Abbiamo esaurito le parole per descrivere i Cattle Decapitation e la loro parabola evolutiva. Una traiettoria che, da esordi di stampo death metal/goregrind marcissimi ha condotto la band di San Diego ai vertici della catena alimentare estrema, con il recente “Terrasite” a rappresentare l’ennesimo attestato di talento e inventiva conseguito negli ultimi tre lustri (diciamo dalla pubblicazione di “The Harvest Floor” in poi).
Un’opera a fuoco come poche altre nella carriera del quintetto, seconda forse solo all’imprescindibile “Monolith of Inhumanity”, in cui le tensioni melodiche e sperimentali degli ultimi lavori hanno trovato l’incastro perfetto con la violenza death/grind da sempre alla base del suono Cattle Decapitation, per un risultato finale che in queste settimane – non a caso – sta facendo incetta di elogi tra il pubblico e la critica. Metalitalia.com non intervistava i Nostri da un po’, e possiamo dire che sia stato un vero piacere tornare a parlare con Josh Elmore, chitarrista del gruppo e braccio destro del frontman/membro fondatore Travis Ryan; un musicista appassionato, cordiale e loquace come pochi altri, che – come vedrete – non si è affatto tirato indietro dallo sviscerare le proprie argomentazioni nella chiacchierata-fiume su Zoom dello scorso aprile…
PRIMA DI PARLARE DEL NUOVO ALBUM, MI PIACEREBBE FARE UN PASSO INDIETRO. A QUESTO PROPOSITO, CREDO CHE “DEATH ATLAS” PASSERÀ ALLA STORIA COME UNO DEI DISCHI PIÙ PROFETICI DI SEMPRE, SOPRATTUTTO SE PENSO A TITOLI COME “BRING BACK THE PLAGUE” O A PASSAGGI COME “WE DESERVE EVERYTHING THAT’S COMING – WE TOOK THIS WORLD TO OUR GRAVES – WE MADE ITS CREATURES OUR SLAVES“. QUAL È STATA LA VOSTRA RIFLESSIONE AL RIGUARDO? UNA SORTA DI “VE LO AVEVAMO DETTO”?
– Parlerò in vece di Travis: dal punto di vista dei testi, per quel disco ci siamo voluti concentrare sulla fine della razza umana, anche per mezzo della pestilenza. Quando poi è uscito, a fine novembre 2019, il Covid era ancora alle primissime fasi, e non c’era grande consapevolezza della situazione e di quello che sarebbe successo. Di lì a marzo 2020 tutto si è fermato, e molte persone hanno iniziato a vedere “Bring Back the Plague” come una sorta di profezia, pensando “Forse ci meritiamo davvero una nuova peste bubbonica”.
“Death Atlas”, e parte del concept attorno cui ruota la band, è un avvertimento. L’origine della pandemia è stata umana, nella misura in cui l’uomo non ha fatto nulla per evitare che accadesse. Col senno di poi, è riuscita a colpirci sia su larga scala, sia all’interno della nostra sfera personale, nel modo in cui interagiamo con gli altri. È come se fosse partita dal macroscopico per poi spostarsi al microscopico, livellando tutto. La fiducia che molti riponevano nell’uomo e nel sistema in cui vivevano è stata colpita molto duramente dalla frustrazione e dallo sconforto, trasformandosi in odio. E l’odio, ma questa è solo la mia interpretazione, nasce dalla paura di essere delusi ancora, ancora e ancora dall’umanità stessa. Un sentimento che, dal canto nostro, abbiamo sempre cercato di restituire con ciò che suoniamo.
La band esiste da circa ventisei anni, ma solo nell’ultimo periodo abbiamo affinato il nostro stile facendo quadrare tutto: musica, testi, voci, eccetera. Ai tempi di “Human Jerky” e “Homovore” – tecnicamente due full-length, ma lunghi quanto un EP – parlavamo di diritti animali e altre cose di questo tipo, avendone però una concezione limitata.
Siamo progrediti col tempo, prima col passaggio alla Metal Blade e poi con la pubblicazione di “The Harvest Floor”. Con quel lavoro abbiamo allargato notevolmente i nostri orizzonti, e Travis ha iniziato a trovare altre tematiche da esplorare e da cui essere infastidito e preoccupato. Come noi dal punto di vista musicale, anche lui è cresciuto a livello di scrittura dei testi, con una prospettiva acquisita grazie al tempo e alle esperienze di vita. Tornando a quello che dicevi e al carattere profetico di “Death Atlas”, non abbiamo vissuto la cosa come una pacca di congratulazioni sulla spalla, della serie “Bravi, avevate ragione!”. Non è il modo giusto per dirlo. Tra di noi, è stato più come un “Avremmo preferito non averci visto giusto”.
I Cattle Decapitation parlano di certe cose da anni, ma da lì a sperare che si realizzino ce ne passa. Ci piacerebbe però che le persone fossero più consapevoli. Questo è il punto. Credo che la nostra visione del mondo fosse chiara anche prima, e che dopo la pandemia sia solo più minacciosa e reale. Puoi essere completamente in disaccordo con essa. Va bene. Non diciamo a nessuno cosa fare o pensare. Ma in questo caso sì, abbiamo avuto ragione.
“DEATH ATLAS” HA RAPPRESENTATO SICURAMENTE UN CROCEVIA IMPORTANTE NELLA VOSTRA CARRIERA, SPINGENDO IL VOSTRO SONGWRITING IN UNA DIREZIONE MOLTO PIÙ PROGRESSIVA ED ESPANSIVA. CONSAPEVOLI DI CIÒ, COME VI SIETE APPROCCIATI ALLA STESURA DEL NUOVO MATERIALE?
– Appena uscito, a fine 2019, avevamo grandi progetti, come sempre appena pubblicato un disco. Fare un tour mondiale di due anni, tornare a casa, iniziare a pensare all’album successivo, bla bla bla. Naturalmente, tutte cose andate in fumo nel giro di qualche mese. Siamo stati costretti a ripensare al futuro. Abbiamo tergiversato per tutta la prima parte del 2020, dicendoci “Okay, torneremo operativi a luglio, non potrà durare così a lungo”. Poi però è arrivata l’estate, e abbiamo realizzato che non sarebbe finita tanto presto. Dovevamo fare il punto della situazione, capire cosa stesse succedendo e trovare il modo di starci in mezzo. Ci siamo messi a fare i calcoli su parecchie cose, anche sui tempi di realizzazione delle copie fisiche di un nuovo disco, visti i ritardi subiti dall’industria musicale. Abbiamo fatto un po’ di matematica su quella merda, fondamentalmente.
C’era poi un’altra questione, più legata all’ispirazione. Avevamo registrato “Death Atlas” nella primavera 2019 (ricordo che eravamo a Denver e che nevicava debolmente), poi lo avevamo pubblicato e, da musicista, ero già pronto ad entrare in quello che chiamo ‘stand-by creativo’. In un certo senso, è come se spegnessi quel lato di me per concentrarmi sulla promozione e sui tour, sapendo di doverlo sì riaccendere, ma dopo diverso tempo. Una pausa per rigenerare la creatività. Quindi eravamo un po’ preoccupati, perché non c’era stato modo di viverla. Non ci sentivamo cresciuti come artisti, persone, qualsiasi cosa. Nel nostro caso, il lasso di tempo fra un lavoro e l’altro è sempre servito per acquisire nuove influenze, affinare la tecnica e l’uso degli strumenti, metabolizzare quel materiale, e così via. Quando la pandemia è scoppiata, avevamo tenuto un tour in Nord America ed eravamo nel mezzo di una tournée in Australia, Nuova Zelanda e Giappone. Quindi abbiamo avuto una quantità ridicolmente breve di tempo per assorbire “Death Atlas”. È stato davvero strano tornare a casa in quel momento.
A giugno 2020 però ci siamo convinti a fare un tentativo, provando a scrivere liberamente. È stato comunque complicato: David vive a Seattle, Ollie a Montreal, mentre io ho vissuto a Belgrado, in Serbia, fino alla fine dello scorso anno, mentre ora sono a Berlino. In pratica, tre quinti della band dovevano viaggiare per raggiungere il nostro quartier generale a San Diego. Il che significava, nel mio caso, farsi venti ore di aereo, esercitarsi e scrivere per qualche giorno, tornare a casa, rimettere mano alla musica per tre settimane e poi ricominciare da capo. Il contesto in cui abbiamo lavorato, rispetto ai dischi precedenti, è stato sicuramente più difficoltoso, ma ce l’abbiamo fatta.
Da un punto di vista stilistico, abbiamo lavorato molto sulle ritmiche. Sai, la nostra è sempre stata una band veloce. E i blast-beat ovviamente ci sono ancora, ma con “Terrasite” volevo esplorare il concetto di pesantezza in modo più tradizionale. Volevo che ci fossero spazi, all’interno del disco, in cui non dover suonare necessariamente alla velocità della luce, riempiendo il suono, giocando con le poliritmie e, più in generale, scavando negli aspetti ritmici della nostra proposta. E così abbiamo fatto. Come detto, in “Terrasite” c’è comunque un sacco di materiale veloce, ma penso che la differenza, in termini di studio e ricercatezza del groove, si senta. E per quanto riguarda le chitarre, queste riprendono le stratificazioni atmosferiche di “Death Atlas”, rendendole però più complesse e maestose. Io e Bel, l’altro chitarrista, suoniamo cose differenti per due terzi del tempo. Anche su suggerimento di Travis, abbiamo realizzato un disco compatto. Dieci canzoni, senza intermezzi, con gli eventuali intro inglobati in quei pezzi. Il contrario di “Death Atlas”, che invece era diviso in blocchi delimitati da parentesi strumentali a sé stanti. In sostanza, abbiamo incorporato tutte queste suggestioni e lavorato sodo per dare corpo alla visione che avevamo in mente, e sono convinto che il risultato finale funzioni bene.
COME HAI DETTO, SI TRATTA DI UN LAVORO MOLTO AGGRESSIVO E COMPATTO, CON UN’ATMOSFERA DOLENTE E RASSEGNATA SULLO SFONDO. SOPRATTUTTO IL FINALE COMPOSTO DA “SOLASTALGIA” E “JUST ANOTHER BODY” TROVO SIA DAVVERO MALINCONICO…
– “Solastalgia” è sicuramente la mia canzone preferita del disco. Parte in maniera tutto sommato tradizionale; classico materiale firmato Cattle Decapitation molto pesante e aggressivo. Poi però, arrivati al finale, si espande e sfocia in una parentesi atmosferica enorme. Lì dentro c’è tutto quello che oggi identifica il nostro suono.
E lo stesso discorso può essere fatto, con qualche variazione, anche per “Just Another Body”, che tra l’altro è stato l’ultimo pezzo composto per l’album. Lo scheletro è al 100% death metal, ma complessivamente è arricchito da diverse spezie, dall’apertura di piano alle stratificazioni di chitarra che rendono certe parte quasi orchestrali. Sono molto contento della sintesi che siamo riusciti ad ottenere e del mood triste catturato in quei minuti. È un po’ quello che respiravamo come abitanti del mondo in quei mesi.
ANCORA UNA VOLTA, NON SI PUÒ DIRE CHE L’ARTWORK DI WES BENSCOUTER PASSI INOSSERVATO. TI ANDREBBE DI SPIEGARCI L’IDEA ALLA BASE DEL SOGGETTO IN COPERTINA?
– Anche in questo caso, parliamo di una cosa seguita in prima persona da Travis, che saprebbe risponderti sicuramente meglio. Lavora sul concept della band in continuazione, annotandosi idee, riflessioni e spunti per poi riprenderli in mano nel corso del tempo. “Death Atlas” ruotava intorno al concetto di finalità, di giudizio finale. Nel booklet, ogni membro della band era stato rappresentato come una statua di Pompei, vittima di una catastrofe naturale che ne aveva intrappolato il corpo nella cenere.
Travis è ripartito da lì, per poi pensare agli scarafaggi, tra gli esseri viventi più resistenti al mondo, in grado di sopravvivere anche ad un olocausto nucleare. Nella fiction da lui ideata, i corpi di cenere diventano dei bozzoli in cui l’uomo può ibridarsi con questi insetti e compiere un ulteriore step evolutivo, se così vogliamo chiamarlo… Una fusione delle due specie che ribadisce la distruttiva tenacia dell’umanità, il cui solo scopo è divorare ciò che gli capita a tiro per perpetuare la sua esistenza. In copertina vediamo uno di questi esseri emergere dal proprio bozzolo, quasi a sottolineare l’alba di una nuova era. Non a caso, sempre sulla front cover, vediamo il sole sorgere e dell’erba spuntare qua e là, altri elementi che si ricollegano al concetto di rinascita e che ci hanno ispirato per i teaser del disco con la citazione “Life finds a way…” di “Jurassic Park”.
So che Travis sta già iniziando a pensare al prosieguo della storia, seguendo sempre questa traiettoria uniforme. È sorprendente come riesca a pensare in modo creativo, mantenendo la coerenza del nostro concept senza ripetersi. E poi ovviamente c’è Wes, che oltre ad essere un artista straordinario è una persona con cui ci troviamo benissimo a lavorare. È dal 2002 ormai che cattura le idee di Travis in immagini incredibili. Siamo super soddisfatti del suo lavoro e non abbiamo intenzione di rivolgerci a qualcun altro in futuro. La nostra collaborazione andrà assolutamente avanti. Il suo punto di forza, ciò che rende le sue copertine così riuscite, è che per la maggior parte del tempo non lavora con gruppi metal, quindi quando ci si dedica riesce sempre a tirare fuori qualcosa di speciale.
PENSO CHE IL MIGLIOR MOTTO PER DESCRIVERE LA VOSTRA CARRIERA SIA “NON SI SMETTE MAI DI CRESCERE”. DI RECENTE HO RIASCOLTATO “TO SERVE MAN”, ED È IMPRESSIONANTE QUANTO SIETE ARRIVATI LONTANO. COSA PENSI QUANDO TI GUARDI INDIETRO?
– Per un musicista, a prescindere dal genere, credo sia importante utilizzare ogni mezzo a disposizione per migliorare individualmente, facendo crescere di riflesso anche il collettivo della band. Che non significa necessariamente reinventarsi ogni volta. Non credo però che la maggior parte dei gruppi lo faccia. L’approccio dovrebbe essere “Mettiamocela tutta per migliorare e poi vediamo se il risultato finale rispecchia le nostre intenzioni”. Inserire il pilota automatico, per come la vedo io, significa gettare la spugna dal punto di vista creativo, e mi riferisco anche alla scelta di suonare ogni sera sempre gli stessi brani, magari vecchi di venti o trent’anni. Dev’essere frustrante. Quanti gruppi storici pubblicano un disco solo per pagarsi le bollette e per avere la scusa di andare in tour? Dischi di cui la gente, a parte due/tre singoli, non avrà modo di conoscere altro. Poi è ovvio: ci sono anche fan che vogliono esattamente questo e a cui non frega niente del nuovo, ma come Cattle Decapitation abbiamo cercato di abituare il nostro pubblico ad un approccio diverso. Vogliamo invecchiare bene, seguendo nostre le ambizioni e rispettando chi ci ascolta.
A suo modo, “To Serve Man” è stato un disco importante: il primo pubblicato per Metal Blade, il primo con me alla chitarra e, da un punto di vista della resa sonora, un bel passo in avanti rispetto alla cacofonia di “Human Jerky” e “Homovore”. Quei lavori erano stati praticamente registrati in maniera DIY, dato che Jeff Forrest – il ragazzo di San Diego a cui la band si era rivolta – non aveva nessuna esperienza in ambito grind. “To Serve Man” rappresentò quindi il primo, vero passo dei Cattle Decapitation nel mondo della musica professionale; per la prima volta, ascoltandoci, fu possibile capire cosa stessimo suonando, riconoscere le nostre influenze, e così via. Ovviamente, stavamo ancora cercando la nostra identità, non eravamo affatto dei musicisti perfetti, ma se ci ripenso sono fiero del punto raggiunto in quel momento dalla band.
“Humanure” proseguì su quella strada, rendendo il songwriting più elaborato e allungando la durata media delle canzoni. Da due minuti scarsi, passammo a brani di cinque con un mood quasi epico. Anche quello fu un salto importante.
Per “Karma.Bloody.Karma” posso dire più o meno la stessa cosa; per quelli che erano i nostri standard dell’epoca, fu un lavoro davvero sperimentale, e anche adesso ritengo ci sia un sacco di roba strana e ‘avanti’ lì dentro.
Dopo arrivò il turno di “The Harvest Floor”, il primo album con David McGraw alla batteria. Credo che senza di lui non avremmo mai raggiunto i livelli attuali. È un vero fenomeno, e averlo con noi ci ha permesso di realizzare cose che altrimenti non avremmo neppure immaginato. A distanza di anni, in rapporto alla sua qualità, è forse il disco dei Cattle Decapitation più sottovalutato.
“Monolith of Inhumanity” inaugurò invece la nostra collaborazione con Dave Otero, che ottenne un suono super preciso e compatto, in linea col nostro desiderio di sperimentare delle tecniche di registrazione più moderne. Ricordo che ci preparammo a lungo prima di entrare in studio, e che con quel lavoro crescemmo moltissimo sia come musicisti, sia come individui. In generale, nel corso della nostra carriera abbiamo avuto la fortuna di lavorare con degli ottimi professionisti, con cui siamo sempre andati d’accordo: Bill Metoyer, Billy Anderson, Dave Otero… ognuno ci ha dato qualcosa dal punto di vista artistico e umano. Dave, in particolare, ha il dono di tirare fuori il meglio dalle persone e dai loro take, anche quando magari uno è insoddisfatto o non convinto della propria performance. Crea una connessione fortissima con gli artisti con cui lavora, senza essere soverchiante e rendendo produttiva ogni giornata in studio.
SECONDO TE, QUANDO IL DEATH METAL (E LA MUSICA IN GENERALE) DIVENTA QUALCOSA DI PIÙ DI SEMPLICE INTRATTENIMENTO, TRASFORMANDOSI IN UNA VERA E PROPRIA FORMA D’ARTE?
– Partiamo da un presupposto: esistono musicisti che suonano questo genere auspicandosi un riconoscimento da parte della comunità artistica in senso lato, ma non è questo il mio caso. Non vivo in attesa che il metal, il death metal o la musica dei Cattle Decapitation vengano apprezzati al di fuori della nostra nicchia. Credo però che là fuori possa esserci qualcuno in grado di cogliere la vera essenza del metal estremo, di rimanerne affascinato, di andare oltre titoli come “Kill Your Mother, Rape Your Dog” (brano dei Dying Fetus contenuto in “Killing on Adrenaline”, ndR). Mi piacerebbe ci fosse un po’ più di rispetto, quello sì.
Poi di sicuro, agli occhi della gente comune, noi musicisti metal abbiamo un modo terribile di dire le cose ed esternare le nostre emozioni, ma di quello parliamo: emozioni, che sanno andare oltre la rabbia e concetti come spacca, uccidi, distruggi. C’è tanta fragilità, tanta umanità in questa musica. Al tempo stesso, ci sono metallari che liquidano senza troppi complimenti qualsiasi cosa non sia metal. Eppure, alcuni dei musicisti migliori che abbia mai conosciuto e ascoltato vengono da fuori, dal mondo del jazz, della musica classica, del rock… Gente che si esercita e si applica esattamente quanto noi, e che lo fa per il piacere di farlo. Senza chissà quale ricompensa a livello di fama o di denaro.
“TERRASITE” È DEDICATO ALLA MEMORIA DI GABE SERBIAN, MEMBRO FONDATORE DELLA BAND – INSIEME A TRAVIS – SCOMPARSO LO SCORSO ANNO ALL’ETÀ DI QUARANTAQUATTRO ANNI. ANCHE SE NON AVETE MAI SUONATO INSIEME, COSA RICORDI DI LUI E DEL TEMPO TRASCORSO INSIEME?
– Credo di averlo incontrato per la prima volta nel ’97 o ’98, in occasione di un tour che i The Locust (di cui Serbian è stato chitarrista e batterista, ndR) fecero con una mia vecchia band. Quindi ebbi un po’ modo di conoscerlo in quei giorni. Dopo quella tournée venne a trovarmi a Chicago con Dave Astor, il primo batterista dei Cattle Decapitation, e Gabe, sentendomi dire che non ero convinto del gruppo in cui suonavo, disse che se mi fossi trasferito a San Diego avremmo potuto fare qualcosa insieme. Ci pensai e ripensai qualcosa come venti volte, e alla fine decisi di buttarmi.
A dirla tutta, una volta trasferitomi in California, non avviammo nessun progetto, ma mi propose di unirmi ai Cattle Decapitation come secondo chitarrista. Era più o meno l’agosto del 2001. In quel momento i The Locust erano lanciatissimi, suonavano spesso in giro, e Gabe non contava di passare molto tempo in città. Inoltre, sempre in quel periodo, la Metal Blade aveva iniziato a tenerci d’occhio, insieme alla Necropolis che è un’etichetta che ormai non esiste più. Quindi Gabe disse una cosa del tipo “Ragazzi, anche se la cosa mi uccide, perché amo questa band, faccio un passo indietro e cedo il mio posto a Josh”. Facendo un attimo due conti, abbiamo formato una coppia di chitarristi per circa quindici giorni, prima che lui ci lasciasse. Lo split avvenne in toni amichevoli, e restammo amici fino alla fine. Per anni siamo usciti insieme a lui e ai suoi gruppi, che fossero i Dead Cross, i Rats Eyes o i The Locust.
C’è sempre stata una forte connessione; sotto un certo punto di vista, era come se fosse ancora uno di noi. Una cosa un po’ strana, ma che dà un’idea del tipo di rapporto che c’era. La notizia della sua scomparsa, arrivata poco prima che entrassimo in studio per registrare “Terrasite”, ci ha colpito duramente, soprattutto nel caso di Travis, che doveva ancora scrivere i testi di “Just Another Body”, “Solastalgia” e “The Storm Upstairs”. È un evento che lo ha ispirato e segnato nel profondo. In studio, mentre incideva le parti vocali del disco, ha tenuto per tutto il tempo una foto di Gabe affianco al foglio dei testi. La prima parte dell’album si concentra sul concept descritto prima e su riflessioni legate alla pandemia, mentre la seconda è molto più personale. Ciao Gabe.