A cura di Giovanni Mascherpa
Se pensiamo ai nomi cardine del gothic metal novantiano, un po’ tutti si sono resi protagonisti di cambiamenti stilistici di rilievo: alcuni in stretta prosecuzione logica, altri più inquadrabili come veri e propri strappi e fughe lontani anni luce dalla propria impronta sonora originaria. Coi Tiamat siamo probabilmente in presenza dell’evoluzione più bizzosa e incentrata su un singolo personaggio, il mastermind Johan Edlund, personalità come minimo ‘problematica’, per via del suo vissuto a base di droghe e allucinogeni dal quale non sembra mai essere del tutto evaso. La compagine svedese pare anche aver mancato quel riconoscimento su vasta scala – all’interno dei confini dell’audience metal, si intende – del quale hanno goduto diversi protagonisti degli anni pioneristici: mentre i vari Paradise Lost, Moonspell, My Dying Bride, continuano a mietere consensi coi loro album recenti e ad essere al vertice della scena internazionale, i Tiamat, a parte qualche rada esibizione live, sono finiti ai margini. Complice un’assenza discografica ormai quasi decennale, una line-up live di poca personalità e a totale servizio del lunatico frontman, i Tiamat degli ultimi anni sono una pallida rappresentazione del loro passato fulgore. Espresso in modi contraddittori, se vogliamo, perché accanto alle opere più acclamate ve ne sono altre accolte da valutazioni contraddittorie e interpretate a volte in modo distorto, per via di aspettative non allineate ai voleri di Edlund. E mentre il nome Tiamat sta sempre di più puntando verso una dimensione nostalgica, ci prendiamo l’onere di rispolverarne la mutevole discografia, attraverso una panoramica dei loro venti migliori brani. Classifica che tiene conto di ben poche regole: quella di rappresentare almeno una canzone da ogni full-length e soddisfare i gusti dello scrivente. Stop. Pietre dello scandalo in graduatoria? Per alcuni sì, per altri no, dipende… Scelte discutibili? Per una fetta di fan, tante, forse troppe; altri, si troveranno a pensare che forse non sono così soli nell’universo, ad apprezzare proprio quella canzone lì, passata in sordina alle orecchie delle masse. Grandi escluse? Parecchie, d’altronde racchiudere in venti soli brani una carriera così estesa e ispirata è impresa improba. Quindi, godetevi questa selezione, nella speranza che possa servire a riscoprire questa grande band, la cui gloria si è nel frattempo un poco appannata…
20. APOTHEOSIS OF MORBIDITY (da “Sumerian Cry”, 1990)
J. Edlund
Il primo album dei Tiamat è una diretta prosecuzione dei Treblinka (all’epoca della registrazione, il cambio di moniker non era ancora avvenuto), i suoi contenuti sono lo specchio dell’estremismo dei tempi e, per entrare nella storia dalla porta principale, basterebbe menzionare che “Sumerian Cry” è il primo full-length death metal registrato nei famigerati Sunlight Studios. Pur riconoscendone il valore, chi scrive ammette di non essere particolarmente affezionato a questa prima testimonianza in studio degli svedesi: latita ancora quella multiforme personalità che già in “The Astral Sleep” sarà manifesta. Per rappresentarlo nella nostra classifica, la scelta cade quindi su uno dei brani dove affiorano i primi abbozzi di quanto sarà sviluppato in futuro. L’avvio è molto ritmato, classicissimo swedish death costruito su riff corrotti e imbottiti di feedback, marcescenza diffusa e tupa-tupa incalzante; il primo assolo inizia a divagare in altri lidi mefistofelici, anche se subito dopo Edlund, con un “uh!” tipicamente celticfrostiano, ci riporta nelle barbarie. I rallentamenti della seconda metà, con conseguenti interventi solisti vagamente conturbanti e un afflato mortuario meno pressante, paiono lanciare qualche indizio sulle voglie nascoste dei Nostri: il doom si palesa tentatore, Edlund scandisce parole in gelidi sussurri, rinunciando per qualche istante al catarroso growl di quei tempi. Impercettibilmente o quasi, si schiude una porta verso suoni maggiormente elaborati…
19. CARRY YOUR CROSS AND I’LL CARRY MINE (da “Prey”, 2003)
J. Edlund
In “Prey” l’appeal quasi radiofonico e la chiarificazione del suono denotata durante “Judas Christ” si accentuano, puntando verso stilemi spesso rilassati e una languidezza che non intacca il valore del songwriting. Meno spumeggiante del predecessore, con diverse fasi acustiche e intermezzi a introdurre pause elegiache, in “Prey” trovano posto hit di una certa rilevanza, adatte a un pubblico che non abbisogna di troppa attenzione per farsi conquistare. Con la bella voce di Sonja Brandt a duettare col mastermind, “Carry Your Cross And I’ll Carry Mine” trasuda sgargiante gentilezza, polarizzando le attenzioni in un ritornello a due voci, fatto di accavallamenti e fitti scambi, di foggia praticamente pop. La cosa funziona, Edlund nella veste di gothic rocker seduttore è una sicurezza e la sua indole piaciona ben si accompagna a un cantato femminile esile e non sovrastante. Poche note di tastiera, semplici e inconfondibili, delineano un’atmosfera fievole accostabile a quella del gothic metal più leggiadro. Il finale va in crescendo, senza infondere grossi scossoni a un pezzo lineare, dolce ma non melenso, confluente nella strumentale elettro-dark “Triple Cross”, dove si va a riprendere in chiave elettronica il tema sonoro di “Carry Your Cross…”.
18. EQUINOX OF THE GODS (da “Amanethes”, 2008)
J. Edlund
Con “Amanethes”, improvvisamente e proditoriamente, i Tiamat si rimettono a picchiare duro. Un album che, risentito oggi, si staglia come creatura di un certo eclettismo e avvampante di un estremismo che la band aveva messo in soffitta da parecchio. Uno dei suoi migliori manifesti è la seconda traccia “Equinox Of The Gods”. Tolto l’intermezzo atmosferico a circa metà canzone, il resto è un tripudio di death-black metal massacrante, carnale, caratterizzato da un riffing sferzante, velocità di crociera vertiginose e le tastiere a donare una grandeur quasi cinematografica. Vocals sporche e minacciose incalzano dall’inizio alla fine, all’interno di una composizione feroce e priva di orpelli. Una coloritura iraconda e old-style che incontra produzione e sensibilità per i particolari tipiche degli anni 2000. Il risultato è deflagrante e, per chi desidera dei Tiamat poco tristoni e molto, molto violenti, “Equinox Of The Gods” è probabilmente uno dei punti di approdo migliori.
17. MOUNTAIN OF DOOM (da “The Astral Sleep”, 1991)
J. Edlund, T. Petersson
Un arioso arpeggio e tastiere altrettanto suadenti introducono un brano che stacca completamente, con le cupe e ruvide atmosfere di “Sumerian Cry”. “The Astral Sleep” è il classico album di transizione, un ibrido che proprio nel suo essere nel mezzo di una passaggio di identità attira e offre spunti inediti e, proprio per l’estremismo ancora saldamente insito nella band, difficilmente ripetuti in seguito. “Mountain Of Doom” si dibatte tra questi contrasti, ancheggiando verso una dimensione eterea ben sviluppata in futuro, un misticismo opprimente e scampoli di rabbia selvatica. La musica si snoda cadenzata, tra vuoti e pieni di profonda enfasi; le tastiere si alternano alle chitarre nel delineare le atmosfere di un pezzo ombroso, dai tratti appunto doom, come il titolo farebbe presagire, ma che alle catacombe di suono alterna accelerazioni vibranti. Le aperture in arpeggiato e il camaleontismo vocale suscitano ancor oggi stupore, e chissà cos’hanno provocato all’epoca, quando certi ibridi non erano così frequenti. Il protrarsi cerimoniale si rompe proprio verso la conclusione, in uno strappo dal sapore old-school heavy metal e un intreccio di assoli da primordi del genere.
16. WHATEVER THAT HURTS (da “Wildhoney”, 1994)
J. Edlund
A seguire della breve intro rappresentata dalla titletrack, “Whatever That Hurts” spalanca le porte alle infinite tentazioni di “Wildhoney”, mettendoci nelle condizioni sia di apprezzare l’evoluzione compiuta rispetto a “Clouds”, sia le analogie con esso. Come la quasi totalità della tracklist, siamo in presenza di un brano iconico, giocato sulle contrapposizioni fra i trascorsi death-doom cerimoniali e la sognante psichedelia. Percussioni in arrivo da un mondo ancestrale mantengono in tensione e non fanno ammansire troppo gli animi, mentre le chitarre disegnano arabeschi in arpeggiato, per poi squarciare l’aria con riff death metal rallentati ancora colmi di carica brutale. I tempi permangono lenti, moderati e semplice base per le innumerevoli digressioni contenute nel brano. La grandezza del brano, la sua importanza, la percezione che vada ad aprire una nuova era, emerge in pochi secondi; il suo disvelarsi etereo e i raffinati arrangiamenti confermano e avvalorano questa prima impressione, strattonando a più riprese ora nell’estasi, ora in atmosfere plumbee e minacciose. Il tagliente assolo ci ricorda quanta arte metallica la band possieda e che non ci si potrà rilassare troppo lungo il disco, nonostante il sommesso finale di tastiera.
15. I AM IN LOVE WITH MYSELF (da “Judas Christ”, 2002)
J. Edlund
L’egocentrismo leggero della traccia sboccia in una smaccata indole pop, in un post-punk frivolo e notturno, in una celebrazione di leggerezza sfrontata e quasi sarcastica. Qualcosa che, d’altronde, all’interno di “Judas Christ” ritorna spesso, presentando alcune delle soluzioni più commerciali e da classifica partorite dalla mente di Edlund. Note orientali nelle tastiere ingolosiscono come caramelle gommose, la batteria batte praticamente lo stesso tempo dall’inizio alla fine, le chitarre ci mettono in scacco con un gradevole impasto di gothic rock e metal semplice e corroborante. Il refrain martella che è un piacere, con le backing vocals femminili a calcare la mano sulla vezzosità dell’operazione. “I Am In Love With Myself” è concepita come singolo acchiappaconsensi e, nell’ottica di travalicare la platea metallica, fa il suo ben più che egregiamente. Gli svedesi non si vergognano di semplificare a dismisura la loro proposta, lo sanno fare, sono credibili, e questo brano ne è un’ottima dimostrazione.
14. WINGS OF HEAVEN (da “Prey”, 2003)
J. Edlund
Incarna la dolce anima acustica dell’album in cui è posta, “Wings Of Heaven”. Una canzone d’amore, una delle tante dei Tiamat dove lo struggimento e il tormento si avvinghiano l’un l’altro. Poche note di chitarra acustica riprendono ciclicamente il medesimo motivo, mentre voci soffuse narrano di una love story perduta e fantasticano su quei brevi momenti, perdendosi in idealizzazioni e sogni ad occhi aperti su una vicenda sentimentale tanto effimera, quanto sublime agli occhi del protagonista maschile. Lievi crescendo di chitarra elettrica si mischiano ad ampi giri di tastiera, in un brano, come spesso accade in questa fase di carriera degli svedesi, perfetto nella sua semplicità, nel far sussultare l’animo con poche note. La musica guadagna moderato vigore verso la fine, portando a un accorato climax, pur non perdendo il raccoglimento e quell’aura di rammarico consolatorio evidente fin dal principio. Il refrain rimane comunque il nodo centrale di “Wings Of Heaven”, inno per cuori spezzati e mai guariti.
13. CHURCH OF TIAMAT (da “Skeleton Skeletron”, 1999)
J. Edlund
Il seguito di “A Deeper Kind Of Slumber” può apparire come un brusco ritorno sulla Terra, un ritrarsi pudico nelle proprie influenze di gioventù, abbandonando quella smania sperimentale che aveva pervaso l’operato della band nei due capitoli precedenti. L’influenza dei Depeche Mode è quanto mai palpabile e preminente, tuttavia il songwriting, per quanto semplificato, è ispirato e sono diversi gli episodi che resisteranno all’erosione del tempo. L’opener, narcolettica, lentamente trascinante, è il racconto di un mondo di disillusioni, col cantato dolce e ossessivo insieme di Edlund, apparentemente pacificato, a coccolarci in un mantra destinato a entrare in circolo e non andare più via. Sonorità dal vago sapore mediorientale inducono all’abbandono, le chitarre vanno e vengono, potenti e dai toni rock quando presenti, mentre nei momenti di loro assenza un basso dolente e una batteria scheletrica affiancano pochi, evocativi, tocchi di tastiera. Edlund appare perso in un mondo a parte, la realtà gli sta stretta, lo struggimento ne impadronisce la voce, mentre paradossalmente scandisce versi che parrebbero riportare a una dimensione crudamente terrena, coi moti intellettivi dei viventi meno legati a variopinte astrazioni. Quelle che, fortunatamente per i fan dei Tiamat, non abbandoneranno il mastermind.
12. ATLANTIS AS A LOVER (da “A Deeper Kind Of Slumber”, 1997)
J. Edlund
Scritto in solitudine in uno stato fisico e mentale che definire ‘non propriamente sano’ è un eufemismo, “A Deeper Kind Of Slumber” è album dalla natura più irregolare del suo immediato e illustre predecessore. Non ne è inferiore qualitativamente, seppur abbia qualche canzone iconica in meno di “Wildhoney”. Comunque, il livello compositivo e interpretativo di Edlund è all’apice e, nell’ala soft del suo repertorio, “Atlantis As A Lover” è una delle composizioni più riuscite. Lo scorrimento sornione e lisergico è un marchio di fabbrica della fase centrale di carriera degli svedesi, note di violino elettrico ci rincorrono ed entrano in testa in modo disarmante, dando l’imprinting, assieme ai sintetizzatori, alla musica. Il mondo di Edlund è in questo periodo ancora più confuso, colorato e indefinito, il suono è in alcuni punti particolarmente esile, un semplice commento al pacato e lindo cantato. Cantato che si sviluppa con lineare continuità, in un flusso regolare, che prova a dar pace all’animo inquieto e sregolato del musicista nordico. Un moderato crescendo soggiogato dagli archi va verso la fine a dare ampiezza e autorevolezza, mentre il chorus guadagna in purezza e distensione. Difficile restarne indifferenti.
11. THE SOUTHERNMOST VOYAGE (“The Astral Sleep”, 1991)
J. Edlund, T. Petersson
Tastiere per nulla invasive e lenti arpeggi sono quel che basta per definire il tono di una traccia sognante, anticipatrice degli scenari pastellati e psichedelici di “Wildhoney”. Un dolce incanto, un sussurrare concetti criptici pieni di magia, in un contesto minimale e incantevole della durata contenuta. Un brano narcotizzante, che potrebbe sembrare un semplice, lungo interludio, e ha invece una forza evocativa altissima. Gli arpeggiati si muovono circolarmente, con poche divagazioni e sviluppi, le tastiere si espandono e ritraggono nel seguire il tono della sospirata narrazione. La distorsione appare soltanto per un accenno solista, non rompe il delicato equilibrio venutosi a creare. Sembrerebbe esserci poco, ma è tutto quel che serve. Sarebbe peccato mortale se i Tiamat vi avessero aggiunto altro.
10. THE SCARRED PEOPLE (“The Scarred People”, 2012)
J. Edlund
Unico estratto per la nostra classifica preso dall’ultima fatica in studio della band, “The Scarred People” è opener che riassume benissimo lo spirito degli svedesi e le loro evoluzioni più recenti: metallica, ruffiana e immediatamente coinvolgente, attrae subito l’attenzione per un giro di tastiera altezzoso e accattivante. Quindi esplodono le chitarre, la batteria incalza facile, apparecchiando l’entrata trionfale della voce. Lo spirito depechemodiano, duro a morire, si nutre di un’esuberanza metal che non va in calando, dopo le potenti stilettate scagliate con “Amanethes”. Strofe più carezzevoli, con le chitarre in retrovia e la voce relativamente quieta, si intervallano a un chorus al contrario martellante, esagerato per come fa breccia nell’ascoltatore medio. Forse il resto della tracklist non ha sempre quell’impatto euforico e vitale della sua apertura, ma la titletrack rimane qualcosa da riscoprire e far esplodere nelle orecchie.
09. THE SLEEPING BEAUTY (da “Clouds”, 1992)
J. Edlund / J. Hagel
Il salto da “Sumerian Cry” in termini di raffinatezza, originalità e gusto per accostamenti ai tempi bizzarri e impensati è enorme. Uno dei simboli di questa impronosticabile evoluzione è senza dubbio “The Sleeping Beauty”, che palesa le sue caratteristiche non convenzionali a partire dalla chitarra acustica in apertura. Recitativi teatrali e tastiere pompose si ergono a protagoniste in un brano che, come accadrà spesso nel future della formazione, si svuota per larghi tratti di elettricità, a favore di un approccio sinistramente contemplativo. Le armonie emanano una sanguinolento alone orientale, il suono è ancora secco ed ostile ma è in fondo una macabra poetica a dare suggestione alla traccia. Nel refrain vi è ancora una certa rozzezza, quella tipica degli album di passaggio, quando la precedente veste non è stata lasciata e nel contempo ci si sta immergendo in una nuova realtà. Una solitaria accelerazione dopo circa un minuto e mezzo potrebbe reindirizzare al puro swedish: si tratta di una tentazione presto abortita, una piccola debolezza presto placata. Iniziano a percepirsi nei testi tematiche romantiche, fino a quel momento ancora collocate in un immaginario ben distante dalle svenevolezze che scopriremo essere care ad Edlund.
08. VOTE FOR LOVE (da “Judas Christ”, 2002)
J. Edlund
Il singolone che proietta definitivamente i Tiamat verso il gothic rock da classifica e li cancella – almeno temporaneamente – dal cuore degli affezionati delle loro opere più elaborate e fascinose, è invecchiato bene, poche storie. Corale, trascinante, eccessivo, sembra costruito apposta per sbancare le classifiche. L’avvio brillante e chitarristico lascia presto posto a un arpeggiato gioviale e un giro di tastiere cristallino, sul quale Edlund canta pacato una prima strofa un po’ stralunata. Quindi si apre il gioioso ritornello, un concentrato di beatitudine che sapeva di assurdo, se solo lo si paragonava alle atmosfere tinteggiate fino a pochi anni prima. Le backing vocals di Trille Palsgaard sottolineano l’anima angelica di un brano che fa evaporare in fretta velature dark e si consegna a noi lindo, lineare, rock nella sua accezione basilare. Il ritornello viene ripetuto fino alla nausea, in un finale che sa di tripudio, con il pelato cantante tutto preso dal suo romanticismo, mentre una tastiera dolciastra fa irruzione e cuoricini pompano a tutto spiano dai diffusori.
07. GAIA (da “Wildhoney”, 1994)
J. Edlund / J. Hagel
Impostazione lirica sui generis per una delle canzoni più amate in assoluto del gruppo. Omaggio a Madre Terra, Gaia appunto, condotto tramite una litania dal sapore sommesso e una forza intrinseca che non va mai ad esplodere veramente. Un percorso di catarsi, ascesi e celebrazione, nel quale ci si immerge immediatamente con un’intro simil-sinfonico e un dipanarsi seguente dai ritmi moderati, un’elettricità dal feeling quasi hard rock e tastiere non meno che incantevoli. Edlund sporca appena la voce, leggere eppur nette le increspature e le modulazioni delle sue linee vocali. Strofe dall’aria più calma e contemplativa lasciano il posto a un chorus moderatamente trascinante e dall’indole un poco rabbiosa. Gli estremismi dello stesso “Clouds” sono lontanissimi, le liriche sono al centro del discorso e la loro enfatizzazione richiede una cornice strumentale evocativa, pulsante trasporto, non invadente. Le incursioni vagamente pianistiche a circa due terzi rilanciano il pezzo, in lieve ascesa nella sua parte finale. I Tiamat di “Wildhoney” giocano molto con le pause, il commiato del singer per lunghi tratti e uno scorrimento intenso e lento della chitarra solista, qui ancora più importante che in altri punti della tracklist. Il magnetismo della canzone non si affievolisce neanche quando, come accennato, Edlund se ne va idealmente dietro le quinte, come accadrà – purtroppo troppo spesso – nelle ultime apparizioni live.
06. RAINING DEAD ANGELS (da “Amanethes”, 2008)
J. Edlund
Spavalda, sporca, faraonica, “Raining Dead Angels” si inserisce nel contesto estremo di “Amanethes” rappresentandone una delle sue insanguinate punte di diamante. Sembra di essere tornati indietro di oltre un decennio con questo pezzo, pervaso di una bramosia di distruzione che pareva ormai desueta per il gruppo. Le tastiere si innalzano severe, taglienti e sadiche come il robusto e devastante impianto ritmico. Edlund urla come farà per una delle ultime volte in carriera, dando esplicita forma a un titolo promettente scenari apocalittici. Il clima è luciferino, non c’è respiro e non ci sono tentennamenti, nell’officiare un baccanale omicida che lascia quasi esterrefatti. Una femminea voce d’angelo prova per qualche istante a dissimulare quanto è cruenta la canzone, che riparte appena dopo con un altro assalto vocale e strumentale tremendo. Il death e il black metal sono più che un sospetto, di gotico c’è poco: angeli cadono dal cielo, per non più rialzarsi.
05. AS LONG AS YOU ARE MINE (“Skeleton Skeletron”,1999)
J. Edlund
Sintetizzatori di fredda eleganza ottantiana aprono questa lisergica canzone d’amore. Inguaribile sentimentalone che non è altro, Edlund la mette giù aggressiva, per i canoni del disco. Gli impulsi chitarristici sono roboanti e si danno il cambio a tastiere al contrario molto lievi, divise tra elettronica danzabile e sottolineatura di stralunati struggimenti. La struttura è lineare e ciclica, un po’ come tutto “Skeleton Skeletron”; a fare la differenza rispetto ad altri episodi al suo interno è l’animosità sfogata dalla band. Un piglio rock intransigente e volitivo, che fa schiodare i Nostri da una certa postura indolente udibile in altri frangenti. La riuscita della canzone sta nell’interpretazione assieme sofferta ed entusiasta, nell’ossessività del breve refrain, nella sintesi che le grandi hit posseggono, quel modo di abbattere le resistenze nonostante, a un’analisi fredda e meditata, non parrebbe esserci poi chissà cosa, in un brano simile. Fiato sospeso dopo circa tre minuti, con una combinazione di synth ad effetto, prima dell’attacco frontale finale. Già classico alla sua uscita, non ha perso nulla del suo fascino.
04. A POCKET SIZE SUN (da “Wildhoney”, 1994)
J. Edlund
Psichedelia elettroacustica quella in chiusura di “Wildhoney”. L’ampiezza emotiva è inversamente proporzionale alla ricchezza strumentale, la distorsione chitarristica è assente e il cantato si trascina pacato tra mille pause, come a mostrare quel mezzo stordimento provato dall’Io narrante, al momento del risveglio. La luce emanata è forte, calda, avvolgente, un Sole in miniatura rappresentato dalla soave visione in apparizione al protagonista del testo. Vera fissazione del cantante, anelito costante e intramontabile del suo modo di vivere e godere dell’esistenza, quello per queste idealizzazioni fuori logica di fanciulle; questa distorsione del reale la si coglie nei piccoli dettagli, nelle note che arrivano a noi un poco tremolanti, come se esse stesse ce le stessimo semplicemente sognando. Ha un che di stralunato, a “Pocket Size Sun”, un po’ ninnananna, un po’ visione drogata, un’induzione alla beatitudine che sappiamo essere forzata, però bellissima. Un motivo chitarristico squillante ricorre ciclicamente, a far da linea guida e tenerci fuori da un possibile risveglio prematuro. E quando questo arriva, seppur un poco delusi che la visione si sia dissolta, il suo ricordo ci lascia comunque più compiaciuti che delusi.
03. IN A DREAM (da “Clouds”, 1992)
J. Edlund / N. Ekstrand / T. Petersson
Death metal barocco, rallentato e viscerale è quello di “In A Dream”, fin dal titolo programmatica di contenuti molto diversi da quelli promulgati nell’ancora acerbo “Sumerian Cry”. Le coloriture delle tastiere e la ripetizione ossessiva del titolo con la voce pulita creano un’atmosfera straniante e gli influssi gotici fanno per la prima volta capolino nella musica dei Tiamat. Le ritmiche sono scarne, quadrate, poco invasive, il carattere del brano deriva, oltre che dalle tastiere, dalla prestazione polivalente del cantante, proteso a voci gutturali come a un’interpretazione cangiante; in alcuni passaggi la voce è impulsiva e rabbiosa, in altri cerimoniale e ben poco estremista. Non è la composizione più raffinata ed evoluta di “Clouds”, questa, sta sospesa tra due anime, un poco combattuta tra la brutalità di fondo e la voglia di innalzarsi a un altro livello. Anche la sua ossessività la tiene legata a una concezione pratica e ferale del metal estremo, ponte tra un passato acerbo e un futuro che si sarebbe sviluppato su strade ignote.
02. TEONANACATL (da “A Deeper Kind Of Slumber”, 1997)
J. Edlund
Per chi scrive forse l’attacco più bello dell’intera discografia firmata Tiamat. Una melodia dimessa, decadente, si adagia come confortevole coperta attorno a noi e ci rincuora. Il candore dell’insieme è diverso da quello di “Wildhoney”, i connotati dark e una sottile velatura elettronica fanno la loro comparsa e intorbidano il metal suggestionante, magico e in dormiveglia predominante in “A Deeper Kind Of Slumber”. Il suono è ora più pulito e depurato di asprezze anche nei – timidi – accenni alla distorsione, mentre il leggero rigonfiarsi chitarristico del bridge sfuma in un chorus dolceamaro, sempre più convincente e inebriante man mano che i secondi scorrono. Il commiato è impercettibile, perchè “Teonanacatl” confluisce direttamente nelle forme irregolari della strumentale “Trillion Zillion Centipedes”, con la quale forma un’unica esperienza uditiva dalla doppia facciata.
01. DO YOU DREAM OF ME? (da “Wildhoney”, 1994)
J. Edlund / W. Sorychta
La sublimazione massima del sognare effimero di Edlund, la manifestazione più riuscita in suoni, parole, interpretazione vocale, del Tiamat-pensiero: questa è per chi scrive “Do You Dream Of Me?”, come altre canzoni di questa selezione una composizione che di metal ha quasi nulla. Rintocchi brillanti di tastiera e poche note di acustica sono quel che basta per assecondare i pensieri del mastermind, in un brano lievissimo per oltre tre minuti. Quindi irrompe una specie di chitarra flamencata, che si rivela essere un breve intermezzo più energico in una traccia che, rispettando il suo testo, nulla fa per svegliare dal sonno e dal sogno. Allungate note di chitarra elettrica sottolineano i toni soavi, in una coda strumentale pacata. Un minimalismo che non necessita di aggiunte, con quell’interrogativo nel titolo a rimanere enigmatico, sospeso, un quesito privo di una possibile risposta certa.