8.5
- Band: PERTURBATOR
- Durata: 1:22:01
- Disponibile dal: 01/11/2019
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Cosa collega Giorgio Moroder, il chiodo di pelle proprio del mondo metal, “Stranger Things” e John Carpenter?
La risposta è all’interno di quel mondo liquido, illuminato dalle luci al neon più fluorescenti che riuscite ad immaginare, chiamato ‘synthwave’ ed illustrato dal bellissimo documentario dello spagnolo Ivàn Castell “The Rise of The Synths”. Sulle orme del personaggio-cicerone, chiamato semplicemente Synth Rider (a metà tra Mad Max e Jena Plissken, solo con più loghi iconici tatuati) ed in grado di spostarsi a bordo di una DeLorean (vi suona familiare?) lungo le linee non euclidee del tempo, si va alla scoperta dell’identità – ed entità – di questo fenomeno. Perdersi nei meandri più reconditi e periferici di questa ricerca sarebbe facilissimo, ma questo documentario si avvale di una guida d’eccezione: è il regista e compositore John Carpenter in persona, armato di registratore a cassetta (in una splendida cornice autocitazionistica) ed immerso in una penombra rosata, a condurci per mano in questo viaggio, intessendo con la propria (inconfondibile) voce un fil rouge intriso del sarcastico menefreghismo, visionarietà e capillare competenza che l’hanno reso un’icona di riferimento, presente per tutta la durata della pellicola anche attraverso i suoi film e le sue colonne sonore non convenzionali.
Finanziato nel 2016 da una campagna di crowdfunding e presentato solo nel 2019, il documentario conduce lo spettatore a spasso nel mondo per ascoltare le voci di chi questo genere l’ha creato (pur senza saperlo) e continua a dargli linfa vitale: da Carpenter Brut e Perturbator, forse tra i più conosciuti nel mondo del metal proprio perché provenienti da esso, al trio Gunship, passando per Kavinsky e The Midnight, una moltitudine di musicisti, compositori e appassionati formano una moltitudine corale davvero eterogenea, chiamata ad esprimersi sulla propria storia (anche nella colonna sonora, composta per buona parte da Ogre con l’aggiunta di alcune canzoni proprie degli intervistati). Essi ci raccontano così che, ad esempio, l’origine di tutto è da ricercarsi nel labirinto di MySpace dei primi anni Duemila, in cui questi artisti si sono scoperti reciprocamente desiderosi di creare una nuova finestra sul futuro basandosi su stilemi del passato codificati da film o album appartenenti alla mitizzata ‘epoca d’oro’ del decennio 1979-1989 (ma in realtà molto più imbevuti di anni Novanta di quanto siano disposti ad ammettere): dalla Francia e dalla Spagna, allargandosi a macchia d’olio un po’ ovunque nel mondo, questa voglia di sperimentazione e condivisione ha preso di volta in volta strade diverse, come diversa è la provenienza degli artisti che parlano.
Castell e la sua squadra sono riusciti nel tracciare i contorni di questo enorme iceberg, scavando nelle storie, nei riferimenti ed anche (crediamo) nella generale ritrosia di questi artisti a parlare di sé dando un taglio sensatissimo (la scansione in decadi, il montaggio a mo’ di intervista corale dei singoli interventi) al tutto attraverso la storia, ora in carne ed ossa ed ora animata, del Synth Rider. Interessante è infatti anche notare come, nonostante gli scintillanti panorami dipinti dall’elettronica, molte delle figure coinvolte si nascondano dietro maschere o cappucci (qualcuno ha detto Daft Punk?) non per circondarsi da un’aura di mistero ma per lasciare, in maniera assolutamente priva di protagonismo (e con una discreta, sana dose di strafottenza, in alcuni casi) che sia la loro musica, creata in camerette minuscole zeppe di ruderi elettronici d’epoca o studi costruiti in piena filosofia do-it-yourself, a raccontare qualcosa non su di loro, ma sul loro modo di reinterpretare fantascienza, horror e quel generale senso di vintage patinato che trasuda dalla tuta grigia di Rocky o dai denti acuminati dei Tremors, dal delicato tocco con cui “The Breakfast Club” affronta i cambiamenti dell’adolescenza agli spot più mainstream, la loro voglia di ricercare quel suono particolare nascosto nelle colonne sonore di “Alien” o “Terminator”, arrivando anche a toccare le suggestioni dei Goblin o di Dario Argento o delle sperimentazioni pioneristiche di Moroder o dei Tangerine Dream più psichedelici. In “The Rise of The Synths” vengono analizzati i circuiti in cui si incanalano i suoni (la nostalgia, l’amore per il suono analogico, il legame con il mondo cinematografico) che contribuiscono a creare un nuovo mito nel mito, alimentato da piccole gemme come “Drive” di Nicolas Refn (ed in generale, dall’estetica retrò di questo tipo che invade molti dei suoi film) e deflagrato nell’ultimo decennio in un’esplosione di revival per questo tipo di passato (vedere alla voce “Stranger Things” o “Cobra Kai”, giusto per citare due serie salite alla ribalta nell’ultimo periodo). La musica synthwave è stata letteralmente costretta ad uscire dalla propria alcova sicura, diventando parte di quel cavalcare l’onda dei ricordi che ha invaso un po’ ogni aspetto della cultura popolare (dal mondo cinematografico alle pubblicità), fino a filtrare, con risultati diversi, anche nella musica metal (riportando in auge un certo old-school polveroso nelle frange più estreme ed infondendo nuova vita ai comparti heavy/epici d’antan).
Moltissimi hanno trovato soddisfazione e conforto dalla scoperta di questo sottobosco brulicante di vita, che non pretende né bagni di folla né primi posti in classifica, ma solo che qualcuno sogni con essa, arrivando anche a rompere il tabù dei live con un sempre crescente successo (nonostante – siamo sinceri – una leggera sensazione di straniamento che sorge ad esempio in chi è abituato ai concerti più ‘tradizionali’, dove il contatto tra band e pubblico è molto spesso ravvicinato e viscerale e si percepisce in maniera differente l’azione stessa del ‘suonare’).
Per questi motivi ci sentiamo di consigliare la visione di quest’ora e mezzo (disponibile per l’acquisto in vari formati in lingua originale – per lo più inglese, con inserti di francese e spagnolo per alcuni artisti – e vari sottotitoli) sia a chi è già stato affascinato dalla ‘new retro wave’ sia a coloro che ne sentono ora parlare per la prima volta. Ed alla (pur legittima) obiezione, mossa da molti, sul rischio di uno sterile, infinito ripetersi di stilemi, note e soluzioni che alla lunga diventano trite e ritrite, lasciamo che sia lo stesso Carpenter, alla fine del documentario, a rispondere: “It’s true that it’s hard to say something new and groundbreaking that hasn’t been said already. But I believe that people should create what they want. Create something and put it out there, because no one is going to hear you if it’s in your hard drive. Remember me: your art can literally change the world. I’m waiting for it”.