Laval, Francia. L’hardcore incontra il post-metal in una delle uscite più interessanti dell’anno: “We Already Lost The World” dei Birds In Row. Il trio si pone come unitario, coeso, talmente unito da preferire non essere nominato a livello di singoli, ma presentarsi come un’unità specifica dietro al semplice nome della band. Se la musica è quella che dovrebbe parlare – e non il resto – è anche vero, dunque, che il messaggio di questa band non può essere sciolto solamente nelle sue sonorità abrasive, nella sua violenza espressiva e nel suo immaginario di musica estrema. I Birds In Row sono maturati in un progetto con un messaggio ben chiaro, che forse si nasconde dietro una estrema sintesi della perdita del mondo, dell’abbandono al male che lo ha attanagliato, nel nichilismo che potrebbe scaturire da questa constatazione, ma anche e soprattutto in un’intenzione positiva, di nuova creazione, di potenza benefica. Molto spesso si rischia di vedere l’hardcore come semplice espressione di malessere e non come potenziale beneficio per l’anima. Nel loro piccolo i ragazzi di Laval cercano di portare avanti un messaggio significativo che hanno cercato di spiegarci poco dopo il loro show allo scorso VVitch Festival al Magnolia di Milano.
LA BAND SI PRESENTA COME UN UNICUM, UN TUTT’UNO, DICO BENE? SPIEGATECI UN PO’ IL MOTIVO DI QUESTA SCELTA, ANCHE ALLA LUCE DELL’INTERVISTA, SULLA QUALE PREFERITE NON APPAIANO I NOMI DEI SINGOLI.
-Per noi è un concetto molto semplice: la musica deve prevalere su tutto. La gente si dovrebbe soffermare solo sulla nostra musica e non su chi siamo come singole entità. Abbiamo sempre voluto essere anonimi, evitare quella sorta di situazione in cui qualcuno viene messo sul piedistallo a discapito di altri nella band. Abbiamo sempre preferito parlare con un fan per una mezz’ora rispetto a farci una posa per una foto per due secondi e poi andarcene. Ciò è sempre stato più importante per noi che mettere le nostre facce in giro. Oltretutto credo sia opportuno mettere sul tavolo nuove idee e non fare come fanno tutti. Non c’è un unico modo per presentare le persone, soprattutto quando si cerca, come noi, di creare un vero collettivo. Creiamo musica insieme, decidiamo insieme, non c’è nessuna primadonna. Accade molto spesso con il cantante ad esempio: lui non è più importante del bassista, o del batterista. Vogliamo essere tutti sullo stesso livello. Siamo tutti persone normali, abbiamo relazioni normali e cerchiamo di discorrere di ciò che riteniamo importante.
ED È PROPRIO QUELLO CHE AVETE APPENA DETTO ON STAGE. CREDO PERSONALMENTE SIA UN MESSAGGIO MOLTO IMPORTANTE, DI VERA PACE E COMUNIONE, CHE PORTATE AVANTI, TRA IL RUMORE E LE NOTE. UN VERO MESSAGGIO POSITIVO.
– Certamente. Va ben oltre quella negatività che sembra apparire così forte nella musica. È violenta. Ma è un messaggio positivo, dopotutto.
– Se si pensa al punk c’è sempre stato un discorso di disprezzo verso chi pensava essere meglio di te stesso, persone che si credevano e che credevamo amiche e poi si sono dimostrate diversamente. Insomma, quello che ci interessa è stare sullo stesso piano degli altri, come individui e come musicisti. Almeno per rendere questo messaggio più umano. Le liriche e i suoni sono sì violenti, ma il messaggio vuole essere un messaggio positivo, in fondo.
Con il disco passato c’era molta negatività ed è forse per questo che nel nuovo lavoro abbiamo cercato di oltrepassare quel sentimento e cercare di creare qualcosa che potesse essere visto come positivo, umano, comunitario. Parlare con la gente, portare le persone nella nostra comunità. Tu facevi riferimento a “Pilori”, che in francese rimanda a quello strumento di tortura medievale nel quale vieni posto – mani e testa – e la gente ti tira le pietre addosso (gogna, ndr).
L’ULTIMA CANZONE DELL’ALBUM PARLA DI UN CONCETTO CHE PENSO POSSA ESSERE RAPPRESENTATIVO PER IL DISCORSO CHE STIAMO FACENDO. IN PARTICOLARE VOI DITE “TO ALL THE UNHAPPY WANDERERS / AFTER THE DESERT THERE IS A SEA / OF DUST AND BONES / AND THE BITS OF SHALLOW WATER LEFT / HIDE IN THEIR WOMBS / FOSSILS INSPIRATIONS / THE SEA RUNS DRY / WE LOSE HOPE“. PERO’ SULLA COVER DEL DISCO CI SONO DUE MANI: UNA DI UN GIOVANE E UNA DI UN VECCHIO, UNITE. QUINDI ABBIAMO SPERANZA O L’ABBIAMO PERSA DEL TUTTO?
– Qui si parla dell’ispirazione. Pensa a quando eravamo giovani e mettevamo altri sul piedistallo. Nella nostra scena, ad esempio: un tempo pensavamo in molti fossero dei grandi e invece avrebbero potuto essere pessimi individui. Penso che è allora che si perda l’ispirazione, quella magia, e in parte la speranza. Se fossi ancora così giovane oggi non saprei davvero a chi guardare con gli occhi dell’ammirazione. Non saprei da chi essere davvero ispirato. Questa canzone parla dell’essere ispirati e ispiranti. Questo è il messaggio: oggi ne abbiamo bisogno. Brava gente, esempi da seguire. Nel nostro piccolo cerchiamo di andare in tour, conoscere gente ogni sera, parlarci, cercare di essere una sorta di ispirazione in positivo. È un modo per noi di dimostrare che si può fare lo stesso. Non siamo leggende, non siamo una big band: tutti possono fare quello che facciamo. Speriamo possano tutti fare lo stesso.
– In effetti è anche vero che non l’avevamo scelta come canzone finale del disco. Finire con la frase “we lose hope” è in effetti molto forte. Non sapevamo quella sarebbe stata l’ultima canzone (ride, ndr). Nella copertina del disco, come dici, c’è speranza, quell’immagine specifica. Ci è piaciuto così alla fine e abbiamo tenuto questo concetto. Forse il titolo dell’album (‘Abbiamo già perso il mondo’ in traduzione, ndr) vuol semplicemente dire che abbiamo perso UN mondo: cerchiamo di costruirne un altro, migliore. L’ambiguità del titolo è infatti non poter combattere per quello che è già perso. Ma poter costruire un mondo nuovo, proporre idee nuove, cercare di costruire qualcosa di migliore.
VOLEVO CHIEDERVI DI PARLARCI DELLA SCENA DI MUSICA ESTREMA FRANCESE. E DI COME QUESTA VIOLENZA MUSICALE POSSA TORNARE A PARLARE CON LA GENTE.
– Ci sono un sacco di band magnifiche. La cosa che più mi colpisce è che un musicista che suona con una band può anche essere membro di un’altra band e si finisce per conoscersi tutti. Credo che anche loro condividano il messaggio di trasmissione di un messaggio positivo. Non saprei dirti se è una scena cool ma ti posso dire che per noi lo è. Abbiamo tutti un sacco di amici e persone magnifiche.
– C’è molto intorno alla Throatruiner Records. Mathias è una persona che riesce a scovare dei talenti magnifici e dargli visibilità. Mi vengono in mente i Necrodancer, gli As We Draw, Death Engine e molti altri. Un sacco di band in questa scena sono sicuramente parte della migliore scena estrema francese. Una cosa negativa è che in molti, però, non partecipano alle date delle altre band. A Parigi, ad esempio, come in molte città, un tipo di persone va a sentire un tipo di musica specifico e altre ne vanno a sentire un altro e non c’è grande senso di supporto reciproco in questo senso. C’è una grande divisione tra il metal e il punk ad esempio. Sembra ci siano dei codici diversi. Però non definirei propriamente una ‘scena’ quello che sta accadendo in Francia. Sembra talvolta ci sia sempre quel concetto dell’erba del vicino che è sempre più verde e c’è molta competizione. Sicuramente ci sentiamo di dire che ci sono cose estremamente interessanti in Francia che non hanno la visibilità che meriterebbero di certo.
PARLANDO DI COME IL MONDO SIA DIVENTATO DIGITALE: COME PENSATE QUESTO CAMBIAMENTO ABBIA INFLUENZATO IL MODO CHE LA MUSICA VIENE CONCEPITA, CREATA, ASCOLTATA?
– Lo stesso modo in cui la cassetta, o il CD, hanno cambiato la musica. Allo stesso modo. Solo un nuovo medium. La gente continuerà ad ascoltare vinili, CD e quant’altro. Addirittura qualcuno compra ancora cassette. Penso che questo abbia portato ad un vantaggio per molte band: poter essere maggiormente visibili con Internet. Questo è quello che è capitato a noi. Tutta la nostra musica può essere scaricata gratuitamente, ad esempio su Bandcamp. Spotify è diverso, però penso che sia un nuovo standard che sicuramente ha cambiato le cose. Parlando di come si compone penso che la digitalizzazione abbia cambiato la durata, lo standard, la tracklist. Mi viene da pensare alla hit dell’album di oggi: deve essere messa al primo posto, proprio in virtù del fatto che è di facile skip, altrimenti. Ai tempi del cd si aspettava il terzo pezzo per arrivare alla vera hit. In questo modo ci sono degli effettivi cambiamenti. Però immagino si debba sempre, anche oggi, ascoltare l’intero album per avere un parere sulla sua qualità effettiva.
– Si, c’è una nuova opportunità di fruire della musica. Scaricarla e gettarla via. Però è sia una cosa buona e negativa allo stesso tempo. Nella nostra scena c’è ancora gente che compra materiale fisico. Probabilmente nel mainstream le cose siano effettivamente cambiate parecchie.
IN “15-38” MI SONO VENUTE IN MENTE UN SACCO DI INFLUENZE INDIE-ROCK E POST-PUNK, COME GLI INTERPOL, AD ESEMPIO. SONO IO CHE SONO ANDATO TROPPO OLTRE O ANCHE QUESTO GENERE RIENTRA TRA I VOSTRI ASCOLTI E INFLUENZE?
– Hai ragione. Pensa che quando abbiamo fatto il primo riff ci siamo detti “potremmo fare qualcosa di diverso con questo pezzo”. Questa canzone è stata fatta in due ore, poi abbiamo messo le liriche e la voce. Sembrava proprio qualcosa di diverso, ma è stato bello così.
– Queste cose sono organiche e naturali, come quando si vedono nei documentari delle band o nei retroscena della composizione dell’album. Anche le migliori canzoni sono state composte in poco tempo, forse. Quando l’abbiamo composta abbiamo detto “è una canzone da X Factor”. A nostro modo. Non pensavamo potesse essere un singolo ma ha ricevuto commenti entusiasti, in effetti e allora ci siamo detti “ok, va bene”. Per noi è bello poter proporre qualcosa di nuovo. In effetti non è strano ascoltare e suonare qualcosa di diverso. Alla fine ascoltiamo band hardcore tutte le sere quando suoniamo e non è male staccarsi un po’ dal genere tante volte. Abbiamo abbastanza hardcore nelle nostre vite, quindi ascoltiamo un sacco di altre cose: dal folk, al blues, al pop. Black metal? Perché no?
UN’ALTRA INFLUENZA MI È PARSA LA DANZA CONTEMPORANEA, COME NEL VIDEO DI PRESENTAZIONE DI “I DON’T DANCE “. È STATA UNA SCELTA CHE E’ VENUTA DOPO O UNA DECISIONE PRECISA QUELLA DI RIFARSI AD UN IMMAGINARIO COME QUELLO DI QUESTA NOBILE ARTE? IL VIDEO E’ RIUSCITISSIMO, PERALTRO.
– Uno di noi aveva precedenti nella breakdance. La cover avrebbe dovuto addirittura essere due mani di danzatori che si avvicinavano. Quindi la danza è sempre stata parte integrante del nostro modo di pensare. Nel video non avevamo pensato a qualche tipo di danza volevamo. L’ha scelta il direttore del video, Craig Murray. Quando l’abbiamo contattato non gli dicemmo le nostre idee. Furono semplicemente le stesse e fu una cosa molto bella così come andò. L’intero disco è pieno di questa metafora con la danza. La dance-hall è sempre stato uno dei luoghi di comunione tra le persone, un meeting point per eccellenza, fin dai tempi antichi e si sposa bene con il messaggio che vogliamo dare. Non tutti sono contenti, ma si cerca di combattere insieme. La canzone parla di come tu puoi sentirti attratto e allontanato dalle varie poetiche e politiche, il farsi domande, l’essere instabili e l’essere fermi nelle proprie idee. Una sorta di danza bilanciata tra le varie scelte nella vita. L’esempio potrebbe essere danzare e combattere con un’idea, non solo politica. Avevamo anche pensato ad una danza violenta, ma poi abbiamo deciso di togliere ogni forma di violenza e lasciare la poesia della metafora.
VOLEVO PARLARE UN PO’ DELLA PRODUZIONE. CREDO QUESTO POSSA ESSERE UN ARGOMENTO FONDAMENTALE DI OGGI QUANDO SI FA USCIRE UN LAVORO MUSICALE. COME È AVVENUTA LA VOSTRA SCELTA PARTICOLARE DI MIX E LAVORO DI POST-PRODUZIONE, AD ESEMPIO. COME IL SOUND ENGENEERING E’ DIVENTATO SEMPRE PIU’ IMPORTANTE NELLA MUSICA, RISPETTO A VENT’ANNI FA AD ESEMPIO.
– Mio fratello cura tutto questo aspetto. Io ho sempre studiato con lui. E direi che rende il tutto progressivamente migliore. Lui migliora e noi con lui. Credo che non si possa staccarsi da questo aspetto. Bisogna essere collegati strettamente all’aspetto produttivo. Lavorare con lui è stato fantastico, grazie alla sua visione, ai suoi consigli. Maurice Sauvè è il nostro quarto membro, potremmo dire. Per esempio, a me piacciono molte band che su disco fanno cagare, ma se fossero meglio tutto sommato se il sound fosse migliore sarebbe solo tutto di guadagnato. Il sound da cantina è affascinante, ma un buon sound è decisamente meglio.
– Credo sia la prima cosa che uno ascolta oggi. Puoi essere super-punk o super-garage e voler avere un’estetica che si basa su un sound di basso livello, ma è comunque una scelta che devi affrontare. E’ parte dell’estetica legata alla musica che suoni. Quello che intendiamo fare noi è avere un suono massivo e definito allo stesso tempo e ci piace poter avere un wall of sound ma anche che si capisce bene quello che sta avvenendo. Credo sia importante avere in mente cosa vuoi fare con la tua musica, soprattutto a livello di sound engeneering. Ogni musicista – e forse anche ogni ascoltatore – sa che è necessariamente importante. Per non parlare di quanto è importante dal vivo…
STASERA L’HEADLINER SARA’ UN COMPOSITORE LEGATO ALLE COLONNE SONORE DI LUCIO FULCI. COME PENSATE CHE LA MUSICA ESTREMA POSSA CONNETTERSI CON L’IMMAGINARIO HORROR, SIA LETTERARIO CHE CINEMATOGRAFICO? NELL’HORROR C’È SEMPRE STATA UNA CRITICA SOCIALE SOTTOSTANTE AGLI ZOMBIE, AL SANGUE, ALLA MORTE.
– Credo che non bisogna avere barriere e basta. Probabilmente chi guarda roba horror ascolta anche quello che ascoltiamo e facciamo noi. Forse è la rappresentazione stessa della nostra società. Ci sono però persone che ascoltano jazz e musica classica che però vengono da noi e ci apprezzano. Forse la musica è in grado di far vibrare la sensibilità di animi differenti. Viviamo nello stesso mondo, abbiamo le stesse sensazioni, forse anche le cose da dire sono le stesse. Sono solo le estetiche ad essere diverse. La gente che ama l’horror ama anche il metal. È la stessa estetica, lo stesso pattern, credo sia logico, dopotutto. Quello che abbiamo imparato nel tour e anche nel lavoro è il non poter pensare che la nostra scena sia solo fatta di punk, anarchici e gente di questo tipo. Siamo tutti nello stesso mondo e lo viviamo probabilmente in modi diversi. Crediamo che essere migliori e senza barriere forzate si possa tutti vivere meglio.