“Colors” del 2007 è stato sicuramente l’album della consacrazione per i Between The Buried And Me, quello che ha permesso loro di fare il decisivo salto di qualità ed entrare nella ristretta cerchia delle band che riescono ad avere successo pur suonando una musica ostica e fuori dagli schemi, nel loro caso un metalcore fortemente tendente al progressive metal, con canzoni che sono un vero caleidoscopio di colori (non a caso) e generi differenti. Il quintetto della Carolina del Nord ha deciso di riportare le lancette indietro di quattordici anni e pubblicare la seconda parte di quel lavoro, intitolata appunto “Colors II”, riuscendo pienamente nell’intento di ridare vita a quelle atmosfere senza tuttavia essere troppo pedissequo nei confronti dell’originale. Le motivazioni che hanno spinto la band a tuffarsi in questa impresa arrivano da una sorta di reazione alla situazione attuale, che sembra aver instaurato negli americani un forte desiderio di dimostrare qualcosa, come se la realizzazione di quest’album fosse una prova di forza.
Ci spiega tutto questo il cantante Tommy Rogers, mai banale anche quando non è dietro ad un microfono.
CIAO TOMMY, INNANZITUTTO BENVENUTO SU METALITALIA.COM. COME STAI VIVENDO IN QUESTI MOMENTI COSÌ DIFFICILI?
– Sto bene. Vivo per andare in tour ma questa situazione per me è dolceamara: sarebbe buona cosa tornare on the road e guadagnare qualche soldo, è dura e sono molto triste ma allo stesso tempo posso vivermi la mia famiglia. In ogni caso sono contento, ovviamente in questo momento, come per ogni altra persona, ci sono alti e bassi, ma abbiamo il nuovo album e le cose stanno migliorando, presto torneremo a suonare dal vivo. Tutto sommato per ora mi ritengo fortunato e spero che tutto vada nella direzione in cui sta andando. Vedremo…
“COLORS II” ARRIVA QUATTORDICI ANNI DOPO IL PRIMO CAPITOLO. COME VI È VENUTA IN MENTE QUESTA IDEA? PERCHÈ PROPRIO ORA? QUALI SONO LE DIFFERENZE E LE SIMILITUDINI TRA I DUE DISCHI?
– L’input iniziale è arrivato dal nostro batterista, Blake. L’idea non era esattamente quella di ricreare la stessa musica o quello che abbiamo fatto con quell’album ma scrivere qualcosa con la stessa mentalità che permeava “Colors” e penso sia stata una grande intuizione, specialmente quando è iniziata la pandemia, poiché siamo stati catapultati in una situazione di dura necessità, con il bisogno di trasformare quello che stavamo passando in qualcosa di concreto e mostrare al mondo che per noi tutto ciò era così importante. Dovevamo ritrovare la nostra identità, fregarcene di tutto e fare del nostro meglio; ed è precisamente il punto in cui ci trovavamo ai tempi del primo “Colors”, eravamo in un posizione che non eravamo sicuri ci competesse, poteva funzionare o essere un fallimento, dovevamo solo aspettare. Tutto ciò è accaduto con entrambi gli album e ci è sembrata la cosa giusta. Anche il titolo riguarda l’atto di creare musica, si parte dal nulla e si crea qualcosa e ci sono molti aspetti che riguardano le connessioni tra la band ed i fan. Siamo cresciuti veramente molto nel corso di questa pandemia e abbiamo collaborato come non mai.
Ci sono alcuni ritorni al passato in “Colors II”, alcune idee, abbiamo manipolato alcuni riff per ridare loro nuova vita, ma tutto ciò è stato fatto senza un preciso proposito, non era previsto. Non volevamo che i due dischi fossero affiancati, ognuno dei due deve essere preso nella sua singolarità, non devono essere ascoltati uno dopo l’altro. Sono molto differenti, direi: dopo quattordici anni siamo molto cambiati, sotto il profilo musicale, e anche personale, scriviamo in modo diverso. Il nuovo album rappresenta noi in questo momento, ed è ciò che proviamo a fare con ogni nostra nuova opera.
RIGUARDO “COLORS”, AI TEMPI DELL’USCITA AVETE DETTO CHE ERA UN’ANALISI DI VOI STESSI E DELL’UMANITÀ. DI COSA PARLA INVECE “COLORS II”? C’È UN FILO CONDUTTORE CHE LEGA I PEZZI O OGNUNO DI ESSI TRATTA UN TEMA DIFFERENTE?
– Un altro aspetto che mi piaceva man mano che mi approcciavo alla scrittura di questo album era il fatto di non dover creare una storia, non avevo nessuna intenzione di produrre un concept album e l’ho subito messo in chiaro con gli altri. Sembrava una cosa che ci si aspettava da me, come se dovesse succedere in maniera naturale, ma non era ciò che avevo in mente di fare; volevo essere motivato ed ispirato da qualcosa di nuovo, volevo solo scrivere quello che usciva dalla mia mente, senza dover pensare ad una trama o a come trovare connessioni tra i pezzi. Componevo ogni volta che ne sentivo il bisogno, quasi ogni giorno, pensando di mettere insieme tutto in seguito ed è stata la scelta giusta, questo metodo mi ha aiutato nell’ispirazione.
TRA I PEZZI DEL NUOVO ALBUM SPICCA IL PRIMO SINGOLO “FIX THE ERROR”, CHE ALLA BATTERIA PUÒ SFOGGIARE LA PRESENZA DI MIKE PORTNOY, NAVENE KOPERWEIS E KEN SCHALK E SEMBRA ANCHE ESSERE UN BRANO DIFFERENTE DAGLI ALTRI. CE NE PUOI PARLARE?
– Sì, esatto, è un pezzo differente. Volevamo uscire dalla gabbia, mostrare che siamo sempre in evoluzione, che proviamo cose nuove. Le vibrazioni del pezzo, penso, esprimano un sentimento positivo, c’ è un’energia che scorre ed è in un certo qual senso motivante per chi la ascolta; abbiamo pensato fosse il modo giusto per uscire con una nuova canzone e con un nuovo album, con uno spirito confortante per affrontare la situazione di merda che stiamo vivendo.
Il pezzo contiene dei soli di batteria eseguiti da ospiti, si possono fare cose fuori dall’ordinario con la musica e volevamo dimostrarlo. È un brano diverso dagli altri, è stato anche il ‘fun moment’ dell’album e per questo abbiamo deciso di proporlo come primo singolo. Molte volte è difficile fare questa scelta poiché i dischi sono opere musicali che andrebbero prese nella loro interezza e non pezzo per pezzo.
“COLORS” È CONSIDERATO DAI VOSTRI FAN COME L’ALBUM PIÙ RAPPRESENTATIVO DEI BETWEEN THE BURIED AND ME. QUANTO LO È PER VOI? HAI COMPRESO LA SUA IMPORTANZA MENTRE LO STAVATE COMPONENDO? PENSI CHE IN QUALCHE MODO ABBIA INFLUENZATO ALTRE BAND O MUSICISTI?
– Ogni volta ci sono delle influenze, non c’è complimento migliore. Siamo tutti grandi fan della musica e ne siamo ispirati, quindi quando possiamo fare lo stesso e restituire ciò che abbiamo ricevuto lo facciamo volentieri. “Colors” per noi è molto importante, è il primo album con questa formazione che ci ha realmente fatto sentire di essere al posto giusto. Abbiamo lavorato insieme per “Alaska” e per l’album di cover “The Anatomy Of” e ci siamo resi conto di essere complementari l’uno con l’altro; in particolare, mentre stavamo componendo “Alaska”, i membri della band non si erano mai incontrati tra di loro, c’è voluto tempo per conoscersi dal punto di vista personale ed imparare a scrivere insieme. Con “Colors”, invece, eravamo ormai rodati ed a nostro agio, capaci di esprimerci al meglio e di operare come una squadra, la creatività sbocciava intensa e abbiamo realizzato cosa volevamo essere in questo processo. È per questo che è così importante per noi, è stato un punto di svolta che ci ha condotto al punto in cui siamo.
NEI VOSTRI PEZZI È POSSIBILE ASCOLTARE UN’ENORME QUANTITÀ DI GENERI, DAL DEATH METAL AL COUNTRY E TUTTO CIÒ CHE STA DI MEZZO. COME FUNZIONA IL PROCESSO DI COMPOSIZIONE? È CAMBIATO RISPETTO ALL’INIZIO DELLA VOSTRA CARRIERA?
– Sicuramente è cambiato molto da quando ci siamo formati a questo momento. All’inizio si trattava solo di cantare, suonare e mettere insieme i riff; ora lo sforzo è decisamente maggiore. Tutti e cinque abbiamo lavorato insieme per comporre quest’album, componendo più canzoni allo stesso tempo. Alcuni di noi fanno qualcosa, altri seguono aspetti differenti, è una sorta di comunione di idee e questa volta è accaduto tutto in modo molto veloce. In ogni momento arrivavano spunti che finivano nel nostro suono. Non è una situazione studiata a tavolino del tipo: “Ora inseriamo una parte country“; una delle cose che preferisco fare è vedere la musica sotto una luce differente, prendere un riff e reimmaginarlo, suonarlo al piano invece che con la chitarra per esempio, oppure suonare una parte nata per essere metal come se non lo fosse o viceversa. Questo è il nostro modo di guardare alla musica, ricomporre il grande puzzle di cui noi siamo una tessera.
LA VOSTRA MUSICA È COMPLICATA E SFACCETTATA E NON FACILE DA DESCRIVERE. COME LO FARESTI?
– Non lo so. Lasciamo che sia la gente a farlo, per noi si tratta solo di scrivere musica, qualsiasi cosa ci passi per la testa in un determinato frangente. Cerchiamo di non rimanere intrappolati in un genere ben preciso.
PENSI CHE I FAN VI VEDANO COME UNA BAND IN CONTINUA EVOLUZIONE? TUTTO CIÒ PUÒ CREARE ASPETTATIVE ECCESSIVE IN CHI ASCOLTA I VOSTRI ALBUM?
– Ci sono sempre aspettative, è naturale essere sotto pressione quando si tratta del nostro lavoro, ma siamo fortunati ad avere uno zoccolo duro di fan che si aspetta da noi un continuo cambiamento ed una evoluzione, e ne siamo felici; molte altre band non hanno la stessa fortuna oggigiorno. Spero che sia sempre così, per me ogni album è incapsulato nel tempo, ci rappresenta in quel preciso istante, con tutta la genuinità possibile. E speriamo di continuare ad evolverci, se così non fosse dovremmo preoccuparci perché significherebbe che qualcosa di storto sta accadendo.
POTENDO SCEGLIERE UN ARTISTA DAL PRESENTE O DAL PASSATO CON CUI POTER SUONARE, OPTERESTI PER QUALCUNO IN PARTICOLARE?
– Non ne ho idea. Ce ne sono troppi, non riesco a darti una risposta.
NEL 2006 AVETE REALIZZATO UN ALBUM DI COVER,“THE ANATOMY OF”. PENSI CI POTRÀ ESSERE UN SEGUITO IN FUTURO?
– Onestamente è una cosa di cui non abbiamo mai parlato tra di noi. Non dico di no, perché magari tra quindici anni lo faremo. E’ stato un esperimento divertente ma, sai, se prendi “Colors”, esso è uscito in quel modo perché abbiamo sperimentato tantissimo, mentre l’album di cover ci è servito in studio per imparare molti aspetti legati alla produzione e per capire in altri generi musicali cosa si fa per ottenere un certo tipo di suono. Per questo motivo penso che “The Anatomy Of” ci abbia aiutato moltissimo nella scrittura di “Colors”, ma per il futuro non ne ho veramente idea.
C’E’ DIFFERENZA TRA SUONARE PER IL PUBBLICO AMERICANO E QUELLO EUROPEO?
– Le reazioni non sono molto diverse. In America abbiamo folle più numerose e quando c’è più gente in effetti può crearsi più energia, anche se non è sempre scontato. Nel 2020 abbiamo fatto concerti in Sud America e l’intensità era veramente altissima ma, in generale, sentiamo una forte connessione con il nostro pubblico, siamo una live band, siamo su un palco e pensiamo solo a suonare.
UNA CURIOSITÀ: UNA NUOVA SPECIE FOSSILE QUALCHE ANNO FA E’ STATA CHIAMATA ‘ANPHILIMNA INTERSEPULTOSETME’, TRADUZIONE IN LATINO DEL VOSTRO NOME. COME È SUCCESSO?
– E’ stata opera di uno scienziato, di cui non ricordo il nome (la scoperta fu fatta da John Jagt, Lea Numberger-Thuy e Ben Thuy del Museo di Storia Naturale in Lussemburgo, ma sembra che il nome sia stato scelto da quest’ultimo, NdR). E’ una cosa un po’ folle, siamo stati fortunati; ricordo che quando ne siamo venuti a conoscenza l’abbiamo invitato ad uno show. Fare parte di tutto ciò è stato un onore.