Per chi scrive, “Come Forth to Me” degli Akurion corrisponde ad una delle massime sorprese dell’anno in corso. Un’opera in cui è impossibile non avvertire il tocco formidabile dei nomi chiamati in causa – nella fattispecie Mike DiSalvo (ex Cryptopsy), Robin Milley (Neuraxis), Tommy McKinnon (ex Augury, ex Neuraxis) e Olivier Pinard (Cattle Decapitation, Cryptopsy, Vengeful) – in grado di coniugare tecnica ed emotività in un amalgama sonoro di rara potenza ed efficacia. Death metal di stampo nordamericano che nobilita il genere stesso e che annienta i pregiudizi sulle cosiddette ‘all-star’ band a colpi di songwriting ispiratissimo e di una cura maniacale per i dettagli e gli arrangiamenti, che ci ha spinto a contattare la band per un’analisi più approfondita della sua genesi. Risponde alle nostre domande il chitarrista/membro fondatore Robin…
COM’È NATA L’IDEA DI FONDARE GLI AKURION? COSA AVEVATE IN MENTE QUANDO AVETE INIZIATO A PENSARE ALLA LORO MUSICA E ALLA DIREZIONE STILISTICA DA INTRAPRENDERE?
– L’idea di fondare gli Akurion mi venne nell’autunno 2011, poco dopo un tour con i Neuraxis. Mi misi al lavoro su nuova musica e decisi di contattare Mike (DiSalvo, voce) per capire se la cosa potesse interessargli. Ci conoscevamo già da molti anni, da quando nel ‘97 entrò a far parte dei Cryptopsy, e in tutto quel lasso di tempo restammo buoni amici, senza mai perderci di vista. Così, dopo un paio di birre e dopo aver ascoltato i miei riff, decise di salire a bordo del progetto. Lavorammo alla struttura dei brani e ai testi per diversi mesi, fino a che, verso la metà del 2012, chiesi a Oli (Pinard, basso) di unirsi alla band (all’epoca senza nome). Dopo aver lavorato con lui su “Asylon” dei Neuraxis, sapevo che sarebbe stata la persona giusta, inoltre in quel periodo era già entrato nei Cryptopsy. Inutile dire che sua personalità e le sue abilità musicali fossero entrambe di altissimo livello. Non molto tempo dopo fu la volta di Tommy (McKinnon, batteria), che aveva suonato nei Neuraxis qualche anno prima. Assicurati i loro servigi iniziammo a provare e a lavorare insieme alla musica. Lo stile si definì in maniera molto organica e naturale; con input provenienti da tutti e quattro, fu quasi scontato avvicinarsi al suono delle nostre esperienze passate, anche se qualcosa di nuovo e di fresco stava prendendo forma come conseguenza della nostra alchimia. Suonare dal vivo non faceva parte del piano, volevamo semplicemente creare delle canzoni che ci divertissero e appagassero, dando la priorità al songwriting. Penso che questo ci abbia aiutato a non sentire pressione e a non affrettare i tempi di scrittura.
LA TRACKLIST CONTIENE BRANI MOLTO LUNGHI E COMPLESSI. È STATA UNA COINCIDENZA O UNA SCELTA PONDERATA? E QUALI PENSATE SIANO GLI EPISODI PIÙ RAPPRESENTATIVI? PERSONALMENTE, HO APPREZZATO MOLTISSIMO “LEAVE THEM SCARS” E “SOUVENIR GARDENS”…
– È stata più che altro di una coincidenza, dovuta al fatto che i miei riff tendono ad essere molto articolati e tortuosi. Così, quando abbiamo deciso di utilizzarli, le canzoni hanno finito per diventare più lunghe del normale. La struttura di ogni brano doveva anzitutto farci divertire mentre la suonavamo, non ci siamo preoccupati di ciò che poteva pensare la gente. Ecco perché le canzoni sembrano spesso delle storie in divenire. Immagino che il lato progressive degli Akurion derivi da questo, dal non seguire una tipica forma canzone e dal lasciare semplicemente che la musica e i riff ci guidino sul loro percorso. Sperimentare con una grande varietà di ritmi di batteria, linee di basso, strati chitarristici e fraseggi vocali è stata una parte fondamentale del processo creativo. “Leave Them Scars” e “Souvenir Gardens” sono forse le tracce più progressive del disco, e “Leave…” anche una delle più rappresentative, dal momento che attraversa una serie di stati d’animo molto diversi tra loro. Abbiamo lavorato a lungo su questo brano per renderlo completo, ed ecco perché abbiamo deciso di collocarlo all’inizio del disco. Ascoltarlo e suonarlo ci lascia sempre un senso di potenza in corpo. Un’altra canzone rappresentativa è sicuramente “Year of the Long Pig”. Feroce e dritta al punto. Credo dia perfettamente l’idea di quanto avrebbe potuto essere aggressivo l’album, se solo lo avessimo voluto. Nel complesso, ogni brano ha la sua storia. Una volta scritto e registrato il disco, sapevamo di avere qualcosa di speciale per le mani, qualcosa doveva essere vissuto dall’inizio alla fine. Come un viaggio.
HO DAVVERO AMATO LA PRODUZIONE. TUTTO SUONA REALE, L’ALBUM NON È STERILE O IPER-PRODOTTO… SE NON HO CAPITO MALE È STATO REGISTRATO DAL VIVO, È CORRETTO? COME SIETE ARRIVATI A QUESTA DECISIONE?
– La produzione è frutto del talento e delle orecchie esperte di Jeanne Artemis Streider. Lasciamo a lei gli onori visto che dedicato davvero tanto tempo alle fasi di mixing, mastering e re-amping. Ricollegandomi a quanto detto prima, non abbiamo avuto alcuna fretta o smania di finire entro una certa data. A conti fatti, ci è voluto quasi un anno per finalizzare la produzione. In quel lasso di tempo sono successe un sacco di cose a livello personale, quindi abbiamo rallentato il processo e lavorato sul mix con Jeanne per circa dodici mesi. Sono contento di averlo fatto, perché ci ha dato una prospettiva diversa su molti aspetti del disco. A volte non ascoltare il proprio lavoro per un paio di mesi, tornandoci poi su con calma, ti fa venire in mente nuove idee da aggiungere. Le registrazioni sono state invece supervisionate da un gentleman di nome Alexandre Hebert, che è riuscito a catturare la nostra musica alla perfezione. Abbiamo deciso di registrare l’intero album dalla A alla Z in un’unica performance, tutti insieme nella stessa stanza. Lo abbiamo fatto per immortalare l’alchimia fra noi quattro, quindi si può dire che sia una rappresentazione live autentica della band. Si sente tutta l’energia di ogni musicista chiamato in causa per cercare di dare alle canzoni una loro personalità. Abbiamo anche registrato senza click, scelta che porta a qualche imprecisione ma che dà una sensazione organica all’ascolto. Qualcosa di reale e autentico. Nulla è stato quantizzato per adattarsi ad uno schema e sembrare perfetto; alle nostre orecchie sarebbe solo sembrato falso, noioso e senz’anima. Ovviamente, in un secondo momento, abbiamo fatto molte sovraincisioni per aggiungere profondità e dettagli, per questo dovevamo assicurarci che i brani fossero suonati e riprodotti al meglio. Prima delle registrazioni abbiamo provato a lungo sia individualmente che collettivamente. Ci congratuliamo ancora una volta con Alexandre per aver preso parte a questo lungo ed estenuante processo.
COME AFFRONTATE L’ASPETTO LIRICO DELLA VOSTRA PROPOSTA? DI COSA PARLANO I TESTI?
– I testi si basano su esperienze personali, ma possono anche riflettere significati di cui il nostro essere non fa necessariamente parte, come un’osservazione esterna. Le tematiche vanno dal lutto, al dolore, al superamento delle emozioni, ai momenti bui della vita, alla positività e all’essere in sintonia con sé stessi.
LA LISTA DEGLI OSPITI SU “COME FORTH TO ME” È A DIR POCO IMPRESSIONANTE. VI ANDREBBE DI PARLARCENE MEGLIO? COME AVETE COINVOLTI QUESTI ARTISTI?
– Tutti gli ospiti sono persone che rispettiamo e ammiriamo. Sicuramente il numero uno che volevamo era Luc Lemay dei Gorguts. Siamo tutti suoi grandi fan e ci siamo subito immaginati la sua voce su un paio di brani. Inoltre, gli abbiamo chiesto di scrivere un’intro per il brano “Souvenir Gardens”. Il suo talento e la sua conoscenza in materia di orchestrazioni erano qualcosa che volevamo assolutamente esplorare. Anche la partecipazione di Lord Worm è stata molto interessante; una sorta di scambio fra due ex cantanti dei Cryptopsy. Abbiamo poi JM LeBlanc dei Vengeful, responsabile di alcune backing vocals devastanti, e Sylvia Hinz e Austin Taylor dei Coma Cluster Void. Soprattutto Sylvia si è resa protagonista di una performance davvero spettrale su “Yet Ye See Them Not”. Inoltre, Jeanne Artemis Streider (anch’essa dei Coma Cluster Void) ha suonato il piano su una traccia. E infine abbiamo Genevieve DiSalvo, moglie di Mike, ospite come cantante su “Petals From a Rose Eventually Wither to Black”. Purtroppo si ammalò poco dopo le registrazioni, lasciandoci per sempre. Quella è la sua ultima testimonianza.
CITANDO UN NOTO BRANO DEI FEAR FACTORY, VEDETE IL DEATH METAL COME UNA TERAPIA PER IL DOLORE?
– Credo di sì, che possa essere una forma di terapia per il dolore. Che si tratti di death metal o di qualsiasi altro genere musicale… penso che creare musica e suonarla sia molto terapeutico. Nel corso degli anni ho scritto la maggior parte delle mie canzoni in momenti difficili della vita. Di solito è come un flusso di idee che fluisce da un periodo emotivamente doloroso. So che per Mike vale la stessa cosa con i testi. L’ispirazione scaturisce dalle difficoltà. Mi è capitato spesso di leggere di musicisti e cantautori che descrivono certi album come istantanee della loro vita. Forse è come un ciclo: sei ispirato da ciò che ti circonda, la musica nasce da quello, altri ascoltano quella musica e vengono ispirati a loro volta per creare qualcosa di artistico.
IL CANADA SEMBRA SEMPRE IN GRADO DI PRODURRE MUSICA DI QUALITÀ, INDIPENDENTEMENTE DAL GENERE. COME VE LO SPIEGATE? E CONSIDERATE LA MUSICA DEGLI AKURION IN QUALCHE MODO ORIGINALE?
– Non so se ho una risposta a questa domanda. È vero: in Canada – e più in particolare a Montreal, nel Quebec – si sono visti molti talenti nel corso degli anni. Forse, il fatto che Montreal sia molto ricca artisticamente e culturalmente ha aiutato le persone a prosperare anche nel mondo della musica. Le condizioni atmosferiche potrebbero poi avere una loro parte. I lunghi inverni provocano come un’ibernazione della vita sociale, quindi più tempo per concentrarsi sulle proprie passioni e i propri sbocchi creativi. Musicalmente parlando, c’è stato un forte incremento delle doti tecniche, che ha portato ad una forte competitività per cercare continuamente di superarsi a vicenda. Per quanto riguarda la musica degli Akurion, penso che siamo stati in grado di creare qualcosa di unico per noi. Naturalmente ogni membro della band ha le sue influenze, ma penso anche che il fatto di suonare musica da 25-30 anni ci abbia insegnato a migliorare il nostro songwriting.
CHE TIPO DI EMOZIONI VORRESTE SUSCITARE CON LA VOSTRA MUSICA?
– Bella domanda. Speriamo che la nostra musica possa ispirare qualcuno in modo positivo, sebbene ci siano sicuramente degli aspetti oscuri in quello che suoniamo. Rabbia e aggressività, malinconia e tristezza. Finché riusciremo a creare qualcosa con cui la gente potrà connettersi, ci reputeremo soddisfatti e non avremo altro da chiedere.
TROVATE DIFFICILE SCRIVERE NUOVI RIFF IN UN GENERE COME IL DEATH METAL, DAL MOMENTO CHE MOLTO È GIÀ STATO ESPLORATO IN PASSATO?
– Diciamo che non è facile. È stata prodotta così tanta musica metal negli ultimi trenta/quarant’anni che è difficile non ritrovarsi a comporre qualcosa di familiare. Credo che il trucco stia nel non prendere ispirazione da un solo stile o genere. Tutti negli Akurion condividono influenze comuni, ma ognuno di noi ha background differenti che spero possano portare unicità al nostro stile.
RICORDATE COME AVETE SCOPERTO QUESTO TIPO DI MUSICA?
– Il mio gruppo apripista al metal furono gli AC/DC. “Back in Black” e “Razor’s Edge” ebbero un impatto fortissimo su di me, facendomi scoprire il concetto di hard rock intorno agli undici/dodici anni. Da lì continuai con Iron Maiden, Motley Crue, Metallica, Megadeth, Anthrax, Testament… fino a che non ascoltai “Human” dei Death; in quel momento realizzai che volevo passare a sonorità più pesanti. Death, black, grind… tutte le forme di musica underground erano un must da scoprire. Quel disco mi aprì le porte su un mondo completamente nuovo.
QUALI SONO LE BAND CHE PIÙ TROVATE INTERESSANTI AL GIORNO D’OGGI? VI TENETE AGGIORNATI SUGLI ULTIMI TREND E DISCHI?
– Sicuramente, della generazione di gruppi degli ultimi 10 anni, adoro gli Ulcerate. Ho una vera fissa per quei ragazzi, sia su disco che dal vivo. Ciò che suonano ti fa compiere ogni volta un viaggio, ti scava dentro e ha molti strati e trame da scoprire. Trovo sia un tipo di musica estrema davvero stimolante e interessante. Mi piacciono molto anche i Blood Incantation e il modo in cui esplorano piani alternativi e ipnotici della realtà.
QUALI SONO I VOSTRI PROGRAMMI PER IL FUTURO? POSSIAMO ASPETTARCI DI VEDERVI SU UN PALCO, UNA VOLTA TERMINATA L’EMERGENZA PANDEMIA?
– Continueremo a promuovere “Come Forth to Me” online. Per quanto riguarda i concerti, vista l’attuale situazione nel mondo, è tutto rimandato di parecchi mesi. Forse al 2021. Ad ogni modo, se riceveremo proposte interessanti per un tour le prenderemo in considerazione. Solo il tempo potrà dirlo. Per il momento invitiamo le persone ad ascoltare “Come Forth…”; se volete provare l’esperienza degli Akurion dal vivo, è la cosa che più le si avvicina. Grazie per l’interesse mostrato nei nostri confronti e per l’intervista, un saluto!