Quasi nessuno se ne era reso conto, ma abbiamo seriamente rischiato di perdere per sempre una delle band più fantasiose e prolifiche dell’intera scena heavy. I Cathedral infatti, dopo avere registrato il fantastico “The Garden of Unearthly Delights”, avevano deciso di porre fine alla loro carriera. Fortunatamente il quartetto di Coventry é tornato sui propri passi, anche se in un certo senso la loro scelta ha lasciato il segno. Dalla reunion (chiamiamola così) in avanti infatti la band capitanata da Lee Dorrian ha deciso di sganciarsi completamente da qualsivoglia cliché, incidendo solo musica nella quale crede realmente, a prescindere dai generi musicali. Succede così che nel nuovo “The Guessing Game”, oltre all’onnipresente componente doom, trovano spazio prog, folk, heavy, rock e molto altro ancora, per un risultato finale che può piacere o meno ma che sicuramente non lascerà indifferenti. Di tutto questo ci ha parlato un ciarliero Garry Jennings, da sempre la metà oscura di Dorrian, nonché autore di gran parte delle musiche della band. Senza altri preamboli sentiamo cosa ci ha detto in una calda serata primaverile…
DOPO L’USCITA DI “THE GARDEN OF UNEARTHLY DELIGHTS” ED IL RELATIVO TOUR DI SUPPORTO AVETE DICHIARATO CHE QUELLO PROBABILMENTE SAREBBE STATO L’ULTIMO ALBUM DEI CATHEDRAL: COSA VI HA FATTO CAMBIARE IDEA?
“Hai ragione, c’è stato un periodo verso la fine del tour durante il quale abbiamo pensato di mollare tutto e di terminare la nostra carriera. Vedi, la stanchezza iniziava a farsi sentire, non abbiamo più vent’anni. Considera poi che i Cathedral non sono mai stati una band che produce degli utili, tanto è vero che tutti noi abbiamo altri lavori che ci tengono impegnati. In più ora ci sono dei doveri familiari che fanno sì che la musica, che da sempre abbiamo vissuto come un hobby e come una cosa che ci piaceva fare più che come un lavoro, cominciasse a diventare una parte troppo ingombrante nelle nostre vite. Ne abbiamo parlato molto tra noi, ne abbiamo discusso e siamo giunti alla conclusione che ‘The Garden Of Unearthly Delights’ sarebbe stato il nostro canto del cigno. Oltretutto avevamo composto un brano mastodontico come ‘The Garden’ che durava ventisette minuti ed al cui interno c’era la summa di tutto ciò che noi come band avevamo portato avanti durante la carriera: quale epitaffio migliore di quello, quindi? A quel punto i Cathedral potevano considerarsi un’esperienza conclusa. Mesi dopo, quasi per scherzo, ci siamo sentiti di nuovo e, tra una birra ed una risata, abbiamo imbracciato gli strumenti: non nego che la cosa mi mancava molto. A quel punto, senza nessun impegno e nessuna pressione, abbiamo deciso di provare a fare qualcosa, a vedere cosa sarebbe uscito da una sessione di prove: se il risultato non fosse stato all’altezza il problema non si sarebbe posto, sarebbe morto tutto li. Invece abbiamo capito che eravamo ancora in grado di scrivere buona musica ed il fatto di poterlo fare senza pressioni o senza scadenze ci ha portato a comporre materiale anche molto differente dai nostri standard, ma comunque di buona fattura. La cosa non ci ha preoccupato più di tanto, come dicevo prima, i Cathedral non sono una gallina dalle uova d’oro, non sono macchine da soldi come possono essere gruppi quali Manowar o Testament, per citare i primi che mi vengono in mente, intorno ai quali girano guadagni interessanti. Noi non suoniamo per i soldi, lo facciamo perché siamo convinti di avere avuto buone idee e per passione verso il doom e verso la musica tutta. Ecco perché, nonostante tutto, siamo ancora qui a festeggiare il nostro ventesimo anno di carriera”.
ENTRIAMO NELLO SPECIFICO DEL NUOVO ALBUM. “THE GUESSING GAME” E’ UN DOPPIO CD MONUMENTALE: COME MAI QUESTA SCELTA?
“Molto è dipeso dallo stato d’animo con il quale ci siamo accostati al lavoro, che è quello che ti ho esposto poco fa. Quando ci siamo approcciati alla scrittura non avevamo idee particolari, salvo quella di concederci la massima libertà possibile. Abbiamo quindi inserito nel songwriting molti input che in precedenza non avremmo utilizzato, pescando davvero a fondo nelle nostre influenze. Ovviamente eravamo partiti dall’idea che il nuovo album dovesse essere un lavoro singolo, non certo un doppio. Durante le lavorazioni però ci sembrava che le composizioni stessero prendendo due direzioni ben distinte tra loro: da una parte seguivano la strada del doom, dall’altra quella del rock. Anzi, per essere più precisi: la mole di materiale era tanta che avremmo potuto comporre un album doom ed uno rock. Avevamo praticamente già pronti due album. Dapprima abbiamo pensato di incidere un full length e un EP contenente il materiale più sperimentale, come già successo in passato, ad esempio con ‘The Carnival Bizarre’ ed ‘Hopkins’, ma così facendo avremmo dovuto rinunciare a dei brani che ritenevamo buoni. Così è saltata fuori l’idea del doppio album, che ha subito messo d’accordo tutti e serviva anche per far capire che i Cathedral dopo vent’anni erano ancora in ottima forma e per mettere in chiaro una volta per tutte che la band non può più essere considerata solamente doom. Siamo entrati in studio a novembre con le idee piuttosto chiare e abbiamo chiesto a Warren Ryker di darci dei suoni molto rock, pur cercando di differenziare il lavoro da brano a brano. Ci siamo divertiti anche ad utilizzare strumenti lontani dal metal, come ad esempio il mellotron: è vero che già in passato ne avevamo fatto uso, ma mai come in dosi massicce come in questo caso”.
ORAMAI VI MUOVETE TRA PROG, PSICHEDELIA, DOOM, ROCK, FOLK E METAL: POSSIAMO CONSIDERARVI COME GLI ALFIERI, I PIONIERI DI UN NUOVO “NON-GENERE” COME IL FREE METAL?
“Hai centrato il bersaglio! Lungi da noi sentirci alfieri o pionieri di qualcosa, però il nostro modo di intendere la musica va oltre ogni definizione e oltre i confini di un genere predefinito. Oggi non abbiamo più vent’anni, i nostri gusti musicali si sono evoluti e raffinati: dietro al nostro amore che dura tutt’ora per Witchfinder General e Black Sabbath abbiamo scoperto mondi nuovi e differenti che pian piano ci hanno conquistato e che noi ovviamente cerchiamo di riproporre secondo le nostre sensibilità. Il prog, il folk, la psichedelia… tutta roba che amiamo, così come amiamo tantissimi altri generi! Sicuramente siamo cambiati, ma sempre rimanendo fedeli a noi stessi e non svendendoci mai! Non ci piace la musica monodimensionale, non vogliamo comporre sempre lo stesso album per fare contenta la gente. Anzi, credo proprio che i nostri fan ci seguano proprio perché ogni volta è come la prima volta: cerchiamo di stupirli, di farli ragionare. Non si può prendere un lavoro dei Cathedral, ascoltarlo un paio di volte ed etichettarlo: serve del tempo per entrarci dentro e capirlo, solo così si può arrivare alla sua essenza”.
SEMBRA UN APPROCCIO MOLTO SETTANTIANO ALLA MUSICA…
“Non sono completamente d’accordo: negli anni settanta c’erano meno paletti, ma c’erano anche meno generi musicali. A parte le grandissime band che facevano ciò che volevano, anche nei seventies c’erano dei solchi da seguire, magari più larghi e dai confini meno delineati, ma comunque c’erano. Difficilmente una band rock si metteva a fare jazz o una funk a fare prog. Noi, soprattutto con questo ultimo album, vogliamo toglierci di dosso ogni etichetta e per fare questo abbiamo cercato di abolire i confini tra i generi musicali”.
CI PUOI PARLARE DEL BRANO “DEATH OF AN ANARCHIST”? E’ DEDICATA A QUALCUNO IN PARTICOLARE?
“Il brano è dedicato a noi stessi e a quelli come noi. Quando eravamo ragazzini, nel nostro ceto sociale e nelle zone dove vivevamo era un fiorire di cultura anarchica. Noi ne eravamo intrisi e lo siamo ancora, inutile negarlo. Volevamo cambiare la società, ma alla fine abbiamo appurato che è la società che ti cambia. Abbiamo appurato sulle nostre pelli che la via anarchica purtroppo non è riuscita ad incanalare il pensiero delle masse verso un mondo più giusto ed egalitario ed in questo senso è una sconfitta. ‘Death Of An Anarchist’ è per quelli come noi, come molti nel mondo, che nonostante tutto ancora credono di avere combattuto, lottato e vissuto per dei principi che riteniamo giusti, oggi più che mai. E’ un brano che parla di idealismo, di sconfitte amare, del ritrovare o perdere se stessi, della gente che indossa una maschera pur di sentirsi parte della società, degli schiavi del sistema, di gente che ha mollato l’ideale anarchico e che ha tradito quello che è nell’intimo. Ci chiediamo se queste persone quando si guardano allo specchio riescono ancora a riconoscersi o se non provano vergogna per ciò che stanno facendo. In definitiva cantiamo il fatto che l’anarchismo è divenuto una filosofia più che una prassi”.
COME AVETE CONVINTO ALISON O’DONNELL DEI MELLOW CANDLE A PARTECIPARE ALL’ALBUM?
“Quella è stata farina del sacco di Lee! Noi tutti siamo grandi fan dei Mellow Candle e di Alison, tanto che Lee per anni ha tentato di conoscerla di persona. La cosa è avvenuta qualche tempo fa e da allora tra i due è nata una bella amicizia. Mentre stavamo componendo i nuovi brani abbiamo pensato che la voce di Alison avrebbe donato quel tocco di folk in più che era esattamente quello che ci serviva. Lee allora l’ha contattata per proporre la cosa e lei si è dimostrata entusiasta dell’idea. Alison è una persona fantastica che crede realmente in ciò che fa e mette una grande passione nella propria musica. Magari là fuori alcuni di voi saranno sorpresi della nostra scelta, che pesca così lontano dal metal ma anche dal rock, ma rivendichiamo con forza quanto abbiamo fatto: non componiamo brani per fare soldi o per ottenere consenso, ci piace fare quello che vogliamo e se serve andare controcorrente. La buona musica spesso e volentieri fa a pugni con la notorietà”.
“CATS INCENSE CANDLES AND WINE” E’ IL VOSTRO BRANO IN ASSOLUTO PIU’ SEMPLICE E RIMANDA AL FOLK ED AL ROCK TARDO SESSANTIANO DEI THE WHO. COME E’ NATA QUESTA CANZONE?
“Potrei rispondere molto semplicemente che è nata improvvisando, come tutte le altre. Ci siamo accorti subito della piega molto easy del brano, ma ci piaceva così, anzi direi proprio che lo adoriamo. Hai detto bene, folk e rock sono la struttura portante della canzone, ma non abbiamo rinunciato ad inserire momenti prog e un certo mood di fondo che fa capire che gli strumenti li suonano sempre i Cathedral! Comunque sia ci piace ‘Cats Incense Candles And Wine’ in quanto ha un sound differente, molto più limpido e pulito rispetto al resto delle composizioni. Warren Ryker è riuscito a cogliere appieno quello che volevamo, portando il tutto nella giusta dimensione sonora”.
COSA CI DICI INVECE DI “JOURNEYS INTO JADE”, CHE CELEBRA I VOSTRI VENT’ANNI DI CARRIERA? COME MAI L’AVETE COMPOSTA?
“Per vanità, ovvio (ride, ndR). No, direi che l’idea ci stuzzicava, anche se il tutto è partito quasi per gioco, come una specie di parodia della nostra carriera. Poi alla fine è saltata fuori questo brano completamente autoreferenziale che però gode di una sua propria dignità e la cosa ci è piaciuta. Sul precedente album avevamo già composto quello che doveva essere il nostro brano d’addio, quello di fine carriera, ovverosia ‘The Garden’, quindi non potevamo ripeterci. Adoriamo le lunghe suite e le infinite fughe strumentali, ma avevamo già proposto l’idea, quindi abbiamo optato per questa soluzione”.
DI COSA TRATTANO I TESTI?
“Fondamentalmente, da vecchi anarchici quali siamo, i nostri testi sono votati all’ anti-establishment e si scagliano anche contro le religioni. Naturalmente, date le tematiche toccate, spesso e volentieri veniamo tacciati di essere una band politica, ma non lo siamo assolutamente! Noi non ci occupiamo di politica, non diciamo che siamo di destra o di sinistra, non diamo indicazioni di voto o consigli a chicchessia. Noi siamo una band i cui membri hanno idee anarchiche dovute al loro background sociale e culturale e nei nostri testi ci capita di parlare di cose che vediamo e che non vanno bene. Al limite parliamo del degrado della politica nella sua globalità, a prescindere da labour e tories, parliamo dell’ingerenza delle religioni nella vita politica e della loro assenza quasi totale nel tessuto sociale, parliamo di violenze perpetrate ai danni di interi popoli oppressi, oppure di ingiustizie sociali o ancora, come nel brano ‘Requiem For The Voiceless’, di violenze sugli animali. Tocchiamo temi delicati e sicuramente politici, ma non siamo una band politica in nessun modo”.
QUAL E’ LA RELAZIONE TRA I VOSTRI ARTWORK, SEMPRE PIUTTOSTO ONIRICI E LA VOSTRA MUSICA?
“Dovrei girare la domanda a Dave Patchett, i gangli di collegamento tra artwork e musica sono quelli della sua mente (ride, ndR). Solitamente l’ iter è che noi diamo degli spunti a Dave che, in base a testi e musica, inizia a buttare giù degli schizzi preparatori. Gli schizzi diventano sempre di più e sempre più complessi fino a che viene alla luce una sorta di idea di fondo che a quel punto viene sviluppata, fino ad arrivare al prodotto finito. Dave è una garanzia per noi, il suo stile è assolutamente perfetto per la nostra musica. In ‘The Guessing Game’ poi è stato stratosferico. La cover è solo la punta dell’iceberg: quando aprite il booklet e vi appare l’immagine intera dell’ artwork rimarrete davvero a bocca aperta dalla meraviglia. Grande Dave!”.
QUALCHE MESE FA I DOOMSTER INGLESI MOSS DURANTE UN’INTERVISTA HANNO PROPOSTO L’IDEA CHE LA GRAN BRETAGNA E’ UNA NAZIONE ADATTA AL DOOM E CHE LA LORO ISPIRAZIONE PARTE PROPRIO DA DOVE VIVONO. E’ COSI’ ANCHE PER VOI? LA GRAN BRETAGNA ED IL DOOM METAL SONO UN BINOMIO CHE VIAGGIA A BRACCETTO?
“Sai, è una suggestione interessante e così su due piedi non sono sicuro di sapere rispondere. Istintivamente ti posso dire di sì, che giocoforza la terra dove vivi influenza ciò che fai. Pensa a tutte quelle band svedesi che suonano death o alle doom band finlandesi o al black norvegese: lì l’imprinting della nazione si sente eccome! Per ciò che concerne il binomio Gran Bretagna – doom però non sarei così sicuro della cosa: il doom non è mai stata una musica al centro dell’attenzione, anche se negli ultimi anni la scena si è ampliata e c’è più attenzione verso le sonorità slow. Non trovo però il nesso tra la musica e la Gran Bretagna. Certo, la nostra è una terra ricca di paesaggi naturali ed umani ed i ragazzi dei Moss possono senza dubbio esserne stati influenzati, però, almeno nel nostro caso, questo parallelo è un po’ un azzardo”.
RIESCI A SPIEGARTI COME MAI IL DOOM METAL E’ RIMASTO UNO DEGLI ULTIMI BALUARDI DOVE PROSPERA IL VINILE?
“Non so spiegare la cosa, qui ci vorrebbe un sociologo, però posso azzardare delle spiegazioni: a mio parere il doom, essendo un genere estremamente di nicchia, vive ancora basandosi sui contatti umani, sui consigli scambiati a voce, sulla forza di piccolissime etichette che hanno la costanza di pubblicare roba che altrimenti sarebbe impossibile ascoltare. Tutto questo ha un nome e si chiama passione… e quando nella musica ci si mette passione, il formato di ascolto più idoneo rimane il vinile, senza ombra di dubbio. Considera anche che il doom è una musica particolare, che spesso vive di basse frequenze e di standard fuori dall’usuale e quindi risente più di altri generi della compressione che gli mp3 attuano. La qualità di un brano downloadato è infinitamente inferiore a quella dei vinili e anche a quella dei CD, ovviamente. Un amante del doom difficilmente scaricherà selvaggiamente i suoi album preferiti, ma, proprio perché realmente appassionato e al di fuori di qualsivoglia logica commerciale, preferirà acquistarli originali per potersi gustare l’ artwork ed i testi, per poter leggere i ringraziamenti o solo per l’esperienza tattile di tenere in mano il booklet durante l’ascolto. Sembrano tutte piccolezze ma servono a creare quell’atmosfera che un mp3 non riuscirà mai a ricreare. Il download digitale va bene per la musica senz’anima, per il doom, il rock, il prog e tutta la musica di qualità ci vuole il supporto fisico, non ci sono dubbi”.
GRAZIE GAZ, ABBIAMO TERMINATO. COME ULTIMA COSA TI CHIEDO SE TORNERETE IN ITALIA IN TOUR…
“Innanzitutto grazie a voi per l’intervista. Sì, anche se per ora non abbiamo programmato date dalle vostre parti ci torneremo di sicuro. Anche in tour vogliamo portare quella ventata di cambiamento che abbiamo intrapreso con il nuovo album. Ci spiace quindi per i fan più oltranzisti, ma cercheremo di estromettere dalla setlist le varie ‘Vampire Sun’, ‘Utopia Blaster’ e compagnia bella che ci accompagnano da anni. E’ ovvio che amiamo quei brani, che sono quelli che ci hanno aiutato più di ogni altra cosa ad arrivare dove siamo ora, ma proprio perché li amiamo vogliamo preservarli, non vogliamo suonarli controvoglia o svogliatamente. Abbiamo voglia di novità, di proporre nuove canzoni o roba che non suonavamo da anni, la routine alla lunga diventa letale e suonare ‘Utopia Blaster’ per tutti i concerti della tua vita è una cosa che non ha senso. D’altronde i nostri fan ci hanno sempre seguito e credo che capiranno e continueranno a farlo, dato che anche loro in vent’anni si saranno evoluti: magari in maniera differente dalla nostra, ma comunque il cambiamento ci deve essere stato. Ancora una volta grazie a tutti per il supporto e a presto”.