A SWARM OF THE SUN – Creare con urgenza, suonare con lentezza

Pubblicato il 24/10/2024 da

Gli A Swarm Of The Sun rimangono, a vent’anni dalla loro fondazione, un progetto in continuo mutamento: nati come band dai tratti tutto sommato convenzionali, influenzata parimenti dall’industrial e dall’alternative rock, il gruppo ha visto il proprio  suono arricchirsi di influenze ambient, drone, slowcore e post-rock, seguendo una lenta strada verso la rarefazione, un processo che ha come unico metro di paragone quello compiuto un paio di decenni fa dai Talk Talk di Mark Hollis.
“An Empire”, recentemente uscito per Pelagic Records, ha confermato la capacità non comune degli svedesi nel dare vita a scenari suggestivi e coinvolgenti attraverso l’uso di essenziali tratti di chitarra o tastiera, alternati a poche ma ben congegnate deflagrazioni post-metal.
Del nuovo disco, della storia della band e delle passioni che la agitano abbiamo parlato con Jakob Berglund, che insieme a Erik Nilsson è responsabile del laborioso processo creativo che muove il gruppo. 

 

CIAO JAKOB, GRAZIE PER AVERCI CONCESSO UN PO’ DEL TUO TEMPO; PER COMINCIARE, COME SI È FORMATA LA BAND E QUALI SONO STATE LE VOSTRE ESPERIENZE MUSICALI PRECEDENTI?
– Erik ed io ci siamo conosciuti da ragazzini, avevamo forse tredici o quattoridici anni, e sin dall’inizio della nostra amicizia abbiamo immaginato centinaia di progetti musicali, insieme.
Devi capire che tutto ciò accadeva durante gli anni ’90: le sottoculture erano un modo, per noi ragazzi, di costruire la nostra rete di amicizie, per connettersi gli uni agli altri attraverso l’amore che provavamo per la musica. Erik, ad esempio, mi ha fatto scoprire gli Emperor, e con loro tutta quella musica epica e melodica allo stesso tempo; io nello stesso periodo ero letteralmente perso  per band come Nine Inch Nails e Swans… insomma, ci siamo incontrati da qualche parte, a metà strada.
Poco tempo dopo abbiamo iniziato a scrivere canzoni (l’arrivo del nostro bassista, Anders Carlström, è stata altrettanto fondamentale), che è meglio per tutti dimenticare. In definitiva, credo che la prima incarnazione degli A Swarm Of The Sun abbia iniziato a prendere forma intorno al 2004.

IL SUONO DEGLI A SWARM OF THE SUN È MUTATO CONTINUAMENTE DAL VOSTRO PRIMO EP FINO AL RECENTE DISCO, “AN EMPIRE”. C’ERA UN OBIETTIVO SPECIFICO, UNA VISIONE, QUANDO AVETE DATO VITA ALLA BAND, E COME QUESTA VISIONE È CAMBIATA, NEL CORSO DELLA VOSTRA CARRIERA?
– Il gruppo all’inizio non aveva la forma attuale, diciamo che si è evoluto in modo piuttosto organico, a partire dai progetti che io ed Erik avevamo avviato precedentemente.
Non credo che ci fosse la scelta di muoversi in una specifica direzione, abbiamo semplicemente creato la musica che noi stessi avremmo voluto ascoltare, qualcosa di cui avremmo potuto andare orgogliosi. Il nostro stile era necessariamente influenzato dai nostri ascolti, appare ovvio se ascolti quel primo EP: tuttavia, il progetto esiste da cosi tanto tempo da essersi meritato una propria identità.
In questi vent’anni abbiamo trovato ispirazione da fonti musicali eterogenee, senza contare le altre esperienze che hanno contribuito alla nostra crescita.

LA VOSTRA CARRIERA È INIZIATA DI FRONTE AD UN PUBBLICO TRADIZIONALMENTE METAL, MA A CHI SI RIVOLGONO ORA GLI A SWARM OF THE SUN? QUALE PENSATE SIA IL VOSTRO ASCOLTATORE TIPO? NON PENSATE CHE I FAN POSSANO IN QUALCHE MODO STANCARSI DEI CONTINUI CAMBIAMENTI DI STILE, DI REGISTRAZIONE IN REGISTRAZIONE?
– A voler essere sincero non sono sicuro che la nostra musica si rivolgesse ad un audience metal già nei suoi esordi, ma sono d’accordo sul fatto che probabilmente il nostro pubblico sia cambiato, nel corso degli anni.
Personalmente, non mi interessa molto chi ci sia all’ascolto, l’unica cosa che voglio è scrivere musica e, se questa è onesta, sarà lei stessa a connettersi con chi ci segue ad un livello persino più profondo dell’ascolto stesso. Può succedere con una o con mille persone, non importa, l’importante è che si crei un rapporto attraverso cui veicolare un messaggio, una sensazione.
Abbiamo incontrato persone che seguono da molto tempo, e ogni volta la sensazione di affetto che ci trasmettono scalda il cuore.

GUARDANDO LA VOSTRA EVOLUZIONE MUSICALE, SI PUÒ ASSUMERE CHE I VOSTRI ASCOLTI SIANO CAMBIATI PARALLELAMENTE AL VOSTRO STILE. QUALI SONO LE CANZONI CON CUI SIETE CRESCIUTI E QUALE TIPO DI MUSICA ASCOLTATE ATTUALMENTE?
– Mio padre era un appassionato di progressive e rock anni ’70, “The Wall” dei Pink Floyd è probabilmente il disco da cui provengono tutti i miei riferimenti musicali. Da teenager ho scoperto i Nine Inch Nails, e me ne sono innamorato completamente: “The Downward Spiral” è ancora uno dei miei dischi preferiti, ed è quello che mi ha spinto a scrivere canzoni.
Da quel momento mi sono guardato intorno in mille direzioni, mi sono letteralmente immerso nella musica che poi è arrivata a definirmi. In quegli anni ho scoperto Depeche Mode, Swans, Radiohead, Neurosis, Suicide, Underworld e Sister Of Mercy, e ognuno di loro è ancora nel mio cuore.
Adesso ascolto prevalentemente  Tindersticks, Bill Calahan, Christian Kjellvander e l’ultimo Nick Cave, insieme a musica drone ed elettronica, lavori come Biosphere, Murcof e The Haxan Cloak. Nick Cave in particolare non ha fatto altro che pubblicare capolavori da “Push The Sky Away” in poi. Comunque, come ogni appassionato di musica, vivo di fasi ed ossessioni, ad esempio sono appena uscito da un periodo di ascolto forzato dei i lavori dei Pink Floyd degli anni ’70 solo per iniziare ad ascoltare ossessivamente  i primi dischi, quelli ruvidi, di PJ Harvey.

QUALI SONO GLI ARTISTI CHE VI HANNO ISPIRATO PER LA STESURA DEL NUOVO ALBUM?
– Quando scriviamo, abbiamo un approccio visuale: in pratica, ci serviamo di immagini che riescano a mantenerci sul percorso corretto. Spesso mostro a Erik alcune fotografie, oppure fotogrammi di un film, per parlare delle sensazioni che la canzone che stiamo scrivendo dovrebbe comunicare, a mio avviso.
Il nucleo di “An Empire” nasce da un fotogramma rubato a “The Turin Horse”, di Bela Tarr. E’ un bianco e nero infreddolito, malconcio, persino fangoso. L’immagine da quasi una sensazione  tattile, analogica, e ci è servita da bussola, in questi anni di scrittura, insieme ad alcune scene da “Il Racconto Dell’Ancella”, “Sacrificio” di Tarkovsky, ed una collezione di fotografie di Sarah Moon.
Ovviamente durante il processo di scrittura prendiamo a riferimento altri musicisti o artisti, ma mai nel senso di assomigliare a qualcuno di loro; quello a cui mi riferisco è il tentativo di raggiungere un’affinità a livello concettuale: “ascolta questo passaggio, questo pattern ritmico, guarda come passa da una scala minore ad una maggiore”, e così via. Per le parti elettroniche ed elettroacustiche ci siamo ispirati a Maria W. Horn, come pure ad artisti come XKatedral. Altre grandi fonti di ispirazione sono Hainbach, (un musicista tedesco che ha un canale YouTube meraviglioso e che crea musica con vecchi strumenti elettronici e sintetizzatori vintage), Sara Parkman e Anna von Hausswolff, le migliori musiciste svedesi del momento.

QUAL È IL CONCETTO ALLA BASE DEI TESTI DI “AN EMPIRE”?
– Ho sempre bisogno di partire da un titolo, e le parole “An Empire” hanno continuato a nuotare nei miei pensieri per molto tempo. Anche oggi ho trovato un vecchio file, persino antecedente al nostro album “The Woods”, che avevo chiamato “An Empire” e di cui non mi ricordavo assolutamente. Quando qualcosa si insinua in te senza abbandonarti, è normale che voglia comunicarti qualcosa, e allora ti metti a scavare, ad esplorare intorno a quel concetto.
All’inizio pensavo che stessimo scrivendo un album estroverso, ma nel tempo questo ha iniziato a cambiare mood, fino a diventare il lavoro più introspettivo mai composto in carriera. Ho cambiato la mia visione da “Tu” a “Io”, e tutto ha iniziato a funzionare, anche se i testi non sono finiti fino a quando non vengono fissati definitivamente su disco.
La composizione delle parti musicali è qualcosa che mi porta sempre gioia, mentre la scrittura è un processo difficile, sfibrante. Questa volta però ho deciso di sfidare me stesso, di approfondire il contenuto delle canzoni fino a quando non ho trovato le parole che potessero rappresentare con esattezza quello che volevo comunicare anche se, me ne rendo conto, quelle stesse parole potrebbero avere un significato diverso per qualcun altro. È stata un’esperienza catartica, e penso che questo si possa percepire, nell’album.
“An Empire” ha il suo avvio in un luogo turbolento ma termina con una nota positiva, una sorta di dichiarazione d’amore alla mia famiglia e alla musica come portatrice di verità e amore.

MOLTE DELLE CANZONI DELL’ALBUM MOSTRANO UNA STRUTTURA COMPLESSA, CON ELEMENTI MESCOLATI INSIEME IN MODO EFFICIENTE.
QUAL È IL CRITERIO COMPOSITIVO CHE UTILIZZATE? DA COSA NASCE UNA CANZONE? INIZIA CON UN CONCETTO,  UN RIFF, O QUALCOS’ALTRO? E QUANTO È IMPORTANTE L’IMPROVVISAZIONE IN STUDIO NEL VOSTRO PROCESSO DI SONGWRITING?

– Le canzoni possono iniziare in molti modi diversi, non abbiamo un’unica strategia per andare avanti. Spesso Erik registra frammenti di melodia o qualche progressione di accordi sul telefono mentre porta a spasso il cane, mentre io annoto frammenti di testo o un’intuizione. Curiosamente, abbiamo un’idea  della struttura completa dell’album già prima di registrare, in qualche caso abbiamo addirittura i minutaggi ed i nomi definitivi delle tracce. Insomma, ci serve un ‘involucro’ su cui lavorare per riempirlo dall’interno.
Assicurare una struttura a “An Empire” ha richiesto più tempo del solito, ma una volta raggiunto l’obiettivo tutto è diventato più semplice, perché avevamo un’idea chiara di ciò di cui le diverse parti necessitavano. Per quanto riguarda le canzoni, il nostro processo è comunque iterativo, creiamo draft molto semplici e poi coinvolgiamo il prima possibile altri musicisti per far germinare rapidamente nuove idee sopra quelle bozze.
Improvvisiamo molto, all’interno della struttura che abbiamo creato, e ci assicuriamo sempre di avere una certa urgenza nel processo di registrazione, per impedirci di rifinire troppo il suono.

LA PARTICOLARITÀ DELLE VOSTRE CANZONI LE RENDE PARTICOLARMENTE IMPEGNATIVE DA ESEGUIRE ON STAGE. STAI PROGRAMMANDO UN TOUR PER SUPPORTARE IL NUOVO ALBUM? COME CAMBIANO GLI ARRANGIAMENTI DALLO STUDIO AL PALCO?
– Non abbiamo ancora iniziato a provare le nuove canzoni, ad eccezione di “The Burning Wall” che abbiamo suonato dal vivo durante il nostro tour con The Ocean Collective a settembre. Presumo che cambieranno parecchio quando verranno adattate per un concerto, e sono davvero entusiasta di vedere cosa diventeranno. È così divertente riunirsi con la nostra band e vedere cosa possiamo ricavarne!

LA MAGGIOR PARTE DEGLI ALBUM DEGLI A SWARM OF THE SUN SONO STATI SCRITTI E PRODOTTI DA TE E ERIK. QUALI SONO STATE LE PRINCIPALI SFIDE COMPOSITIVE E PRODUTTIVE ALL’INIZIO E COME SONO CAMBIATE NEL TEMPO?
– La sfida maggiore è soprattutto logistica, dal momento che non siamo una band che prova al completo e non scriviamo canzoni nella sala prove. Di solito siamo io ed Erik a cercare di immaginare quale contributo gli altri musicisti potrebbero fornire, a volte dobbiamo convivere con elementi segnaposto piuttosto frammentari per un bel po’.
Certo, io mi posso posso arrangiare dietro la batteria, ma non sono assolutamente vicino al livello di Karl Daniel. Questo è il motivo per cui alla fine abbiamo optato per il processo che ti ho spiegato in precedenza. Nei primi album ci siamo spesso impantanati nel tentativo di raggiungere la perfezione in fase di scrittura, e questo – credimi – è il primo passo verso il fallimento.
Molte delle canzoni di “Zenith”, ad esempio, sono rimaste in fase di rifinitura quando erano già completate e prodotte, ma questo è un enorme dispendio di tempo e creatività.
In “An Empire”, invece, abbiamo posto molta più enfasi sulle texture e su come i diversi elementi compositivi possono interagire con successo. Volevamo evitare una netta separazione tra gli strumenti e lasciare invece che si intrecciassero in modo molto più dinamico, organico e naturale.
Erik suona l’e-bow su quasi tutte le tracce, e quel suono si fonde in modo straordinario con molti organi vintage, sintetizzatori modulari ed elementi elettroacustici che in un certo senso saturano la gamma di frequenze. L’obiettivo era quello di rendere labili i confini tra le diverse parti musicali e pensiamo di esserci riusciti, visto che io stesso, quando ascolto l’album ho difficoltà a sentire cosa stiano effettivamente suonando gli strumenti diversi.

IN GENERE I MUSICISTI TENDONO A EVITARE DI SCEGLIERE LE CANZONI O GLI ALBUM PREFERITI PER UNA SERIE DI RAGIONI, MA QUAL È L’ALBUM DI CUI SEI PIÙ ORGOGLIOSO O QUELLO CHE TI RAPPRESENTA MEGLIO?
– “An Empire”, ovviamente. Sono  orgoglioso di tutto quello che abbiamo fatto, ma questo ultimo lavoro segna un traguardo, per me.

AVETE LA REPUTAZIONE DI MUSICISTI PROLIFICI E PIUTTOSTO ECLETTICI. TI ANDREBBE DI PRESENTARCI I PROGETTI MUSICALI IN CUI SIETE COINVOLTI?
– Anders, il nostro bassista e amico da sempre, e io abbiamo iniziato un progetto durante la pandemia, in cui scrivevamo cose a casa e le mandavamo avanti e indietro. È molto lo-fi, elettronica e chitarre fuzzy, e canto in svedese. La band si chiama Epilogen e abbiamo pubblicato già tre album in due anni.
Ho anche pubblicato a mio nome un paio di lavori elettronici sperimentali, al confine con il drone. Erik ha lavorato sotto i moniker di Aoria e Kausal, anche se è ormai passato un po’ di tempo dalle ultime pubblicazioni.

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