Siamo solo a febbraio, ma il 2020 ci ha già regalato quello che molto probabilmente si confermerà uno dei suoi apici death metal. “The Sixth Hour”, terza prova sulla lunga distanza dei Blasphemer, si è infatti rivelato un ascolto semi-obbligato per tutti coloro che sono cresciuti con il mito degli anni Novanta o per chi ne ha subito il fascino in tempi più recenti, facendo venire a galla le influenze di vecchi Morbid Angel e Sinister del gruppo lombardo e declinandole in maniera fresca e avvincente attraverso una tracklist che non manca mai di esprimere personalità e cura nei dettagli. Un comeback notevole sotto ogni punto di vista, di cui abbiamo parlato in maniera approfondita con il chitarrista/membro fondatore Simone Brigo…
CIAO RAGAZZI, BENTORNATI SULLE PAGINE DI METALITALIA.COM. ALLA LUCE DEI NUMEROSI CAMBIAMENTI AVVENUTI DALLA NOSTRA ULTIMA CHIACCHIERATA, VI ANDREBBE DI FARE UN RIEPILOGO DEGLI ULTIMI ANNI IN CASA BLASPHEMER?
– Sono passati quasi quattro anni dall’ultima intervista con Metalitalia.com, e di cose ne sono successe parecchie. Nel 2016 è uscito “Ritual Theophagy”, il nostro secondo disco, a cui è seguito un periodo durissimo. L’album era stato registrato con un batterista americano, Darren Cesca (Deeds of Flesh, Incinerate, Arsis, ecc.), e avevamo preso accordi con un musicista italiano per promuoverlo dal vivo, ma al momento di cominciare questi accordi sono sfumati e ci siamo trovati col culo per terra. Di nuovo. Abbiamo tentato in tutti modi di reclutare un batterista, ma in quel periodo chiunque sapesse tenere in mano due bacchette era convinto di poterci guadagnare un sacco di soldi, e prima ancora di mettersi alla prova con i pezzi del disco (Darren non è un batterista che si possa rimpiazzare tanto facilmente) veniva a chiederti soldi. D’un tratto, tutti avevano trovato il lavoro della vita: fare il musicista death metal. Vivere di musica. Mandare in culo tutto e vivere il sogno. Di loro non ce l’ha fatta nessuno, che io sappia. Ricordo che andavamo a provare come degli sfigati con le tracce di batteria del disco, convinti che qualcuno, alla fin fine, l’avremmo trovato. È stato frustrante, ma l’ostinazione ci ha premiati e nel 2017 sono stati reclutati Nicolò Brambilla (chitarra) e Davide Cazziol (batteria). Nello stesso anno mi sono rimesso a comporre, ma ormai il mio stile si era allontanato moltissimo dai Blasphemer dei primi due dischi, e credo che questo abbia avuto un ruolo nella sofferta decisione di Paolo Maniezzo, nostro cantante storico e grande amico, di lasciare la band. Stavamo lavorando duramente e avevamo bisogno di una soluzione veloce per colmare un vuoto così importante. Il cambiamento non è quasi mai indolore, e negli anni sono diventato estremamente selettivo nella scelta dei musicisti: non mi sentivo di aprire le porte del gruppo ad un altro cantante, e per questo motivo (oltre che per l’innegabile attitudine a questo ruolo) Clod nei panni di frontman è stata la prima e unica scelta. Ancora oggi gli sono estremamente grato per aver accettato questa nuova sfida, e tutti converranno che ne è stato decisamente all’altezza. La band era di nuovo al completo, così siamo entrati in studio per registrare il singolo “Jesus Is Stripped of His Garments” (lo stesso pezzo uscito poi nel 2019 nello split con i Neocaesar) e mettere subito in chiaro cosa eravamo diventati e cosa ci si sarebbe dovuti aspettare da noi. Nei due anni successivi abbiamo ripreso anche con i live, avendo la fortuna di suonare sui palchi dell’In Flammen, del Move Your Fucking Brain, del NRW Death Fest, ecc. Nel frattempo abbiamo lavorato senza sosta al terzo disco, tanto da averlo registrato, mixato e masterizzato a giugno 2019.
VENIAMO DUNQUE A “THE SIXTH HOUR”, UN’OPERA CHE SI DISCOSTA PARECCHIO DALLA VOSTRA PASSATA PRODUZIONE. QUANDO AVETE REALIZZATO CHE ERA GIUNTO IL MOMENTO DI PROVARE IL COSIDDETTO ‘TUTTO PER TUTTO’? IN CHE MODO VI SIETE APPROCCIATI ALLA SUA STESURA?
– La verità è che nessuno di noi si è mai preposto di tentare il ‘tutto per tutto’. Nessuno dei nostri dischi è nato a tavolino, e “The Sixth Hour” non rappresenta un’eccezione. L’album è stato scritto con estrema spontaneità, forse anche più dei precedenti: non c’era la smania di ottenere riconoscimenti a tutti i costi, di dimostrare di essere i più veloci, i più tecnici, i più incazzati. Non abbiamo mai avuto l’idea di poter fare dei Blasphemer una professione, dunque tutto quel che abbiamo composto è sempre stato completamente onesto. Detto fuor di metafora: non è stata una decisione commerciale. Anche stavolta ho cominciato a scrivere e i pezzi hanno preso forma uno dopo l’altro, senza forzature: li avevo semplicemente nelle mani. Questo però non significa che il materiale non sia stato poi raffinato con una estrema cura: per dare coerenza complessiva al disco, ho riscritto molti riff e in un caso persino un intero pezzo. Per “The Sixth Hour” avevamo un concept forte e l’imperativo è stato fin dall’inizio quello di restituirlo nel modo più efficace, con particolare attenzione alle atmosfere.
SIETE SEMPRE STATI IDENTIFICATI COME UN GRUPPO PRETTAMENTE ‘BRUTAL’. QUALI PENSATE SARANNO LE REAZIONI DEL PUBBLICO A FRONTE DEL VOSTRO NUOVO CORSO? I FAN DEATH METAL, SI SA, POSSONO ESSERE MOLTO INTRANSIGENTI E AVVERSI AI CAMBIAMENTI…
– Siamo stati un gruppo brutal death per moltissimo tempo, certamente fino al 2016. “Ritual Theophagy” aveva già alcuni elementi nel nostro nuovo stile, ma ad uno stadio assolutamente embrionale e solo all’interno delle canzoni composte più tardi (le più recenti sono del 2014!). A dirla tutta, nemmeno nel 2008 rientravamo a pieno titolo nello stereotipo di band brutal death. Il nostro background principale era rappresentato da quei nomi che hanno fatto grande il genere: impazzivamo per Deicide, Morbid Angel e Sinister, ed è lì che affondavano le radici del nostro death metal anticristiano, come del resto si evinceva da immagine e tematiche. Eppure volevamo differenziarci dalle nostre origini, avendo ormai subito l’influenza di band per noi fondamentali come Suffocation, Pyemia, Cryptopsy e – su tutte – Deeds of Flesh (“Inbreeding the Anthropophagi” resta ancora oggi uno dei miei dischi preferiti). 2006-2008 sono stati anni di trasformazione in cui tutti volevano in qualche modo contribuire al nuovo sound che andava formandosi sia in Europa che negli USA, e anche noi eravamo sempre chiusi in sala prove a sperimentare nuove soluzioni, fino a che non abbiamo messo a punto quella che sentivamo essere la nostra formula. Nel frattempo il brutal death era sostanzialmente rinato e si delineavano due correnti: da una parte uno stile che portava al parossismo gli aspetti tecnici, rinunciando però spesso alla brutalità; dall’altra la scuola Disgorge, che ha generato infinità di cloni (la vera eccezione dal mio punto di vista sono stati i Putridity, che hanno saputo rinnovare in modo originale questo stile). Da ultimo, a qualche anno di distanza, quel death metal newyorkese sempre più ibridato con l’attitudine hip-hop da cui sarebbe poi scoppiato il trend dello slam (a cui mai avrei dato vita così lunga). Noi in tutto questo non stavamo veramente da nessuna parte: non eravamo il gruppo tecnico dei piri-piri (allora si diceva così), ma nemmeno quello di powerchord e armonici. Non avevamo nessuna influenza core, non indossavamo delle cazzo di tute e non avevamo donne sventrate in copertina (in realtà una sì, ma era una citazione dell’Estasi di santa Teresa del Bernini!). In compenso avevamo strutture complesse, un riffing impegnativo immerso nel caos infernale di una batteria feroce e il nostro trademark di allora: il 4 vocals-attack (che poi non era altro che un retaggio dei nostri ascolti grind). Niente zombie nei testi (allora senza zombie non valevi un cazzo), niente maglie colorate, niente loghi di Zig o vortici nel cielo degli artwork: eravamo abbastanza degli outsider nel genere. Tematiche anticristiane, un pezzo acustico strumentale, chitarre accordate in drop D… forse è stato proprio il forte legame con gli anni ‘90 ad averci differenziato allora, lo stesso che adesso è venuto fuori in maniera così evidente. Francamente non so quali saranno le reazioni del pubblico di fronte al nuovo disco: certamente a tanti “The Sixth Hour” non piacerà, ma sono altrettanto convinto che molti altri ne saranno entusiasti, specialmente quelli con un solido background death metal, che poi è la fonte da cui abbiamo da sempre attinto, seppur in forme e con esiti differenti. Non posso però dire di non aver considerato il problema: via via che i pezzi prendevano forma, mi chiedevo se fosse legittimo proporli come musica dei Blasphemer (specie dopo che Paolo aveva lasciato la band: l’avevamo fondata insieme). A lungo abbiamo valutato se cambiare nome e proporci come band ‘nuova’. Credo ci avrebbe anche favorito, dato che il brutal death era ormai un genere quasi scomparso, ma infine abbiamo deciso altrimenti. Di certo la musica è cambiata, è innegabile, ma resto il compositore principale e il concept che sta dietro alla band è immutato: a livello concettuale c’è continuità stringente ed estrema coerenza, per questo portiamo ancora con orgoglio lo stesso nome. Capisco però che si possa pensarla diversamente, e per questo motivo abbiamo deciso di giocare a carte scoperte, pubblicando nel 2017 un singolo che abbiamo diffuso gratuitamente in formato digitale, in modo da far sentire a tutti cosa fossero diventati i Blasphemer. Per di più quest’anno, in occasione del nuovo disco, abbiamo dato un ulteriore segno di discontinuità dismettendo il nostro logo (disegnato nel ‘98!) e sostituendolo con un lettering. In questo senso il nostro pubblico è stato allertato con ben due anni e mezzo di anticipo.
VISTA LA PRESENZA DI DIVERSI ELEMENTI BLACK METAL NELLA TRACKLIST DI “THE SIXTH HOUR”, È LECITO CHIEDERSI SE UN TEMPO AVRESTE MAI PENSATO DI UTILIZZARLI. IN SOSTANZA, QUAL È IL VOSTRO RAPPORTO CON QUESTO GENERE?
– No, non ci avrei mai pensato, e anzi se me l’avessero chiesto l’avrei certamente escluso. Il mio amore per il black metal è sbocciato tardi, ma è stato un punto di non ritorno che ha avuto un’influenza significativa sul mio songwriting. Ciononostante penso di poter dire che non è da lì che derivano le atmosfere blackish che compaiono a tratti su “The Sixth Hour”. La vera matrice sono band death metal classiche, su tutte Immolation e Incantation, che hanno sempre avuto atmosfere oscure ed evocative, le stesse che abbiamo cercato di ricreare a modo nostro con questo disco.
L’EVOLUZIONE MUSICALE TROVA ANCHE RISCONTRO NEI TESTI, MOLTO MENO DIRETTI RISPETTO AL PASSATO. QUAL È IL CONCEPT CHE FA DA SFONDO AL DISCO?
– La differenza stilistica nei testi si spiega in modo piuttosto semplice: per il 90% si tratta di citazioni evangeliche, benché riviste e arrangiate per i nostri scopi. “The Sixth Hour” è un concept album che ripercorre ciascuna stazione della Via Crucis con l’intenzione di restituire la solitudine e l’angoscia dell’uomo abbandonato da dio e messo a morte da altri uomini. A differenza dei dischi precedenti, qui non ci siamo focalizzati sul vilipendio della dottrina cristiana ma su una cinica rappresentazione del Cristo. Per farlo abbiamo preso i vangeli sinottici ed espunto tutto il loro contenuto religioso, mantenendo la mera cronaca che, avulsa dalla cornice sacra, ha un effetto drammatico di prim’ordine, la cui iconografia è sedimentata nell’immaginario occidentale da oltre 2000 anni. Unico testo completamente originale è quello della conclusiva “De Profundis” (l’inquietante voce dello spoken è di Frank Calleja, mio collega nei Beheaded) dove – coup de théâtre – una forza oscura si rivela quale regista occulto dell’intera vicenda. Mi piaceva l’idea di un’onnipotenza malvagia autrice dei destini umani.
PER QUANTO RIGUARDA LA PRODUZIONE, INVECE, VI SIETE AFFIDATI A DUE STUDI DIFFERENTI…
– Precisamente. Le riprese di tutti gli strumenti sono state gestite dalla band in autonomia, per poi portare il materiale delle registrazioni all’MK2 Studio di Davide Billia (Hour of Penance, Antropofagus, Xenomorphic Contamination e altro mio collega nei Beheaded) che si è occupato del mix e delle riprese della voce. Dave è un perfezionista, e in tutto quello che fa è di una professionalità e acribia davvero uniche: non avremmo potuto essere più soddisfatti del grande lavoro che ha fatto per il nostro disco. Finito il mix, abbiamo poi inviato il tutto agli Hertz Studio in Polonia, che di certo non hanno bisogno di presentazioni. Volevamo andare sul sicuro e contavamo su un risultato di alto livello, per questo ci siamo rivolti da subito e senza esitazioni ai migliori. Si trattava del nostro terzo disco e volevamo suonasse così come lo avevamo in testa, senza compromessi.
IL DISCO ESCE PER CANDLELIGHT. COM’È NATA QUESTA COLLABORAZIONE?
– Una volta finito il master lo abbiamo inviato a diverse label, e tra le risposte che abbiamo ricevuto c’era anche la proposta della Candlelight. Questa collaborazione rappresenta per noi sia un nuovo inizio che un riconoscimento per la nostra tenacia, per aver avuto le palle di restare anche quando tutto andava male. Una volta si chiamava attitudine, ed era un requisito essenziale.
A PRESCINDERE DALLO STILE UTILIZZATO, QUALI PENSATE SIANO I TRATTI DISTINTIVI DI UN BRANO DEI BLASPHEMER?
– I brani dei Blasphemer sono anzitutto monotematici! La nostra se vuoi è una monomania, quindi la tematica è sempre la stessa. Quanto alla musica invece non esiste una vera ricetta: l’obiettivo fondamentale per me è quello di ritagliarsi una propria originalità entro un determinato paradigma. Detto altrimenti: sviluppare uno stile proprio, ma all’interno di un genere di riferimento. Poi non è detto che ci sia mai riuscito, ma almeno penso di poter dire che i Blasphemer non sono mai stati la copia di qualcuno, pur non essendo certo degli innovatori (cosa a cui non abbiamo mai ambito).
COME AVETE SCOPERTO IL DEATH METAL E PERCHÈ VI SIETE INNAMORATI DI QUESTO GENERE MUSICALE?
– Perché era la cosa più fottutamente offensiva e violenta che avessi mai sentito! Da ragazzino ti trovi in mano un “Legion” e sei automaticamente in guerra con il resto del mondo!
DA VETERANI CON ALLE SPALLE OLTRE VENT’ANNI DI CARRIERA, COME GIUDICATE L’EVOLUZIONE DELLA SCENA DEATH METAL NEL NOSTRO PAESE? CHE RICORDI AVETE DEI PRIMI PASSI MOSSI COME BAND?
– Quando abbiamo cominciato era tutto diverso, il mondo della musica è cambiato profondamente e solo chi ha vissuto il mutamento ne percepisce la portata. Internet era una novità e funzionava di merda, i social media non esistevano, io neanche avevo un cellulare! I dischi dovevi comprarli e costavano caro: se ti andava bene e ti accontentavi, magari ti faceva una cassettina qualche amico. Nemmeno era così semplice trovarli, i dischi, altro che Spotify e YouTube! L’underground poi era letteralmente tale: locali indecenti e promozione fatta a volantini fotocopiati; strumentazione del cazzo su palchi inesistenti e il tutto condito dalla leggenda metropolitana del rimborso spese. Registrare un demo con dei suoni decenti allora aveva un costo importante, e il più delle volte gli studio non avevano idea di cosa fosse il metal estremo (specie qui da noi), quindi il risultato era molto spesso una merda. Insomma, era proprio difficile. Le band non erano tante (forse proprio per questi motivi!), ma tutto sommato ci si dava una mano e ci si supportava un po’ di più. Ho dei bei ricordi ma non rimpiango affatto il passato: oggi i ragazzi che mettono su una band hanno le idee molto più chiare delle nostre, spesso ascolti più completi, risorse decisamente migliori e la tecnologia ha reso accessibili cose prima impensabili: registrazioni di qualità con un budget limitato, la possibilità anche per le band emergenti di suonare all’estero, entrare in contatto con una quantità di etichette valide, ecc. Vedo anche tante nuove band fare show notevoli: suonano bene, sanno muoversi su un palco, hanno un’immagine curatissima dal vivo, in studio e persino nei booklet. Quello che però manca è un po’ di personalità: troppi cloni e, per i mei gusti, troppi nostalgici.
VINILE O CD?
– Non sono né troppo vecchio né troppo giovane, dunque CD.
DEICIDE O MORBID ANGEL?
– Qualunque risposta è una bestemmia. Dico Deicide perché è con loro che ho cominciato; la risposta ha un valore meramente affettivo, biografico diciamo.
COME VANNO LE COSE CON LA NECROTHEISM PROD.? È INNEGABILE CHE ALCUNI DEI TOUR UNDERGROUND PIÙ INTERESSANTI DEGLI ULTIMI ANNI SIANO GIUNTI IN ITALIA GRAZIE ALLA VOSTRA AGENZIA. C’È UNA DATA A CUI SIETE PARTICOLARMENTE LEGATI? COSA POSSIAMO ASPETTARCI NEI PROSSIMI MESI?
– La data a cui sono più legato è certamente quella dei Neocaesar: incontrare Mike e Bart è stato davvero emozionante, e da lì è nata la collaborazione che ha dato alla luce lo split Blasphemer/Neocaesar e la guest di Mike van Mastrigt su “The Stumbling Block”, terzo pezzo del nostro nuovo disco. Che dire? Non avrei mai immaginato che su un mio pezzo ci sarebbe stata la voce storica dei Sinister! Da molto tempo però Necrotheism non è più gestita dalla band ma in completa autonomia dal nostro Nicolò Brambilla. Il suo ottimo lavoro è sotto gli occhi di tutti e meriterebbe ancora più incoraggiamento e supporto, perché non è uno scherzo portare qui band dall’estero e metterle nelle migliori condizioni possibili per fare uno show di qualità, lasciando a loro e ai promoter quell’impressione di professionalità che li spinge a tornare. I rischi sono tanti e i vantaggi inconsistenti: queste cose le si fa esclusivamente per passione e, fortunatamente per tutti a Milano, lui ne ha da vendere. Nel giro di pochissimo tempo ha consolidato Necrotheism e fatto anche la prima edizione del suo fest; le band che porta sono selezionatissime e l’organizzazione impeccabile. A breve (31.03) Necrotheism porterà un package letale: Krisiun, Gruesome e Vitriol. Non vedo l’ora!
CHE PROGRAMMI AVETE PER LA PROMOZIONE DI “THE SIXTH HOUR”?
– Il programma è quello di promuovere “The Sixth Hour” dal vivo e lo faremo anzitutto allo Stige Fest di Parma, in occasione del quale ci sarà il release party italiano. A seguire anche Nice to Eat You (CZ) e Incineration (UK), mentre altri saranno annunciati a breve.