AGNOSTIC FRONT – I padrini dell’hardcore

Pubblicato il 20/11/2019 da

Dai primi vagiti rivoluzionari al periodo crossover, passando dalla fase street punk degli anni ’90 è arrivando fino ad oggi, gli Agnostic Front rappresentano il New York Hardcore da 35 anni. Delle vere e proprie divinità in terra che si rifiutano di essere considerate solo un gruppo storico: la prova è il dodicesimo album in studio “Get Loud!”, da pochi giorni nei negozi, che ripercorre con autorevolezza diverse fasi della propria storia, celebrata trionfalmente anche nel riuscito documentario “The Godfathers Of Hardcore”. Per l’occasione abbiamo l’opportunità di raggiungere telefonicamente l’inossidabile Roger Miret, modello che ha ispirato intere generazioni di musicisti, per una chiacchierata breve ma significativa che mette in luce lo spessore e la caratura del personaggio.

prima pagina

HO AVUTO LA POSSIBILITÀ DI SENTIRE IL NUOVO ALBUM “GET LOUD!” E PENSO SIA PIÙ DRITTO AL PUNTO, PIÙ RIFINITO DELL’ULTIMO “AMERICAN DREAM”. SEI D’ACCORDO?
– Grazie del complimento, lo penso anch’io ma allo stesso tempo vorrei sia chiaro che sono sono anche contento di come è uscito “American Dream”, non lo considero su un piano inferiore.

LA SCRITTURA È STATA IN QUALCHE MODO DIVERSA?
– In qualche modo sì, perchè nel disco precedente avevamo scelto di proposito di scrivere molti pezzi thrash, diretti e veloci. In questo disco la line-up era maggiormente affiatata, è un disco più corale è più focalizzato.

“I REMEMBER” MI SEMBRA SIA UNA DELLE TRACCE CHE EMERGE NELLA TRACK LIST. DI COSA PARLA?
– È una canzone molto personale, direi la canzone più personale dell’intero disco. Parla della creazione degli Agnostic Front e dell’incontro tra me e Vinny. Abbiamo cercato di far uscire tutti i sentimenti che ci legano, vi piacerà.

COSA MI DICI DELLA TITLETRACK “GET LOUD!”? STAI PER CASO INCORAGGIANDO LA GENTE AD AGIRE IN QUALCHE MODO?
– È un incoraggiamento verso la gente a uscire dalla propria zona di comfort: le persone si sentono a loro agio a vivere giorno per giorno, immerse nella routine, di conseguenza diventano spesso infelici e non sono non sanno cosa fare, non sanno come uscire da questa situazione. Di conseguenza hanno bisogno di un piccolo incoraggiamento per fare la differenza, per concretizzare quel cambiamento e migliorare da soli la propria vita attraverso le proprie azioni.

CI SONO ALTRE TRACCE DELL’ALBUM CHE NON VEDI L’ORA DI SUONARE DAL VIVO O CHE TI SENTI PARTICOLARMENTE FIERO DI AVER COMPOSTO?
– Adoro “Spray Painted Walls”, mentre “Urban Decay” è una delle mie canzoni preferite. Mi piace molto anche “Snitches Get Stitches”. Ci sono un sacco di canzoni che hanno avuto un bel responso e che non vedo l’ora di suonare dal vivo. Stavolta sarà davvero difficile trovare qualche canzone da sostituire nella setlist.

PARLIAMO DELL’ARTWORK DI COPERTINA. L’AUTORE È LO STESSO ARTISTA CHE HA LAVORATO SU “CAUSE FOR ALARM” GIUSTO? QUAL È IL COLLEGAMENTO CON QUEL CLASSICO?
– Esatto lo stesso artista, che ha riportato in vita i personaggi di “Cause…”. Volevamo una cosa forte, così abbiamo preso la decisione di richiamare Sean Taggart sicuri che avrebbe fatto un ottimo lavoro. Era un’idea che avevo in testa da parecchio tempo, per fortuna lui si è detto subito molto entusiasta, sia per l’ingaggio che per il titolo del disco. Ho detto che avrei voluto comparissero gli stessi personaggi del lontano 1986 e lui ha creato questa nuova copertina nello stesso stile di “Cause…”. penso sia assolutamente fantastica.

PERCHÉ SIETE VOLATI IN CALIFORNIA PER LE REGISTRAZIONI?
– Abbiamo registrato in California per gli ultimi due dischi, sempre con Paul Miner. È uno dei miei ragazzi, con lui è molto facile lavorare e ha un orecchio incredibile. In studio è molto veloce. Semplicemente è la situazione migliore che abbiamo mai provato, è molto difficile trovare un posto dove ti senti realmente a tuo agio e dove è facile lavorare e trovare i giusti ritmi, dov’è facile realizzare un’idea, far capire un’intenzione. Paul è sulla nostra lunghezza d’onda per qualche motivo, è veloce, ti mette subito in carreggiata e per questo lo adoriamo.

ANCHE TU SEI ACCREDITATO COME PRODUTTORE. COME LAVORI COI TUOI COMPAGNI?
– Mi sono occupato più che altro della pre-produzione, di tutto quello che c’era da sistemare prima di entrare in studio. Ho lavorato in sala anche con mio fratello Freddy dei Madball e con Jamey Jasta degli Hatebreed ma non voglio che produrre diventi il mio mestiere. Come lavoro? Li spingo a dare il meglio al servizio della canzone, che sia una melodia di chitarra o un fill di basso o batteria. Anche loro ovviamente fanno lo stesso con me.

SEI SEMPRE TU IL TOUR MANAGER DEL GRUPPO?
– Lo sto facendo in questo momento! Cedo il posto a qualcun altro quando siamo in Europa, ma qui negli Stati Uniti è tutto più facile, non mi serve alcun aiuto. È impegnativo certo, ma mi piace aver sott’occhio gli affari del gruppo e mi piace tenermi impegnato.

QUAL È IL SEGRETO DELLA VOSTRA LONGEVITÀ?
– Essere genuini ed onesti. Quando si è onesti è facile essere riconosciuti come tali e creare delle situazioni positive, creare qualcosa di cui la gente vuol far parte.

CI SONO DEI NUOVI GRUPPI CHE TI ISPIRANO COME ARTISTA?
– Devo essere onesto: penso che da precursori, da veterani e da creatori del genere Hardcore ci sia concesso di riciclare noi stessi. Ovviamente ci sono gruppi che ci influenzano visto e considerato che suoniamo spesso e volentieri con formazioni giovani e contemporanee, ma quando è il momento di scrivere o di trovare ispirazione cerchiamo in noi stessi, all’interno del nostro repertorio.

AVETE CERTAMENTE IL DIRITTO DI FARLO! ESSENDO UN PADRINO DI QUESTO GENERE MUSICALE TI CHIEDO: LA MUSICA HARDCORE SI È ESPANSA IN MOLTISSIME DIRAMAZIONI. ESISTE QUALCUNA DI QUESTE CHE SECONDO TE È SBAGLIATA? C’È QUALCUNO CHE DOVREBBE EVITARE DI DEFINIRSI HARDCORE?
– Per me quello che conta di più è sempre il messaggio, più della musica. È vero che il genere ha toccato orizzonti impensabili figli delle influenze e della sensibilità dei singoli artisti, molti dei quali a me non piacciono, ma finché mantengono vivo il movimento e finché c’è un messaggio positivo per me va bene tutto. Io rimarrò sempre fedele all’Hardcore vecchia scuola ma ogni cinque anni cambia davvero il mondo, quindi va bene così.

“VICTIM IN PAIN” HA 35 ANNI, RIESCI A CREDERCI? QUAL È IL TUO RICORDO PIÙ VIVIDO DI QUELL’ERA?
– Gesù ne ho talmente tanti… Un sacco di ottimi amici, tantissimi bei momenti, sicuramente l’esplosione del movimento Hardcore. Ricordo la pubblicazione di “United Blood” (l’EP di debutto del gruppo, ndR) e ricordo i primi concerti, e dopo un paio di mesi la situazione è cambiata, c’era così tanta gente ai concerti. È successo tutto così in fretta, ma i ricordi rimangono indelebili nella mia testa.

COME ALTRI GRUPPI STORICI STATE SUONANDO I VOSTRI ALBUM CLASSICI PER INTERO IN EVENTI SPECIALI. LO FARETE ANCHE DALLE NOSTRE PARTI?
– L’abbiamo fatto e lo stiamo facendo, ci sono show esclusivi dove suoniamo per intero “United Blood” e “Victim In Pain”, ma perlopiù lo facciamo in America perchè questi album sono corti! In 25 minuti abbiamo finito! Stessa cosa quando abbiamo suonato “Cause For Alarm”, meno di mezz’ora. Si tratta di celebrare qualcosa di storico, in questi casi bisogna assaporare ogni minuto. Dalle nostre parti lo apprezzano, in Europa ci viene chiesto di fare qualcosa di più, soprattutto quando suoniamo da headliner, quindi è più difficile realizzare una cosa del genere. Dipende anche dalla complicità dei promoter, si vedrà.

NON CI SARÀ’ UNA TAPPA ITALIANA DEL PROSSIMO PERSISTENCE TOUR, POSSIAMO SPERARE LO STESSO DI VEDERVI NEL 2020?
– Sono molto positivo a riguardo, forse in estate o forse prima della fine dell’anno. L’Italia è sempre nel nostri mirino, non vi preoccupate.

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