Se, come dovrebbe essere idealmente, la musica fosse solo passione, allora Jøzsef Tøth meriterebbe un riconoscimento infinitamente più grande rispetto alla ristretta cerchia di fedelissimi che ascoltano i suoi dischi. Il chitarrista ungherese, infatti, ormai da anni è dedito alla causa del metal con un fervore unico, spaziando tra diversi generi e pubblicando album con una cadenza alla quale è difficile tenere il passo. In questa miriade di progetti, la sua band principale, almeno al momento, sembrano essere i Bipolar Disorder, vicini ad una sensibilità death/doom che però muta in modo camaleontico ad ogni nuova uscita, espressione diretta degli stati d’animo del suo autore. Il recente “Lélek Hamvak”, in modo particolare, pare essere un’opera fortemente catartica, in cui buio e luce si confondono, partendo da una situazione personale e generale assolutamente negativa per arrivare ad uno spiraglio che possa essere di conforto.
Di questo e di altro parliamo in questa intervista nella quale, a dispetto del suo proclamarsi persona schiva e distaccata, Jøzsef dimostra di essere un interlocutore loquace e profondo.
CIAO JØZSEF, PUOI RACCONTARCI QUALCOSA DELLA BAND? COME E QUANDO E’ NATA? QUALI SONO I VOSTRI OBIETTIVI?
– Un saluto a tutti! L’idea di creare la band è nata circa a metà 2019. In quel periodo, i notiziari parlavano spesso degli incendi in Australia e con gli altri dei Degragore (band death metal di cui Jøzsef fa parte, ndR) decidemmo di scrivere una canzone, che uscì molto lenta, per supportare le organizzazioni che si occupano della salvaguardia degli animali. Con Gábor Sütő, cantante dei Degragore, abbiamo pensato di andare oltre e formare una nuova band, i Bipolar Disorder appunto. In questo progetto Gábor canta ed io scrivo i testi e tutti i pezzi sono realizzati e registrati da noi due. Non volevamo suonare doom metal nudo e crudo, anzi il progetto originario era quello di impressionare l’ascoltatore dando una direzione positiva. All’inizio facemmo ciò con i sintetizzatori, mentre ora puntiamo maggiormente sul cantato pulito. I testi vanno nella stessa direzione: il messaggio positivo ne fa parte allo stesso modo di quello negativo. Non vogliamo solo prendere, ma anche donare qualcosa a chi ascolta, cercando di trovare l’enfasi giusta, muovendoci tra piacevole e spiacevole.
SEI COINVOLTO IN NUMEROSI PROGETTI. CE NE PUOI PARLARE? COME RIESCI A SCRIVERE COSI’ TANTA MUSICA? SEI ATTIVO SIA NELLA SCENA DEATH SIA IN QUELLA BLACK. COME RIESCI A CONIUGARE QUESTE DUE PASSIONI?
– Suono la chitarra da vent’anni e da allora non so quante band ho formato. Sono un compositore di pezzi maniacale. Il mio primo gruppo serio sono stati i Necrophilia, che suonavano black. Ci furono molti cambi di formazione che rallentarono la vita della band e resero quasi impossibile provare insieme e, quando un membro del gruppo si suicidò, decidemmo di scioglierci. Fu ovviamente un periodo difficilissimo, dal quale ci riprendemmo con molta fatica.
Avevo molte idee in sospeso e avevo ancora voglia di fare musica. Fu allora che diedi vita al mio primo progetto personale, i Liquid Cemetery, anch’essi black. Le mie conoscenze come ingegnere del suono erano rudimentali, e ciò si vedeva chiaramente quando pubblicammo l’album, ma con il tempo sono riuscito a migliorare molto sotto l’aspetto della registrazione.
Il concept che stava dietro ai Liquid Cemetery era a dir poco unilaterale, e ciò che sembrava essere una buona idea divenne la mia croce, che non mi sentivo più di portare avanti. Ma allo stesso tempo imparai come una one-man band deve lavorare.
Prima di terminare con i Liquid Cemetery formai un altra band, gli Abehrum, votati al depressive black metal e per la prima volta mischiai melodie ‘piacevoli’ con un cantato estremo, creando atmosfere malinconiche. Anche allora ero legato all’idea di sperimentazione; ma una formazione di quel tipo è difficile da tenere in vita, se non tutti i componenti sono fanatici del genere suonato e, così, dopo un solo disco ci sciogliemmo. Ciò che mi rimase in mente lo sfruttai per un ulteriore progetto solista, virando in parte dal black metal al post rock/post metal.
Ma non sono solo questi gli ambiti musicali che mi appassionano, in quanto sono legato anche al death metal e, nel corso degli anni, ho composto molti riff ad esso improntati e per questo motivo ho formato i Dipylidium Caninum, che suonano goregrind e in seguito i Degragore, più vicini al brutal.
Sono una persona abbastanza introversa, non vado spesso in mezzo alla gente, non vado alle feste o ai festival, in realtà mi muovo pochissimo (risate, ndR). E’ per questo motivo che ho così tanto tempo da dedicare a comporre e registrare musica. E’ ormai parte integrante della mia vita, senza la quale non so cosa farei.
Sono in contatto con un numero limitato di musicisti, mi piace selezionare bene i miei compagni di lavoro.
CI PARLI DELLA TUA ETICHETTA, LA DHS? TI SERVE SOLO PER I TUOI PROGETTI O LAVORI ANCHE CON ALTRI ARTISTI? PENSI CHE ANDRAI SEMPRE PER LA TUA STRADA O IN FUTURO VORRESTI TROVARE UNA LABEL PER CUI INCIDERE?
– DHS Records è la mia etichetta personale, attraverso la quale pubblico solamente la mia musica.
L’idea mi venne perché pensavo che tutto il materiale composto negli anni dovesse essere raggruppato in un solo posto. Considera che lavoro solamente in formato digitale. Ogni tanto lascio che tutti i dischi siano scaricabili gratuitamente, Bandcamp mi avvisa che ho raggiunto trecento download e ho i crediti per passare di nuovo la mia musica gratuitamente (risate, ndR). Non è un’attività seria, è solo una piattaforma su cui ho caricato l’intero lavoro della mia vita.
Sarei contento un giorno di trovare un’etichetta con cui accordarmi e che mi possa permettere di proporre la mia musica ad un pubblico più numeroso.
LA VOSTRA MUSICA ED I VOSTRI TESTI SONO SPESSO ISPIRATI A PROBLEMI A LIVELLO MENTALE. PUOI SPIEGARCI DI COSA TRATTA “LÉLEK HAMVAK ”? QUAL E’ IL SIGNIFICATO DEL TITOLO? IN QUALCHE MODO LA PANDEMIA HA INFLUENZATO LA SUA SCRITTURA?
– “Lélek Hamvak” si può tradurre con ‘ceneri dell’anima’ ed è focalizzato a raccontare ciò che rimane dopo che si è perso tutto. L’attuale situazione ha creato ovunque difficoltà e problemi difficili se non impossibili da risolvere. Molta gente è morta, i media confondono, i politici sono implacabili nella loro invadenza e non prestano attenzione ai diritti umani, si è persa la dignità di essere liberi. E’ una condizione soffocante, e non si sa quando avrà termine. Il mood dell’album prova ad essere calmante, rilassante, abbiamo provato ad utilizzare armonie positive, ma senza dare una falsa speranza, ed è per questo che abbiamo inserito anche suoni dissonanti.
I testi sono immagini della vita che molti uomini stanno vivendo ora e il nostro pensiero al momento della composizione era che, se avessimo realizzato questo tipo di musica, questa avrebbe aiutato ad affrontare la vita con più facilità, poiché l’ascoltatore avrebbe capito di non essere solo.
L’IMPRESSIONE E’ CHE “AGONY OF MELANCHOLY” FOSSE FORTEMENTE INFLUENZATO DAL DEATH/DOOM METAL DI VECCHIA SCUOLA, CON PEZZI MOLTO LUNGHI E MOMENTI ATMOSFERICI, MENTRE “LÉLEK HAMVAK ” SIA PIU’ VICINO A BAND COME SHINING OR LIFELOVER. CONFERMI?
– Mi sembra di poter confermare. Questi cambi di mood sono ciò che caratterizza i Bipolar Disorder. Penso che sia il modo per rendere la nostra storia più colorata ed interessante. L’ascoltatore assorbe non solo la musica ma anche il tuo stato d’animo e, se è così, può avere da noi un disco che sia conforme al suo mood.
QUALI SONO LE TUE INFLUENZE? CI SONO DELLE BAND CHE AMI IN MODO PARTICOLARE?
– Non moltissime band hanno avuto un certo impatto su di me, ma ce ne sono alcune che hanno influenzato in modo decisivo i miei gusti. Per il black metal ti cito i primi Enslaved, Burzum e Covenant. Per il death metal ti direi Disgorge, Deicide, Morbid Angel e Morgoth. Per il doom Abstract Spirit e Katatonia. Infine aggiungerei Type O Negative, Líam e Tiamat.
SUONI O HAI INTENZIONE DI SUONARE LIVE IN FUTURO?
– Essendo una persona piuttosto chiusa, la possibilità che possa fare un concerto è praticamente nulla.
I TUOI ARTWORK SONO MOLTO PARTICOLARI, E PARLO DI “LÉLEK HAMVAK ” MA NON SOLO. PER ESEMPIO “AGONY OF MELANCHOLY” HA UNA COPERTINA MOLTO EFFICACE. CE NE PARLI? CHI SE NE OCCUPA? COME SCEGLI LE IMMAGINI?
– Queste copertine sono state realizzate da Gábor. Ha un interesse molto serio per la fotografia ed idee creative che sa come realizzare.
Di solito quando abbiamo scritto la maggior parte dei pezzi di un album, ci troviamo a discutere riguardo il concept dell’opera e allo stesso tempo proviamo a focalizzare immagini da abbinare al materiale. E’ un lavoro collettivo ma Gábor è quello che lo mette in pratica; è un po’ come veder nascere il disco passo dopo passo.
PARLANDO PROPRIO DEL LAVORO DI GABOR, LA DIFFERENZA PIU’ IMPORTANTE RISPETTO AGLI ULTIMI ALBUM E’ CHE QUESTA VOLTA NON ERI ESATTAMENTE DA SOLO, MA CON LUI ALLA VOCE.
– All’inizio gli davo istruzioni, ma ho subito realizzato che non ne ha bisogno, è un artista in ogni senso e non si deve influenzare il suo lavoro. Sono veramente contento di come sia in grado di esprimersi, dei colori che sa conferire alla musica. Ha una grande voce e mi piace veramente lavorare con lui, è in un eterna fase di miglioramento.
I TESTI SONO IN UNGHERESE. COME MAI QUESTA SCELTA? LO PREFERISCI ALL’INGLESE, CHE IN PASSATO HAI UTILIZZATO?
– Non voglio esaltare le mie origini, ma l’ungherese è una lingua meravigliosa e molto più espressiva dell’inglese. Ha un vocabolario estremamente ricco e variegato.
Sicuramente esprimendoci nella nostra lingua è più semplice tirar fuori i pensieri più profondi, quelli che necessitano franchezza. In ogni caso, in futuro ci saranno ancora canzoni in inglese.
COME HAI VISSUTO LA PANDEMIA, OLTRE CHE SCRIVENDO E SUONANDO MUSICA?
– Molto è cambiato negli ultimi due anni. Abbiamo vissuto circondati dalle difficoltà e non è ancora finita. Le sfide fanno parte della vita, anche se noi spesso preferiamo evitarle; ma, finché il nostro cuore batte, si va avanti.
Provo a concepire tutto ciò, pensando che quello che accade non solo ci toglie qualcosa ma anche aggiunge qualcos’altro alla nostra personalità, rendendoci più aperti a situazioni alle quali finora non avevamo prestato la necessaria attenzione. Penso inoltre che questo sia il momento giusto per mettere da parte il nostro egoismo e dedicarci maggiormente a chi ci sta attorno. Non è facile, ma dobbiamo rivalutare molti aspetti, se vogliamo adattarci e sopravvivere.
Quello che io posso dare è la mia musica; se ascolti una canzone, in quei minuti non presti attenzione a null’altro, e ciò ti può dare gioia e forza. Grazie mille per l’intervista e per l’opportunità, vi auguro il meglio!