il più brutto momento della loro ventennale carriera. Da allora molte cose cambiarono, Bruce si riunì a Steve Harris e compagnia dedicandosi anima e corpo all’attività della Vergine di Ferro, senza però dimenticare i suoi sogni solisti. Ancora una volta l’air raid siren si affida alle mani dell’amico produttore Roy Z ed insieme sfornano “Tyranny Of Souls”, album di caratura superiore che lascerà a bocca aperta i fans del singer britannico. Si riparte dalle atmosfere oscure di “The Chemical Wedding”, ma il senso di oppressione di quel vecchio lavoro è stato radicalmente smorzato a vantaggio si song epiche e potenti, come la violentissima “Soul Intruders” che inizia con una sfuriata di doppia cassa per poi esplodere in un ritornello epico magistralmente interpretato da Dickinson. Rimanendo in tema solenne, “Kill Devil Hil” contiene uno dei refrain più azzeccati di tutta la carriera del cantante, che si concretizza in linee vocali solenni e piene d’energia. Ed ancora, la semi-acustica “River Of No Return” ricorda a tutti che l’accoppiata Dickinson/Roy Z non teme rivali nemmeno in ambito di ballad, mentre “Devil On A Hog” sfodera un sound hard rock figlio dei mitici seventies. Con un biglietto da visita del genere, la carriera Bruce Dickinson arriva a toccare le stelle (come se ne avesse bisogno…), “Tyranny Of Souls” è degno di sedere allo stesso livello di capolavori come il già menzionato “The Chemical Wedding” e il debutto “Tattoed Millionaire”. E’ noto che Steve Harris non digerisca di buon grado che i componenti degli Iron Maiden si dedichino a progetti solisti, d’altro canto il buon Bruce se ne è altamente “fregato” e, lasciatemelo dire, per una volta ha fatto proprio la cosa giusta!

HACRIDE – DEVIANT CURRENT SIGNAL

HACRIDE - Deviant Current Signal
Segnalare come Top Album il disco d’esordio di una (ancora) sconosciuta band francese – tali Hacride – potrebbe sembrare, per certi versi, esagerato, oppure comunque un bell’azzardo. E allora, direte voi, perché farlo, a parte il voler azzardare? Be’, per due motivi principali: la scena estrema d’Oltralpe, in questi ultimi anni, si è rivelata fra le migliori e più prolifiche del continente, e ci riferiamo soprattutto a sonorità post-core e cyber metal, quindi la nostra scelta può essere vista come una sorta di premio a tanto ben di Dio; inoltre, e qui sta il fulcro del discorso, “Deviant Current Signal” è un disco che guarda avanti, dritto verso il metallo del futuro: futuro del metallo che poi è già presente, in quanto non sembra davvero un caso che questo lavoro esca a poche settimane di distanza da “Alien” degli Strapping Young Lad e nello stesso giorno di “Catch 33” dei Meshuggah. Già, perché gli Hacride, la cui decisione di rendere misteriose le proprie identità crea un alone criptico sull’operato del gruppo, sono, televisivamente parlando, lo “spin-off” delle due formazioni citate sopra. Ma non solo: assieme alla caustica claustrofobia degli svedesi, tutta tecnica e riff stoppati, e ai lancinanti richiami di furia apocalittica dei canadesi – il mood generale del platter è piuttosto “alieno” e ipnotizzante – gli Hacride mettono in mostra una sapiente dose di originalità, tramite preziosi riferimenti al post-core di Comity e Morgue (ma anche Dillinger Escape Plan, ovvio) e grazie all’uso imprevedibile e schizzato di input elettronici e passaggi acustici. Insomma, se date un attento sguardo alla stupenda cover, vi farete un’idea piuttosto vicina a ciò che “Deviant Current Signal” è in grado di trasmettere: un’enorme città di monolitici blocchi di pietra, illuminata da un fascio di luce di dubbia origine; immagine ripetuta anche nella back-cover, poi, con un’impercettibile differenza: ogni luce è sparita e nuvole di cenere oscurano i resti di una megalopoli primitiva. Otto brani compongono l’album, brani uno più bello e pesante dell’altro…e se l’opener “Human Monster” è “solo” ottima ma non eccezionale, non demordete e proseguite nell’ascolto, perché il bello arriva con le tracce seguenti, in particolare “Typo”, “Flesh Lives On” e “Protect” (quest’ultima impreziosita da un solo di sax da brividi). In definitiva, il debutto degli Hacride è sicuramente un acquisto imprescindibile per chi è solito guardare sempre avanti, per chi spesso si chiede dove andrà a parare in futuro il metal…le strade non sono molte, alcune sono ancora sbarrate, altre già sono state battute. Questi francesi sembrano astronauti in esplorazione spaziale: chi ci dice che a breve non si perdano nel Cosmo?

DREAM THEATER – OCTAVARIUM

DREAM THEATER - Octavarium
Tutti voi avrete avuto più di un’occasione per parlare con amici e conoscenti dei Dream Theater. Siamo certi che, ogni qualvolta l’argomento è stato tirato in ballo, sono emersi pareri tra i più discordanti, riassumibili – per necessità di sintesi – in tre grandi categorie: 1) quelli che… “i Dream non si toccano, tutti i loro dischi sono fantastici!”; 2) quelli che…”dei Dream mi piacciono solo ‘Images And Words e ‘Scenes From a Memory'”; 3) quelli che…”odio i Dream, badano solo al lato tecnico della loro musica, sono incapaci di trasmettere emozioni!”. Il pensiero che ognuno ha sulla band è qualcosa di strettamente personale, figlio dei gusti musicali di ognuno. Ma, volendo analizzare oggettivamente la carriera dei Dream Theater, crediamo che nessuno trovi difficoltà a riconoscere la loro importanza nella storia della musica metal. Quel capolavoro di “Images And Words”, uscito ormai nel lontano 1992 e definibile come uno dei migliori dischi di quel decennio, ebbe il merito di riportare in auge sonorità progressive settantiane che sembravano ormai morte e dimenticate, attualizzandole e contestualizzandole in maniera sublime nell’ambito della musica heavy metal. Da quel momento in poi la band ha cercato di cambiare la propria musica disco dopo disco, tentando di evolversi e rinnovarsi, vivendo fasi di successo alterne. La volontà era quella di non ripetere un altro “Images And Words”, ma i migliori risultati a livello di critica e indice di gradimento tra i fan furono ottenuti proprio con “Scenes From A Memory”, altro masterpiece che rappresentò un ritorno alle radici per l’act americano. Poi, ancora una volta, il sipario del Teatro Del Sogno cala. L’incubo ricomincia con l’ambiguo e controverso “Six Degrees Of Inner Turbulence”, e la paura di non svegliarsi più si materializza con il mediocre “Train Of Thought”. Con il nuovo “Octavarium”, la band è quindi chiamata a dare la sveglia ai propri fan. Stilisticamente non vengono rinnegate le sonorità moderne ed immediate presenti nel precedente lavoro, ma questa volta i Dream Theater si spingono oltre arrivando a comporre un disco in cui, mai come prima d’ora, le canzoni si presentano in maniera sostanzialmente “lineare”, quasi del tutto prive di ritmiche intricate e momenti solistici esasperati. Inoltre, LaBrie pare avere completamente recuperato la forma che sembrava irrimediabilmente persa con i due precenti album, ritrovando ispirazione nel costruire linee vocali accattivanti. Tutto questo, però, non è stato sufficiente per consegnare al pubblico un lavoro constantemente avvincente, ma solo un disco discreto che vive di troppi alti e bassi. L’iniziale “The Root Of All Evil”, dal riff che deve molto ai vecchi Metallica, è sicuramente uno degli episodi meglio riusciti, in cui LaBrie sfodera una prestazione dannatamente epica e passionale come non gli riusciva da tempo. Nella seguente “The Answer Lies Within”, non basta la valorosa prestazione del singer per salvare una ballad prevedibile ed abbastanza ripetitiva. In “These Walls” la band si concentra troppo sui suoni, manifestando la chiara volontà di tentare vie nuove, il cui risultato è però deludente, in quanto i nostri prestano un’esagerata attenzione all’effettistica, perdendo di vista il groove della canzone. “Walk Beside You” rappresenta invece un piacevole e riuscito incontro tra sonorità attuali e quelle dei Dream che furono, mentre “Panic Attack”, assolutamente ottima, sorprende per cattiveria e per inaspettate influenze targate Muse. Con “Never Enough” e “Sacrificed Sons” si ripresentano i toni tragici, a tratti soffocanti e claustrofobici, che caratterizzavano “Train Of Thought”. L’album si chiude con i ventiquattro minuti della title-track che, alla pari di “The Root Of Evil” e “Panic Attack”, è quanto di meglio l’album sia riuscito ad offrire nei sui oltre settanta minuti di musica. La band ha suonato la sveglia; i Dream Theater di oggi sono questi. Chi vuole può tornare a dormire, gli altri troveranno un gruppo completamente differente da quello dei gloriosi tempi che furono.

HOT ALBUMS

In ordine di pubblicazione:

PRIDE OF LIONS – The Destiny Stone

AZAGHAL – Perkeleen Luoma

BLACK ABYSS – When Angels Wear Black

ARWEN – Illusions

THE WICKED – Sonic Scriptures Of The End Times Or Songs To Have Your NightmaresWith

KREATOR – Enemy Of God

BRODEQUIN – Methods Of Execution

MECHANICAL POET – Woodland Prattlers

GRAVE DIGGER – The Last Supper

BEJELIT – Hellgate

INFERNAL POETRY – Beholding The Unpure

MASTERPLAN – Aeronautics

IMMOLATION – Harnessing Ruin

KISS OF DEATH – Inferno Inc.

CLOUDSCAPE – Cloudscape

PRIMORDIAL – The Gathering Wilderness

RPWL – World Through My Eyes

RAISING FEAR – Mythos

SEVENTH AVENUE – Eternals

HIGH ON FIRE – Blessed Black Wings

JOE LYNN TURNER – The Usual Suspects

THUNDER – The Magnificent Seventh

JUDAS PRIEST – Angel Of Retribution

BLACK LABEL SOCIETY – Mafia

HAND TO HAND – A Perfect Way To Say Goodbye

BLOOD RED THRONE – Altered Genesis

RUNNING WILD – Rogues En Vogue

MY SIXTH SHADOW – Love-Fading Innocence

SOILWORK – Stabbing The Drama

DOMAIN – Last Days Of Utopia

HAMMERFALL – Chapter V: Unbent, Unbowed, Unbroken

OVERLORDE – Return Of The Snow Giant

INTO THE MOAT – The Design

UMPHREY’S MCGEE – Anchor Drops

DIO – Evil Or Divine

KENOS – Intersection

KAMELOT – The Black Halo

NECRODEATH – 20 Years Of Noise 1985-2005

LABYRINTH – Freeman

OVERKILL – Relixiv

TAAKE – …Doedskvad

STRAPPING YOUNG LAD – Alien

NEAERA – The Rising Tide Of Oblivion

NATRON – Livid Corruption

THEE MALDOROR KOLLECTIVE – A Clockwork Highway

STARBREAKER – Starbreaker

CIRCLE II CIRCLE – The Middle Of Nowhere

HORNA – Envaatnags Eflos Solf Esgantaavne

REX INFERI – Like A Hurricane

ROTTEN SOUND – Exit

INVOCATION OF NEHEK – Invocation Of Nehek

BRAINSTORM – Liquid Monster

WITHIN TEMPTATION – The Silent Force

KLIMT 1918 – Dopoguerra

ABORTED – The Archaic Abattoir

NOKTURNAL MORTUM – Weltanschlauung

NAPALM DEATH – The Code Is Red…Long Live The Code

METALIUM – Demons Of Insanity – Chapter Five

HIMINBJORG – Europa

SUIDAKRA – Command To Charge

RUSSELL ALLEN – Atomic Soul

CANDLEMASS – Candlemass

SOUL SIRKUS – World Play

SHAAMAN – Reason

SLOUGH FEG – Atavism

FORCE OF EVIL – Black Empire

EVIDENCE ONE – Tattooed Heart

MESHUGGAH – Catch 33

THE RED CHORD – Clients

LACRIMOSA – Lichtgestalt

CANDIRIA – What Doesn’t Kill You…

NILE – Annihilation Of The Wicked

HODSON – This Strange World

BRAND NEW SIN – Recipe For Disaster

SENTENCED – The Funeral Album

COMEBACK KID – Wake The Dead

SYSTEM OF A DOWN – Mezmerize

DISIPLIN – Anti Life

LEAVES’ EYES – Vinland Saga

ZUBROWSKA – Family Vault

SECRET SPHERE – Heart & Anger

BIOMECHANICAL – The Empires Of The Worlds

GOTTHARD – Lipservice

SHAMRAIN – Someplace Else

KAYSER – Kayserhof

HIBRIA – Defying The Rules

WATCHMAKER – Kill.Fucking.Everyone

SHADOW GALLERY – Room V

NAGLFAR – Pariah

DEMONS & WIZARDS – Touched By The Crimson King

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